L’elegante anatra “di mare” che indossa i colori di Crudelia De Mon

Avvicinandosi all’ideale stagno di alcuni degli uccelli acquatici più belli al mondo, il nostro sguardo potrà essere immediatamente catturato da quella vera e propria stella tra i mangiatori di pesci ed alghe, la vivace anatra mandarina, gialla, verde, bianca ed arancione. Per poi spostarsi verso gli eider reali, con i loro becchi gibbosi di colore giallo intenso e l’orgogliosa anatra dalla coda lunga, col magnifico ornamento sollevato che raggiunge la metà della lunghezza del proprio intero corpo. Un distintivo senso della moda, si potrebbe scegliere di commentare il suo aspetto. Ma è con un profondo senso di stupore che soltanto successivamente, tra i recessi periferici sul ramo periferico di quell’acqua limpida e scintillante (capace di specchiare, in tale modo, le conflittuali aspirazioni che conducono ed instradano lo stile nell’abbigliamento degli umani) che ci capiterà di scorgere l’aspetto sopraffino di un diverso tipo di armonia cromatica e situazionale. Quella posseduta da un’anatra RARA che si trova unicamente nei recessi più remoti di un’intero continente popolato dalle genti e le culture di una buona metà del mondo. Dovremo essere nella Russia dell’Estremo Oriente, dunque, in Manciuria o almeno in parte nella Cina dell’estremo settentrione, per riuscire ad incontrare questo insolito tipo di smergo, ovvero ragionevolmente atipico rappresentante di quel genere volatile il cui nome scientifico trae l’ispirazione totalmente arbitraria da un ignoto tipo di pennuto pescatore citato ai tempi dell’antica Roma da Plinio il Vecchio ed altri suoi contemporanei filosofi del mondo naturale. Sebbene sia importante notare come questa specifica accezione di un luogo remoto presenti alcuni tratti di affinità, ed altri di significativa distinzione. Mergus squamatus o “smergo dai fianchi scagliosi” che si può indentificare, in via preliminare, dal possesso di una testa nera dalla cresta scarmigliata e il petto bianco, ma le piume ai lati connotate da un succedersi alternato di figure bianche e nere, così stranamente allusive di un’ipotetica pelliccia ricavata da 101 dalmata recentemente entrati a far parte della propria amorevole famiglia canina. Prima di essere rapiti, intrappolati e “processati” dalla più crudele e orribilmente facoltosa fabbricante di vestiario niente affatto sostenibile nella lunga e articolata storia dei cartoni animati disneyani. Un aspetto certamente frutto di semplici coincidenze, negli alterni viali dell’evoluzione, giacché la funzione di una simile livrea appare finalizzata al riconoscimento degli esemplari maschi da parte delle loro potenziali consorti, che d’altronde non presentano un contrasto altrettanto pronunciato, con la sostituzione di un grigio chiaro nelle scaglie ed una testa di color semplicemente marrone. Ma lo stesso becco appuntito e seghettato di una tonalità rosso intensa, usato sapientemente nelle ore di caccia di queste vere e proprie cercatrici onnivore dei laghi, torrenti e fiumi dell’entroterra, nonostante la loro formale appartenenza ad un gruppo definito convenzionalmente come anatre dell’acqua salmastra o marina. Un vero e proprio scherzo della classificazione tassonomica, quando si considera come tra tutti gli smerghi, soltanto quello piuttosto comune dal petto rosso (M. serrator) vanta l’abitudine di vivere nell’acqua salmastra, potenzialmente abbandonata dai suoi cugini già nell’epoca dei primi fossili riconducibili alla line evolutiva di questi uccelli, databili attorno ai 14 milioni di anni fa. Una lunga camminata, da compiere mediante l’utilizzo di grossi e rumorosi piedi palmati…

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L’insegnamento ecuadoregno del variopinto aracnide col dorso di tartaruga

