Autore di TikTok dirime le antiche leggende sulla spezia regina d’Oriente

“Aspetta, aspetta! Collega navigante! Hai mai pensato di poter conoscere l’origine della cannella?” Il vecchio marinaio squadrò l’uomo dalla lunga barba seduto al tavolo della taverna pubblica di Alicarnasso, apparso all’improvviso e quasi casualmente dopo che il vino, accompagnato da un lauto pasto, aveva sciolto la sua lingua di esperto narratore. “Puoi chiamarmi Erodoto, amico. E a dire il vero, lo studio del mondo è la mia professione. Ma non vado spesso per mare…” “Ebbene,” disse il lupo di mare “Ciò è perfetto per i miei scopi. Molti di coloro che hanno viaggiato in lungo e in largo rifiutano la conoscenza altrui… E non crederebbero al mio racconto. Dieci anni fa, quando ero giovane e forte, la mia nave mercantile giunse fino alla distante terra dei Nabatei, dove la gente vive in case di pietra scavate all’interno delle montagne. Ed è lì che venni a conoscenza di una strana usanza: ogni notte di luna nuova, macellati una mezza dozzina di buoi e vitelli, essi ne tagliavano a pezzi le carcasse, trasportandole a dorso di cammello fino alle propaggini di un alto picco avvolto dalla nebbia. Compiuto un tale solenne gesto, dunque, si allontanavano e restavano a distanza di sicurezza, nell’attesa che avvenisse qualcosa…” Erodoto, soltanto parzialmente infastidito per il fatto di essere interrotto, scrutava fisso dentro gli occhi del suo vetusto interlocutore, immaginando ancora una volta il mondo e il modo di vivere di una terra lontana. “Puntualmente, dopo il trascorrere di circa un paio d’ore, sarebbe quindi giunto il verso. CRAA…CRAAK!” Fece l’uomo, gesticolando con le mani il movimento delle ali di un uccello. “Cynnamolgus, l’enorme uccello dalle scaglie simili a quelle di un drago, gli occhi strabuzzati rossi come fossero fiamme di una brace! Bestia ferocissima ma poco intelligente, ascolta a me. Che trasportando i pezzi di carne fino alle alte mensole dei propri nidi, li depone attentamente all’interno. Un grosso errore… Poiché tale carico risulta senza falla eccessivamente pesante. Ed il costrutto abitativo del volatile, suo malgrado, cede per precipitare nelle profondità della valle coi raccoglitori e le loro bestie da soma! Essendo stato costruito con un legno il cui prezioso aroma, ed il sapore, può essere chiamato un cibo degno del Tiranno stesso di Atene.”
Plino il Vecchio, storico latino vissuto a quasi quattro secoli di distanza (23 anni dopo la nascita di Cristo) notoriamente non teneva in alta considerazione la testimonianza citata dall’esimio predecessore nelle sue Historíai, ricche di dettagli coloriti e non sempre plausibili sui popoli distanti del mondo antico. Egli affermava infatti che i venditori di spezie, di ritorno dai loro lunghi viaggi, erano soliti esagerare le storie delle proprie avventure, al fine di poter caricare il prezzo delle loro merci già abbastanza esotiche e misteriose. Ciò detto, la vera origine di una sostanza aromatica e saporita come il kinnámōmon sarebbe rimasta inaccessibile ancora per molti anni, almeno fino alla tarda epoca medievale. Questo forse perché pressoché nessuno avrebbe guadagnato, dal punto di vista commerciale o di soddisfazione del cliente, nel conoscere il nesso dell’intera questione: che faraoni, principi ed imperatori, sovrani, duchi e cavalieri, ogni qualvolta consumavano il costoso e raro ingrediente, stavano assumendo nient’altro che segatura. Di un tipo particolarmente delizioso, d’altronde… Chi l’avrebbe mai detto? La realtà compare sotto i nostri occhi senza il benché minimo preavviso, nell’ultimo spezzone internettiano di Donald Modeste, TikToker dell’isola di Grenada (vedi video originale, richiede registrazione) costruito con il classico sistema ciclico in cui le ultime parole pronunciate si riallacciano all’inizio del discorso. Ma è il contenuto, soprattutto, ad attirare in modo magnetico la nostra attenzione. Poiché sono sorprendentemente pochi, persino tra coloro che utilizzano quella preziosa povere (oggi più che mai accessibile grazie alle dinamiche della logistica contemporanea) a sapere che essa viene dalla semplice corteccia di una certa varietà d’arbusti. Cinque specie in totale, di varia collocazione geografica, sebbene quando ci si trova a riferirsi all’odierno cinnamon confezionato industrialmente, esso provenga principalmente da due piante assai diverse tra loro: il Cinnamomum cassia o cannella cinese, ed il C. verum proveniente dal subcontinente indiano. Che sono così diverse per sapore, gusto e apporto salutare nei confronti dell’organismo umano, che è come se il vino fosse stato etichettato alla maniera del latte di mucca, venendo chiamato come una varietà alternativa della stessa bevanda…

