L’astrusa visione dei muppet smarriti nel tempo

m Scared II

Due anni e mezzo fa, seduti al tavolo transdimensionale dell’inquietudine psichica, in una cucina tristemente gioiosa, l’uccello verde, l’omino col ciuffo blu ed un serafico mostro peloso ebbero a dire, sul finire del giorno: “Basta, noi non saremo mai più creativi”. Il portale dell’altro-mondo si chiuse, allora, per un tempo indeterminato. Giusto quest’oggi tuttavia, per un singolo attimo di distrazione, tale promessa è finita in frantumi. Lo stesso abisso dell’incongruenza era lì ad aspettarli, sconfinato. E come nel primo documentario animato Don’t Hug Me I’m Scared, se li è divorati. Eppure! Ne sarà valsa la pena? Vediamoli un po’. Sono cambiati, ma restano uguali.
C’è sempre dell’assurdismo di fondo o una sottile vena surreale, per varie ragioni, nel tipico show didattico per bambini. I Teletubbies, con le loro TV cybernetiche, neuralmente connesse per vie craniche/occulte, erano la totale personificazione del concetto di immagine didascalica. Il violaceo dinosauro Barney, quel vivido ma troppo allegro fossile ballerino, amava la metrica, solo perché insegnava la matematica. Per non parlare di Sesame Street, l’interminabile, inesauribile crogiolo d’ogni possibile creatura fantastica o d’illusione. Vampiri che raccontano l’alfabeto; lepri eloquenti; maiali canterini; cavernicoli divoratori bluastri di biscotti cioccolatosi; Kermit e la sua cricca, ovvero: la rana, gli altri pazzoidi pupazzi. Visti da piccoli, simili mostriciattolini, catturano l’attenzione e i lunghi minuti, stimolando (in)utilmente la fantasia. Oggi invece risultano… Strani. Senza casa, né madre, né padre. L’assenza di contesto è un concetto impossibile, a ben pensarci, un generatore di cupa inquietudine. Nessuno sa cosa fanno, i buffi personaggi della TV dell’infanzia, tra una puntata e l’altra, se hanno una vita, interessi ulteriori. Direi pure, meno male.
A far da contrappunto, i quasi leggendari Becky & Joe, gli artisti dello stop-motion un tempo noti come This Is It, già premiati presso il Sundance Award festival, ci mostrano che cosa potrebbe accadere altrimenti. Con tre protagonisti, davvero sfortunati, che da sempre hanno un difetto, su tutti: pensano troppo.

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L’incombente locusta dell’università di Cambridge

Corpus Clock

Questa cosa ogni cosa divora, ciò che ha vita, la fauna e la flora; i re abbatte, e così le città, rode il ferro, la calce già dura; e dei monti, pianure farà. Che cosa sarà mai? In un tempo non troppo lontano, fra le antiche mura del Corpus Christi College, parte indissolubile dell’università di Cambrige, è atterrata questa bestia mefistofelica, dall’aria pericolosa ed affamata. Aveva, dicono i diversi testimoni, sei zampe per saltare, un paio d’elitre puntute, corte antenne e grossi occhi, nuclei radioattivi dallo sguardo penetrante. La sua bocca, con molti denti affilatissimi, era come quella di un pesce preistorico dimenticato.
Quella specie di insetto, una creatura lunga circa un metro, è discesa sulla Terra nel 2009, percorrendo i sentieri e le biforcazioni dell’inconcepibile orologeria. Grazie all’operato dei suoi discepoli e creatori, ha vagato per tutto l’Old Court del Corpus Christi, il più antico cortile dell’intera Inghilterra, spazio in uso ininterrotto fin dal remoto 1350. Scacciando, con la sua stolida presenza, due scoiattoli, tre corvi e un merlo salterino. È quindi salita silenziosamente, strisciando con fare conturbante, fin sul campanile della vicina chiesa di San Bene’t. Al suo passaggio, quel drago corrosivo, l’astuta diavoleria moderna, ha smosso qualche tremulo mattone, il residuo di epoche remote. Fu proprio allora, a quanto dicono, che l’immobilità calò pesante sull’antistante Trumpington Street. La gente basìta rivolgeva gli occhi verso l’alto. Dalla cima della torre, emettendo finalmente quel suo temuto verso gutturale (tic-toc-tic-toc…) la bestia ha indicato verso un edificio, usando la propaggine geometrica della sua maxilla. Stava, come apparve chiaro, designando il suo futuro trono: la recentemente restaurata Taylor Library, somma istituzione dedicata all’inventore del sacro bollitore senza fili – uno stimato ex-alunno, architetto e munifico filantropo, aggiungerei. Nonché il finanziatore, guarda caso, anche di un tale mostro meccanico, dal costo trascurabile di un milione di sterline circa: il Cronofago, mangiatore delle ore, sovrano indiscusso del maestoso Corpus Clock.
Un orologio. Dal diametro di un metro e mezzo, tutto d’oro, senza lancette, ma pieno di luci lugubri e sfuggenti. Sopra c’era il mostro. C’è ancora e fa: tic-toc-tic-toc…

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Maschere astrali ricavate dalle increspature della carta