C’era una volta un ragnetto salticida che si vantava di saltare più lontano di qualsiasi altro membro della sua classe, le otto zampe raccolte elegantemente sotto l’addome mentre si spostava da un ramo all’altro della foresta pluviale. E ogni volta che passava dalla dimora del suo distante cugino Encyosaccus dagli stravaganti e inutili puntini dorsali, non mancava di rivolgergli incalzanti parole di scherno: “Guarda come sei lento, con quel tuo dorso niente affatto aerodinamico. E coi tuoi occhi piccoli e poco sviluppati, non ci vedi praticamente nulla. Scommetto che in un giorno non potresti riuscire a prendere neanche quattro mosche di seguito. Puah-teh-tico!” Al che l’involontario e piccolo interlocutore, ruotando su se stesso come il cestello di una lavatrice, alzò deliberatamente il suo chelicero sinistro, rispondendo con voce sottile: “L’arroganza non ti fa onore, cugino. Anche il ragno più agile del mondo può essere battuto, sai?” un sottile strato di rugiada rifletteva la luce del sole, producendo riflessi conturbanti sopra il dorso dai colori di un’arancia “E chi potrebbe mai riuscire a farlo, un rigido e pesante araneide come uno di voialtri costruttori d’ingombranti ragnatele?” Al che il variopinto ragno tartaruga, dopo un attimo di profonda introspezione rispose “Sfida accettata, cugino. Domattina all’alba sopra il ramo mediano dell’albero di quina. Il katidide dalla forma di una foglia sarà il nostro giudice di gara.” Al sopraggiungere dell’ora predestinata, quindi, il ragnetto salticida decise che sarebbe arrivato un po’ in ritardo, per innervosire l’altro concorrente. D’altra parte sapeva molto bene che nessun cacciatore passivo come quel tipo alla moda avrebbe potuto rincorrere e ottenere risultati altrettanto degni di essere inseriti nel dorato albo dei catturatori di ditteri nell’aria umida e pesante del sottobosco. Ma nell’avvicinarsi deliberato al luogo predestinato, si accorse di qualcosa d’insolito. Le sue zampe posteriori, infatti, stavano iniziando a rimanere impigliate sotto lo sguardo attento di una distante ed amichevole coccinella. Progressivamente, un balzo dopo l’altro, i suoi movimenti diventarono sempre più complicati, mentre risaliva con la consueta leggiadria il tronco sdrucciolevole dell’albero di quina. Prima che potesse rendersi conto di quella che stava succedendo, tuttavia, una forma tozza e stravagante calò silenziosamente alle sue spalle, rivelando la sua vera natura niente affatto pacifica ed affrettandosi ad avvolgergli tutto attorno uno spesso strato di fili che coprivano la bocca, gli occhi e l’addome. “Ah, ah, ah. Ora di pranzo, mio caro cugino. I morti non parlano, non insultano e soprattutto rivelano ben presto tutto il gusto sopraffino delle proprie interiora risucchiate da un pratico foro nella parte esterna del proprio esoscheletro chitinoso.” Quindi poco prima che la preoccupante locuzione iniziasse ad essere dimostrata in senso pratico dal ragno mimetizzato, l’ormai non più tanto beffardo esponente del sottordine degli araneomorfi privi-di-ragnatela poté udire solamente l’accenno di un lieve e ripetuto frinire. Era il verso del katidide a forma di foglia, divertito dalle dispute letali tra alcuni dei suoi più piccoli e stereotipici nemici. Ah, l’avevo dimenticato. Il nemico del mio nemico può soltanto essere… CRUNCH!

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E non dimentichiamoci dello speoto, cane dall’aspetto ursino e il profumo d’aceto

In un’ideale elenco dei felini più riconoscibili del mondo, le possibili forme e metodologie di sviluppo dei suddetti animali non parrebbe variare in modo particolarmente significativo. Giacché ogni gatto a questo mondo, possiede artigli, orecchie triangolari ed erette, una coda smilza (sebbene la lunghezza possa variare) il muso relativamente piatto e una schiena che s’inarca per esprimere la propria inclinazione comportamentale. Osserviamo nel complesso, di contro, la questione tassonomica della singola tribù sudamericana dei cerdocionini: undici specie, suddivise in tre generi, non meno diversificate di quanto potrebbe esserlo un concorso canino. Con due zorros – la volpe andina e quella mangiatrice di granchi, che si affiancano all’anomalo ed affascinante crisocione o “lupo dalla criniera” la bestia elegante a metà tra un levriero e il Pokémon Suicune, meno la propensione a lanciare magici dardi ghiacciati all’indirizzo dei propri feroci rivali. A connotare ulteriormente l’eterogenea famiglia, nel frattempo, è possibile individuare la presenza del più prossimo parente di una simile creatura, che potremmo definire in una singola espressione come all’estremo opposto delle possibilità canine; basso e tarchiato, come un bulldog dal peso approssimativo di 7-8 Kg, ma del tutto autosufficiente nel suo rapporto con l’ecologia selvatica del cosiddetto bush. Una definizione usata in questo caso per riferirsi, contrariamente all’abitudine, all’umida boscaglia e le distese cespugliose del Costa Rica, la Bolivia, Brasile e Paraguay. Dove sussistono le multiple popolazioni, ormai in regime disgiunto e frammentario, di un animale che ormai può essere soltanto definito come raro nell’intero areale, per l’implacabile riduzione del suo areale e la sostanziale ostilità di chi è incline a trarre il proprio sostentamento dai contesti rurali. Questo perché lo Speothos venaticus alias bush dog, suddiviso in tre sole sottospecie molto simili tra loro, è quello che può esser definito in senso pratico il perfetto super-carnivoro, quel tipo di predatore che assale e fagocita ogni cosa più piccola o debole di lui… E molte altre, potendo sfruttare la quasi del tutto infallibile collaborazione del branco. Tutto ciò nonostante l’aspetto placido che tende a suggerire un’inclinazione poco aggressiva, impressione d’altra parte almeno parzialmente valida per quanto concerne i rapporti coi suoi simili e l’occasionale mano degli umani, durante il soggiorno all’interno degli zoo e simili circostanze di condivisione dei propri giorni. E a tal punto, in effetti, questo canide risulta specializzato nel consumo pressoché esclusivo di carne da essere uno dei soli tre rappresentanti della sua vasta famiglia, assieme al cane selvatico africano e il dhole indiano, a possedere il “tacco tranciante” (trenchant heel) una specializzazione del primo molare inferiore fatta per strappare le parti più coriacee di una carcassa. A patto di avere abbastanza tempo, e relativa tranquillità, dal potersi mettere a farlo…