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La scintillante pera a forma di campana che proviene dai frutteti dell’Asia meridionale

Negli ombrosi corridoi asfaltati che percorrono la giungla tropicale, rami bassi e appesantiti, che ricadono esponendo piccoli tesori, oblunghi ed odorosi dall’aspetto particolarmente distintivo. Sono i doni naturali della terra, che il sistema dei tre regni di animali, piante e minerale usano come moneta di scambio, perseguendo quello stato di equilibrio da cui trae l’origine il reciproco benessere dell’esistenza. Sono… Ovunque. Inclusa Internet, dove compaiono all’interno delle foto, stranamente appetitose, che compaiono nei gruppi Facebook e in mezzo alle pagine degli altri social network: “Ah, perfettamente deliziosi.” Oppure: “Che ricordo magnifico della mia infanzia! Da quando sono andato altrove per lavoro, non li ho più trovati.” E tutti sembrano riuscire a commentare quel sapore, tranne chi dall’altro lato dello schermo osserva, interrogandosi sull’effettiva provenienza di quel frutto dall’aspetto particolarmente insolito, nonostante il nome alquanto semplice, persino mondano. “Mela d’acqua” o “Mela di Cera” per quanto l’aspetto tenda a ricordare, più che altro, quello di una pera. E manchi d’appartenere, nella realtà dei fatti, all’una e l’altra categoria, rientrando piuttosto in un vasto genere dalla definizione scientifica di Syzygium, di piante appartenenti alla famiglia delle mirtacee i cui frutti rientrano piuttosto nel gruppo delle bacche. Essendo ragionevolmente privi, in altri termini, di una componente interna legnosa e/o scorza dura, ad ulteriore contributo delle proprie straordinarie qualità alimentari. Mentre viene consumato, generalmente crudo al prelievo diretto dall’albero, ma anche all’interno di notevoli marmellate, capaci di mantenere integre le sue presunte qualità benefiche ed anti-infiammatorie. Non che occorra giustificarsi mediante alcun tipo di finalità ayurvedica e medicinale, per voler mangiare il più possibile qualcosa di così attraente, nel suo naturale e lucente splendore nonché a quanto dicono, anche il gusto particolarmente rappresentativo. A patto, s’intende, di voler in qualche modo generalizzare, vista la straordinaria quantità di varianti, sia selvatiche che coltivate dall’uomo, che condividono lo stesso ampio areale d’appartenenza. A partire dalle rosse Syzygium malaccense, originarie della Malesia e spesso tra quelle maggiormente messe in mostra su Internet, causa il loro aspetto straordinariamente fotogenico e le dimensioni molto interessanti. Senza dimenticare le S. samarangense, una vista tipica dell’isola di Java e il resto dell’Indonesia, dalla forma maggiormente tondeggiante e una colorazione tendente al verde pallido ma non meno invitante. E che dire invece delle S. cumini dalla grandezza approssimativa di un chicco d’uva, anche dette prugne di Malabar o Jambalar? Benché risulti opportuno specificare la maniera in cui, data la natura da sempre considerata utile all’umanità, molte specie di questa pianta siano appartenute al gruppo delle cosiddette “piante della canoa” trasportate in lungo e in largo durante l’antica diaspora polinesiana. Arrivando a comparire anche nelle isole Hawaii, in buona parte dell’Australia ed in epoca più recente, persino in Jamaica, dove sono alla base di un’industria fiorente con ottimi ritorni d’investimento lungo tutto il territorio nordamericano. Questo perché la maggior parte delle mele d’acqua, per loro implicita natura, appartengono a quel tipo di frutta tropicale particolarmente difficile all’esportazione, causa la tendenza a maturare presto ed attraversare altrettanto rapidamente il periodo ideale della consumazione, senza neppure prendere in considerazione l’inerente fragilità che si trova diametralmente all’opposto di un valido e sereno trasporto fino a destinazione. Ed è forse proprio per questo, che continua a costituire soltanto uno strano sogno, o lontano desiderio, per buona parte dei suoi molti ammiratori di provenienza europea…

