Donna crea 300 bambole per sostituire i compaesani defunti

Sei persone sulla pensilina, congelate ad aspettare un autobus che purtroppo non arriverà mai. Due pescatori seduti sull’argine del fiume, perfettamente immobili, le gambe più lunghe del normale per un probabile effetto dell’accumulo di forza di gravità. Bambini per la strada, e nella scuola, con i professori che li guardano intenti, a pronuncia una lezione totalmente fuori dall’umano. Decine, centinaia di testoline appena abbozzate, che scrutano dagli angoli gli alterni movimenti della loro Imperatrice. Chi non ricorda, tra i giovani della corrente generazione, l’antologico cartone animato della Principessa Mononoke, creato dal grande maestro Miyazaki per esporre le sue idee benefiche in merito all’ecologia, la responsabilità civile, il senso del dovere verso i parenti, gli antenati… Una creazione che costituiva, tra le altre cose, uno spettacolo visuale senza pari. I mostruosi cinghiali ricoperti di vermi, i guerrieri samurai, il meraviglioso lupo gigante, candido e feroce! E poi loro, tutti in fila per fare atto di presenza: gli spiritelli Kodama (木霊) che vivevano negli alberi, piccoli volti a margine dei lunghi sentieri dentro la foresta. Neanche una parola pronunciata, o un gesto che corroborava i personaggi principali. È un’immagine così straordinariamente giapponese! Questa sensazione che ci sia un qualcosa che ci guarda, sorvegliando tutti i nostri gesti, una pluralità di esseri che sono, in qualche modo, meno che umani. Eppure al tempo stesso, molto di più che umani. Talmente insita in questa cultura, che c’è una donna nella prefettura di Tokushima, presso l’isola largamente rurale dello Shikoku, che ha deciso di farne il suo stile di vita. Scegliendo di vivere in un luogo i cui abitanti, sostanzialmente, possa costruirli tutti lei. Ma per comprenderne la posizione storica, prima, una piccola nota sull’etimologia di questa parola, bambola.
Il primo carattere non è affatto complicato: si tratta di una stampella, uncino più, uncino meno, sistemata in posizione eretta sulla riga del foglio di carta. Rappresenta un qualcosa di… grossomodo verticale, con due basi solide (i piedi) non è dunque chiaro ciò di cui stiamo parlando? Si tratta di hito (人) persona, un carattere degli Han che i giapponesi usano, a seconda del bisogno, nei contesti e coi significati più diversi. È tutta una questione, chiaramente, di quello che c’è dopo: un kanji decisamente più elaborato. Che si compone, a sua volta di altri due (radicali) due tronchi uniti da una trave orizzontale e tre trattini diagonali, che ricordano l’acqua che cade ma in realtà, sono qualcosa di molto diverso. Simboleggiano ago e filo di colui che cuce, la pialla del falegname, l’attrezzo di tutti coloro che creano con le proprie mani per risolvere la situazione. I due caratteri posti di seguito formano katachi (形) la forma. Ma se davanti aggiungi anche quell’altro, otterrai ningyō (人形) la forma dell’umano. Ovvero in altri termini, la persona “creata”, il pupazzo dato in dono ai giovani bambini e a quelli non più tanto giovani, per ciò che simboleggia, i concetti che gli riesce di rappresentare. Il pupazzo antropomorfo è un concetto pregno in tutte le culture del mondo, spesso usato nei rituali religiosi, nelle cerimonie d’importanza sociale ed associato a momenti specifici della vita di ognuno. E questo è più che mai vero laggiù, in Giappone, dove per l’ottica della religione Shinto non esiste un solo oggetto destinato a rimanere eternamente inanimato, nessun dio, apparizione o spirito che possa esistere senza essere legato alla terra, ai nostri gesti, alle nostre cose. Durante il remoto Medioevo del periodo Heian (794 – 1185) abili artigiani creavano riproduzioni dei personaggi del romanzo della dama Murasaki, la romantica, amorosa e complicata vicenda di Genji, lo splendente principe del clan dei Minamoto. Simili oggetti venivano considerati simboli di alto prestigio, e non c’erba abitazione che avrebbe rinunciato all’opportunità di esporle. Mentre ancora oggi, ogni anni a marzo le bambine costruiscono l’altarino tradizionale della Hina Matsuri, con fino a 15 figurine rappresentanti i membri della famiglia imperiale. Mentre i loro fratellini, nel contempo, ricevono il pupazzo di Kintaro, il forzuto bambolotto cresciuto sulle montagne con la strega Yama-uba, spesso raffigurato mentre sconfigge un’enorme carpa in mare. Ma non c’è alcun tipo di conflitto, nel pacifico villaggio di Nagoro…