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L’audace passatempo d’incontrare da vicino l’uccello più velenoso al mondo

Serpenti alati: tutti conoscono l’aspetto del potente Quetzalcoatl, Dio del quinto sole, gemello prezioso, spirito del vento sudamericano. Ma dall’altro lato del pianeta, nelle terre emerse della seconda isola più grande al mondo, c’è una ragione differente per guardare in alto e preoccuparsi di possibili animali tossici, capaci in linea teorica d’indisporre in modo significativo un elefante. Se soltanto tale pachiderma fuori sede, in un’impeto di carnivora imprudenza, tendesse la proboscide verticalmente verso il cielo. Cogliendo al volo la creatura di passaggio, ali, becco, coda e tutto il resto. “Ridicolo” mi sembra quasi di sentire gli aspiranti biologi dal coro: “Gli elefanti non mangiano gli uccelli! Ed anche se lo facessero, di sicuro questi ultimi non potrebbero arrecare alcun danno al più imponente sistema digerente posseduto da un animale dei nostri giorni.” Orbene son qui oggi per dirvi, che se in merito alla prima affermazione siete sulla strada giusta, nel caso della seconda i fatti vi sono nemici. Come già sapevano studiosi della filosofia naturale quali Aristotele, Filone di Alessandria, Lucrezio e Galeno; ciascuno dei quali, all’interno dei propri scritti, ebbe la ragione e sensibilità di citare la condizione medica da tempo nota come coturnismo: vomito, paralisi muscolare, insufficienza respiratoria e renale. Il tutto come conseguenza del consumo poco accorto, di quantità eccessive di quaglie selvatiche europee (Coturnix Coturnix) durante il periodo delle loro migrazioni primaverili. Quando transitando oltre le montagne che dividono i confini arbitrari delle nazioni, mangia ingenti quantità dei semi della pianta che i latini chiamavano Conium e i moderni, molto più semplicemente, cicuta. Il cui contenuto tossico, grazie al perfezionamento evolutivo, non può nuocere al volatile. Ma colpisce e annienta gli organi di colui che ne fagocita le carni avvelenate. Ora la quaglia, in circostanze normali ed al di fuori di quella stagione maledetta, risulta essere perfettamente commestibile ed invero anche apprezzata, come una versione occidentale del potenzialmente mortale pesce palla o fugu cucinato dai giapponesi. Ma se ora vi dicessi che ci sono uccelli, altrettanto immuni all’effetto di una particolare pietanza letale, che risultano pericolosi tutto l’anno? I cosiddetti Pitohui ed Ifriti dell’Indonesia. Ma soprattutto una particolare specie dei primi nota come P. dichrous, simile ad un merlo nero e marrone dalla cresta erettile e sbarazzina letteralmente intriso, fino alla radice delle proprie piume bicolori, della temutissima sostanza nota come BTX o per esteso batracotossina, un termine che viene dalla parola usata scientificamente per riferirsi alle cosiddette rane-freccia, usate per avvelenare le armi degli indigeni colombiani. Col che non voglio certamente affermare che il volatile in questione, un passeriforme della famiglia degli orioli del Vecchio Mondo non più lungo di 22-23 cm, sia solito ghermire e fagocitare l’orribile anfibio che raggiunge una percentuale significativa della sua dimensione totale. La soluzione è molto più semplice, ed al tempo stesso inaspettata, di così. Trattandosi effettivamente di un rarissimo caso di convergenza evolutiva tra classi distinte, avvicinate dall’inclinazione a fare un singolo boccone (avvelenato) di un insetto della famiglia Melyridae, rappresentato nel caso della Nuova Guinea dal diversificato genere degli scarabei Choresine. L’origine, nonché una zampettante concentrazione, del Male…

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