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L’insospettabile valore dei tartufi che abbondano nel sottosuolo dei deserti mediorientali

E, sparito lo strato di rugiada, apparì sulla superficie del deserto qualcosa di minuto, di granuloso, fine come brina gelata in terra. A tal vista i figli d’Israele si chiesero l’un l’altro: «Che cos’è questo?» poiché non sapevano che cosa fosse. Era il pane del Signore. Precipitato giù dal cielo per il suo Volere su coloro che ne avevano bisogno, affinché potessero raccoglierne in proporzione alle proprie reali necessità. Manna: una sostanza in grado di assumere diversi sapori in base alle interpretazioni personali, il che in altri termini parrebbe sottintendere che non aveva nessun sapore. Bianca, lieve, dalla forma discontinua, imprevisto deposito meteorologico dalle caratteristiche decisamente poco chiare alla scienza. A meno di voler interpretare quel dettaglio come una metafora, giungendo in funzione di ciò ad una descrizione ragionevolmente simile a quella di un cibo facilmente identificabile. Quello ricavato dalla famiglia delle Terfeziaceae, funghi ipogei (sotterranei) capaci di restare in paziente attesa nelle condizioni climatiche tra le più secche ed avverse di questo pianeta. Finché a seguito di un’improvvisa pioggia, possibilmente seguita da una certa quantità di fulmini secondo la sapienza popolare, non crescono invisibili al di sotto della superficie dei deserti, assumendo la proporzione e la forma individuale di una patata. Particolarmente noti nell’intera penisola arabica, nel bacino del Mediterraneo, in Kurdistan, Azerbaijan, nel deserto del Kalahari e persino in Cina, questi frutti della terra relativamente rari sono quindi alla base di un florido mercato internazionale, che sebbene non li veda spesso giungere fino all’Europa Occidentale gode di un seguito di letterali appassionati ed ottimi gourmand. Il tartufo del deserto, o desert truffle, possiede quindi molti nome in base alla regione presa in esame: donbalan in Kurdistan, terfez in Algeria e Tunisia, fagga in Kuwait, faq’h in Arabia Saudita. Ma è forse il termine dei beduini viaggiatori del Negev, terfas, ad avere la maggiore valenza internazionale, anche in considerazione del commercio di vecchia data fatto da questi popoli, per una particolare fonte di reddito la cui effettiva gestione e provenienza restarono per lungo tempo un prezioso segreto. In quale modo, in effetti, sarebbe possibile trovare un tale frutto sotterraneo, senza l’impiego assai comune ad altre latitudini di cani o maiali, ovvero creature dotate dalla natura di un senso dell’olfatto sviluppato dall’evoluzione con finalità conformi a tali specifici obiettivi? La risposta è nelle cognizioni ereditarie, lo spirito d’osservazione ed il possesso di una serie di particolari nozioni acquisite. Sembra infatti che con il procedere della stagione delle piogge, verso i mesi di ottobre-novembre, piccole fessure o rigonfiamenti inizino a formarsi nella terra crepata dal sole. In particolari luoghi, caratterizzati dalla presenza di una pianta istantaneamente riconoscibile: l’Heliantenum o rosa delle rocce, particolarmente celebre in Occidente come il dodicesimo dei cosiddetti fiori di Bach. Perciò è proprio tralasciando questi ultimi, le cui presunte capacità omeopatiche non fanno parte della cultura di queste genti, che il cacciatore di tartufi dovrà mettersi immediatamente a scavare, sperando di trovare l’apprezzato fungo, generalmente abbarbicato alle radici del basso cespuglio fiorito. Questo poiché dal punto di vista biologico, i funghi delle terfeziacee vengono classificati come delle micorrize, ovvero simbionti reciprocamente utili della vegetazione di superficie, capaci di sfruttarla al fine di acquisire i necessari zuccheri provenienti dalla fotosintesi, mentre restituiscono in cambio generose quantità di fosforo assorbito direttamente dal suolo arido del deserto. In maniera non dissimile da quanto accade tra il tartufo nero europeo (gen. Tuber) e gli alberi di quercia, nocciolo, salice, leccio e pioppo. Sebbene su una scala decisamente più diffusa e di facile accesso…