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La differenza tra un Gundam e una Lamborghini di carta

Uno dei punti principali della seconda serie di una delle saghe fantascientifiche più famose del Giappone, il mai abbastanza celebrato “Zeta” Gundam di Yoshiyuki Tomino, tra gli aspetti maggiormente sorprendenti va citato il fatto che il mecha (ehm pardon, mobile suits) pilotato dal protagonista Kamille Bidan, per tutta la prima metà degli episodi non aveva, davvero, proprio niente di particolare. Intendiamoci: l’RX-178 Gundam Mk-II, per l’epoca dell’entrata in servizio dei suoi tre prototipi immediatamente rubati dall’AEUG, il Fronte di Liberazione Terrestre nell’anno spaziale 0087, aveva alcune doti certamente degne di nota: era in primo luogo particolarmente agile, grazie all’impiego per la prima volta del sistema movable frame, in cui la corazza veniva fissata direttamente allo chassis del mezzo bipede guerriero. E una cabina di comando con cockpit panoramico, in grado di dare al pilota una visibilità migliore della situazione di battaglia. Ma risultava nel contempo privo del rinforzo alla corazza offerto dal titolare gundamium o Luna titanium, il materiale che aveva offerto molte delle seconde opportunità in combattimento all’eroe per caso della prima serie, Amuro Ray. Ed è proprio questa, la sostanziale differenza tra le due vicende narrate: scegliere per questa volta un protagonista meno maturo, intellettualmente instabile, con palesi difetti di carattere e che in generale sembra essere molto meno “una brava persona” ma che nel contempo vince le sue battaglie, ed aiuta l’esercito della parte dei buoni (per intenderci, quelli meno simili ai tedeschi della II guerra mondiale) grazie ad un’abilità di pilotaggio totalmente fuori da qualsiasi parametro precedente. Nelle classifiche periodicamente stilate su chi fosse il miglior pilota di Gundam, Kamille è spesso vincitore, benché venga generalmente raffigurato assieme al suo mecha più famoso, il successivo, e molto più performante Zeta Gundam, destinato a rimanere competitivo per un centinaio buono di episodi, venendo impiegato ancora dal successore Judau Ashta contro l’esercito del redivivo Neo Zeon, la forza reazionaria galattica destinata a risorgere un infinito numero di volte, al servizio di una trama sempre più simile all’idea originale che ci eravamo fatti di essa.
Ma non in quel caso, non nella storia di quei fatidici momenti: Zeta costituisce, a mio parere, un esempio splendido di come possa continuare e rinnovarsi un racconto di fantasia, sovvertendo una quantità di cliché superiori persino a quelli della serie Trono di Spade, e con una realistica spietatezza contro gli eroi del racconto che, aggiungerei, lo accomunano ulteriormente a un racconto fantasy televisivo che ha fatto e continuerà a fare epoca, ancora per molti anni a venire. Proprio per questo, nonostante non si tratti certo di uno dei mobile suit più riconoscibili ed amati, approvo la scelta del grafico ed artista di origini ucraine Taras Lesko alias VisualSpicer, naturalizzato statunitense, che il Gundam Mk II ha deciso di ricostruirlo a un’altezza di oltre 2 metri, utilizzando il più accessibile, eppure imprevisto dei materiali: la carta. Di questo l’autore, che tra le altre cose collabora da tempo con gli autori della famosa serie di videogiochi automobilistici Forza Motorsport dei Turn 10 Studios, aveva già saputo farne un marchio di fabbrica, con un canale di YouTube personale che è un repertorio spropositato di automobiline (e non tanto -ine) ricavate dalla sua reinterpretazione dell’arte tipicamente nipponica del pepakura (papercraft) ovvero la piegatura, ritaglio ed incollatura della candida cellulosa. Un approccio diverso da quello dell’origami, che invece prevede l’impiego di un singolo foglio di carta, limitando così necessariamente la grandezza del risultato ottenibile, soprattutto quando il soggetto raffigurato presenta un notevole tasso di complessità. Mentre con il presente metodo, è sostanzialmente possibile continuare ad aggiungere, ancora ed ancora, fino al raggiungimento di un qualcosa che sia chiaramente enorme, gigantesco, torreggiante, persino una percentuale tangibile dell’originale oggetto ispiratore di una simile idea.