Joel Cooper
Via

Due mani, un liscio tavolo, soltanto un foglio, il gesto è ripetuto: pieghettare, ancora e un’altra volta. Un costruttore di simili origami d’avanguardia, scagliose o splendide creature antropomorfe, non ha soltanto un volto, ma molti. Li fabbrica, li colleziona, talvolta poi li vende a qualche sconosciuto. Quegli occhi ci osservano meditabondi, senza traccia di pupille. Fauni d’oro appesi alle pareti, arcani faraoni sulle porte, profeti dalle barbe sfaccettate, nascosti fra le fronde, dietro gli alberi del tuo giardino. Le corone sono corna dell’impermeabile mistero. Le bocche geometriche, turgidi dodecaedri, parrebbero più chiuse di una cassaforte. Ma in fondo chi è, quest’artista che utilizza lo pseudonimo di Origami Joel? Qualcuno che parte da ingredienti semplici, però punta molto in alto, ovvero alle purissime apparenze. Il suo dominio è l’arte di scolpire con la carta, però non secondo i metodi che insegnano nei libri. Meno male che ci ha regalato un blog, dove, tra i molteplici argomenti, descrive la sua tecnica speciale.
Nell’origami classico, secondo quanto chiaramente definito dagli esperti, esistono quattro tipi di diverse piegature: a valle (verso di noi) a monte (il contrario) e le relative contro-pieghe, usate per creare gli essenziali vuoti a fisarmonica, perfetti punti d’articolazione. Ciascuno di questi gesti codificati, partendo dall’imponderabile piattezza della carta, sarebbe un po’ come il tratto di un pennello. Da tali interventi manipolatori, mescolati da una mente ragionevole, puoi dare vita a molte cose. Soprattutto, farle muovere, se vuoi. Quanti gufi, aeroplani, cicogne o rospi saltatori! È questa la natura espressionista della carta, il tratto dinamico che prende vita. Ti resterà, comunque, un limite fondamentale. Perché un conto è definire i profili stilizzati di creature note o grezzi mezzi di trasporto; tutt’altra cosa è rendere giustizia all’illustrissima figura umana. O alle sue molteplici interpretazioni, come queste espressioni di cartacea meraviglia.

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Col suono del cartone nella testa

Zimoun

Carburanti fossili che avvampano senza un attimo di posa, trasformando i liquidi in vapore. Ecco il fuoco, strumento di creazione (o distruzione). Dal suo calore, l’energia meccanica, spinta con forza dentro alle dinamo di una mastodontica centrale. Tutto questo per produrre suoni musicali, ripescati dal passato! L’uragano delle scienze tecnologiche, al servizio di una o molte melodie. E giù miglia, miglia di cavi dal diametro importante, con l’anima in leghe innaturali, o minerali scavati dal profondo della Terra, direttamente collegati con la comune presa elettrica in un angolo della tua stanza.  Accanto a quella, una quantità variabile di altoparlanti. 2, 2+1, 5+1… Mossi dal carbone, dal petrolio, dall’uranio, che lì diventano, a distanza, strumenti d’intrattenimento. Favorendo soavemente l’ondeggiare di una minuscola bobina, piazzata sotto ad un piccolo magnete, dentro al cono affusolato intrappolato in ogni cassa dello stereo. Tutto, perché tu possa udire questo suono: TU-TUNZ-TU-TU-TUNZ-TUNZ-TUNZ […]  Se ti riesce, in mezzo a tante distrazioni; perché in effetti, persona incline all’astrazione, cosa stai sentendo? Le macchine di scavo dei cantieri minerari, lo scroscio del bacino idroelettrico in funzione, la ventola del computer che, sfacchinando, decodifica l’MP3? C’è un suono nel silenzio. Il rumore di fondo, sia astratto che effettivo. L’udito è un senso difficile a isolarsi, che segue con arguzia il tuo pensiero, l’immaginazione. Il contesto insostanziale di quella dimensione, per sua natura, non è soltanto frutto d’allucinazioni Si ritrova, ad esempio, nel battere ritmico della pioggia sopra i vetri, che tanto spesso diventa l’epicentro dell’introspezione. O nel respiro cittadino, fatto d’automobili o vociare in lontananza, diverso sulla base dei luoghi e dei momenti: l’ausilio all’operosità, per imprescindibile eccellenza. Secondo l’artista svizzero Zimoun, almeno a giudicare dalle sue molteplici creazioni, la natura del rumore artificiale cambia, si muove, in funzione dell’impianto usato per l’ascolto. Specie se si tratta di una cuffia, da poggiare sopra il cranio, che batte ricordando l’insistenza della TAC.
Nella sua ultima proposta, dimostrata su Vimeo e risegnalata sul blog artistico del portale FastCompany, due scatolette di cartone diventano la cassa armonica di una singolare attrezzatura, formata da batuffoli motorizzati su di un filo semi-rigido di ferro. I quali, colpendo la superficie senza alcuna regolarità, producono un’arcana sinfonia. Nessuno, prima d’ora, l’aveva mai sentita, né la sentirà di nuovo. Almeno, senza l’uso di un registratore.

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