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Onggi: il prezioso vaso che respira l’aria della montagna coreana

Avvicinandosi dall’esterno ad una casa tradizionale della penisola coreana, costruita con materiali ecologici come pietra, legno e terra, con un soffitto di tegole ornate che proteggono dalle intemperie le porte e finestre realizzate con semplice carta, sarà possibile talvolta scorgere il piano rialzato che trova la definizione di jangdokdae (장독대) utilizzato principalmente al fine di ospitare nel tempo la collezione di famiglia dei grandi recipienti di ceramica, ricolmi degli ingredienti che costituiscono i due punti cardine nella cucina di questo paese: il misto di varie verdure messe a maturare nel kimchi (김치) e la salsa fermentata di riso, fagioli e peperoncino, chiamata gochujang (고추장). Ciò che immediatamente potrà colpire l’occhio dello spettatore, tuttavia, è la maniera in cui tali vasi ed anfore siano spesso lasciati privi di coperchio, in modo che l’aria possa entrarvi all’interno mentre i batteri continuano imperterriti il processo di trasformazione che permette al sapore di emergere, ed al cibo di conservarsi straordinariamente a lungo. Esistono, in effetti, due modi per sfruttare con profitto questo processo che ha saputo dimostrarsi assai utile per tutto il corso della storia umana presso la penisola che estende a meridione della Manciuria. Il primo, che consiste nell’immagazzinamento lontano dalla luce e dal cuore, in condizioni anaerobiche e strettamente controllate, affinché nulla d’inaspettato possa compromettere la futura consumazione del puro prodotto dell’ingegno culinario nazionale. E la seconda fondata, più di ogni altra cosa, sulle speciali caratteristiche e i pregi unici della ceramica onggi (옹기, 甕器).
Questa espressione infatti, che allude con la sua specifica grafia nell’alfabeto fonetico hangul (한글) alla forma stessa del vaso costituisce una branca separata della produzione di attrezzi gastronomici dalla produzione maggiormente rappresentativa di questo paese, caratterizzata da una finezza decorativa assai ricercata ed avanzate tecniche di vetrinatura secondo la cognizione successiva. Laddove il tipico vaso da fermentazione assume un aspetto grezzo benché armonioso, e privo di caratteristiche fatta eccezione per la sua dote maggiormente importante: la notevole porosità delle pareti, grazie all’impiego di una materia prima rara e preziosa cotta a fuoco lento, affinché non possa svilupparsi alcun tipo di crepa o fessura. Trattasi, nello specifico, di un impasto di terra e fango misto a foglie secche autunnali, aghi di pino e baccelli di semi parzialmente decomposti raccolto in montagna, tale da formare un tutt’uno semi-denso che prima di assumere una forma, viene lungamente compresso e battuto con appositi martelli. Processo lungo e faticoso, quest’ultimo, messo in atto dal gruppo di artigiani specializzati chiamati onggijang (옹기장) e che viene ampiamente dimostrato nel corso di questo nuovo video del canale Eater, dal giovane praticante Jin-Gyu all’interno del suo forno di famiglia. Uno degli ultimi 10 rimasti capaci, per sua stessa amissione, di creare l’onggi tradizionale gradualmente sostituito, nella società contemporanea, da semplici contenitori di metallo, plastica ed una delle scoperte tecnologiche più importanti del XIX secolo: la macchina a energia elettrica per la produzione del freddo. Non può tuttavia esserci un vero kimchi, senza il paziente processo che lo porta ad assumere quel particolare colore, sapore ed odore. Il che equivale a dire che nel profondo del cuore che costituisce la più vera identità coreana, risiede l’antica tecnica per la produzione dell’onggi

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