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Le cuffie con una tecnologia di 4.000 anni fa

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Normalmente, moderno vuol dire costoso e le soluzioni tecniche più avanzate sono inevitabilmente quelle maggiormente desiderabili all’interno di un prodotto di ultima generazione. Un esempio? Molti ricordano con entusiasmo e nostalgia l’epoca trascorsa dei “bei vecchi Nokia 3310” che telefonavano soltanto, ma “lo facevano dannatamente bene!” Eppure ben pochi, persino tra coloro che declamano un simile motto come verità divina, sarebbero pronti a barattare il proprio modernissimo smartphone per l’indistruttibile (o così si dice) mattone blu-cobalto norvegese. Basta, del resto, inoltrarsi per qualche minuto nel favoloso mondo patinato del lusso, per trovare un andamento delle cose essenzialmente all’incontrario. Meno una cosa appare pratica da utilizzare e/o produrre, tanto più è desiderabile, nonché costosa, mentre di pari passo c’è un legame indissolubile con un principio che sussiste da epoche remote: la visione universale del bello. Ed è un momento assai particolare ed importante, nella vita di un’azienda tecnologica, quello in cui si scopre di aver raggiunto una base sufficientemente solida, dal punto di vista della reputazione e della sicurezza finanziaria, da potersi avventurare nella produzione di un qualcosa che non ha sostanzialmente nessun tipo di predecessore. Ciò che ne deriva, in via collaterale, è sempre un video che procede per sommi casi, così.
In una delle proposte ad Internet più popolari nella storia del canale ufficiale su YouTube della compagnia dell’audio giapponese Fostex, diventata famosa oltre 30 anni fa grazie alla produzione di componenti per altoparlanti professionali, veniamo invitati a prendere visione del processo di rifinitura esteriore di uno dei suoi prodotti più eclettici ed originali: le cuffie TH900, ricoperte grazie alla metodologia antichissima della laccatura urushi, una forma d’arte originaria unicamente di questo paese, e praticata fin da tempo immemore all’interno di questo stabilimento del villaggio di Sakamoto (prefettura di Suruga) da cui scaturisce anche un’ampia varietà di penne, orologi, utensili di vario tipo e ciotole tradizionali. A tal punto, ancora oggi, è straordinariamente popolare ed apprezzata in tutto l’arcipelago una simile soluzione per proteggere ed al tempo stesso abbellire gli oggetti, le cui prime attestazioni archeologiche risalgono addirittura all’era preistorica del periodo Jōmon (10.000 – 300 a.C.) Sarà dunque opportuno specificare cosa, in effetti, distingua questo metodo di laccatura estremo-orientale da quello in uso qui da noi fino al tardo Rinascimento europeo e che traeva origine dall’India, consistente nel creare l’eponima vernice trasparente grazie a copiose quantità della secrezione dell’insetto lākshā, un tipo di cocciniglia degli alberi. Mentre la lacca giapponese, dal canto suo, ha un’origine esclusivamente vegetale come esemplificato anche dal video della Fostex, e si produce a partire dall’alberodel Toxicodendron vernicifluum, uno stretto parente dell’edera velenosa, in grado di indurre reazioni allergiche piuttosto gravi nell’uomo.
Si nota subito in effetti nelle prime battute del video la tenuta estremamente coprente dell’uomo incaricato di praticare le incisioni negli arbusti designati a un tale compito ingrato, ed ancor maggiormente nel suo collega impastatore, che all’interno dello stabilimento indossa guanti e camice protettivo degni di un’istituzione di tipo nucleare. Basterebbe infatti una singola goccia della resina sul corpo, ancora pressoché grezza in questa fase e contenente il principio attivo dell’urushiol, per infliggerli vesciche simili ad ustioni, comprensibilmente molto dolorose. Il semplice fatto che un simile processo di lavorazione, in effetti, sia stato integrato in una logica industriale con alti volumi di produzione è già di per se affascinante. Ma aspettate di vedere ciò che succede di lì a poco…

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L’officina popolata dagli insetti riciclati

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Stretto nelle mani dell’artista, l’enorme scarabeo tigre pare pronto ad aprire le sue elitre e spiccare il volo. Di un vivace color verde brillante, il suo aspetto è misteriosamente simile a qualcosa d’altro: nell’addome s’intravede una custodia per gli occhiali e uno specchietto retrovisore. Il suo torace è parte di una lampada per biciclette. Gli occhi sono biglie, le antenne pezzi di una radio. Ciascuna delle sei zampe, contiene l’agglomerato tripartito di tergicristalli, freni da ciclismo e catene per la trasmissione. Tutto questo e molto altro, suscita una strana commistione d’influenze: da una parte lo spirito d’osservazione dell’entomologo, che studia alcune delle creature più insolite di questa Terra, potenzialmente spaventose per i non avvezzi. Mentre dall’altra, l’intuito del rigattiere, che non vede i vecchi oggetti per ciò che realmente sono, bensì quello che erano stati, o che ancor meglio, potrebbero un domani diventare. Due spiriti racchiusi nello sguardo di un sol uomo, che arriva a concentrarsi e si riflette in quello dell’insetto immobile e perennemente silenzioso. Almeno, per quanto concerne i suoni percepiti tramite le vibrazioni dell’orecchio interno. Perché nell’anima, tra la polvere di questo ambiente oscuro in terra di Bretagna, non può che risuonare il ritmo clamoroso di un concerto: un grillo è fatto con le carene di una vecchia moto. Una vespa le cui strisce sono parti di una macchina da scrivere. La libellula è una pompa per le biciclette, incoronata con dei fari ed ali d’alluminio con pezzi d’ombrello. E poi, ci sono rane, pesci, uccelli, gamberi e aragoste… Ma neanche l’ombra di un mammifero. In quanto costui, ci narra quietamente, non ha mai voluto dedicarsi alle creature “Troppo familiari”.
Chi è che parla? Chi, se non Edouard Martinet, il poliedrico creativo francese che ha studiato e lavorato per lungo tempo a Parigi come grafico, prima di decidere all’improvviso di trasferirsi nel Nord-Ovest del paese presso la periferia di Rennes, cittadina celebre per le sue chiese ed altre opere architettoniche dell’epoca Barocca. E presso cui negli ultimi tempi, sempre più spesso, si recano in visita galleristi di fama ed organizzatori di premi internazionali, per conoscere personalmente il creatore di alcuni dei manufatti più incredibili che abbiano mai occupato le auguste sale dell’arte. Nonché gli spazi digitali del web, vista l’assiduità con cui innumerevoli blog del settore e produttori di documentari continuano a riproporre le rassegne delle sue opere più celebri o recenti. Non è cosa da poco, del resto, riuscire a dedicare una vita alla propria passione, e qual’ora si riesca a farlo per oltre 25 anni, come nel caso di costui, capita talvolta che si riesca a raggiungere quello stato superiore di coscienza, e conseguente operatività, che conduce senza intoppi al senso universale del sublime. E in effetti fatto salvo per chi ha orrore di A – Cose che zampettano nell’ombra; oppure B – Gli oggetti che hanno terminato il proprio ciclo di utilizzo pre-determinato (in termini più poveri, scarti o spazzatura) sarebbe assai difficile non prender atto della verità: ovvero che ciascun singolo essere, ogni abitante dello spazio deputato, nient’altro sembra se non assolutamente vivo, seppur colto in un momento di apparente immobilità. Finché non si prende coraggio, per toccare con la mano la visione dell’ultra-natura, concentrandosi nel trattenere il fiato.
Non è la prima volta che vediamo qualcosa di simile, certamente: persino nell’arte del contemporaneo ricorrono stilemi. Eppure ad un’attenta osservazione, le sculture custodite nell’atelier di Rennes, così come quelle contrassegnate dalla chiara dicitura VENDUTO sul sito personale dell’autore, presentano diversi tratti di distinzione. Primo fra tutti, la totale assenza di saldature, sostituite dall’impiego di incastri, viti e bulloni, così come il mantenimento di ciascun componente nel suo stato più possibile all’originale. Il che dimostra una particolare via del processo creativo, che dilaziona il completamento di alcune opere fino a richiedere anni, ed anni, ed anni….

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