Il piccolo cetaceo che sorride al baratro dell’estinzione

È una foto così perfetta, nell’illustrare la natura e la portata del problema, che alcuni hanno suggerito che possa in effetti trattarsi di un allestimento artificiale. Il mammifero marino bianco e nero giace all’apparenza immobile tra le maglie di una rete da pesca. Assomiglia vagamente ad un delfino, benché sia privo del muso allungato delle varietà più famose, la testa non abbia la tipica forma bulbosa (il “melone”) e l’interezza delle proporzioni, così corte e tondeggianti, porti istintivamente a pensare al cucciolo di una qualche specie mai vista prima. Il che, inevitabilmente, ispira un senso d’istintiva grazia ed affabilità. Ma non è questa l’unica ragione: in una descrizione veramente completa della creatura, non si può certo tralasciare la vistosa cerchiatura nera degli occhi, che assomiglierebbe quasi a quella di un panda, se non fosse per la forma geometrica tonda pressoché perfetta. E poi, c’è quella lieve inclinazione della bocca verso l’alto, come se il povero animale stesse, in effetti, sorridendo. Il che non può che indurre in noi uno spontaneo senso d’empatia. Finché non ci si rende conto, in effetti, di essere probabilmente di fronte a un esemplare appena transitato a miglior vita. Purtroppo, il più delle volte, capita così: su Internet non esistono praticamente foto di vaquitas del Golfo della California (Phocoena sinus) che siano ancora vive, per la semplice ragione che al conteggio attuale, secondo studi approfonditi con l’ausilio della scienza statistica, ne restano in circolazione appena 60, esemplare più, esemplare meno. Siamo dunque di fronte, volendo essere del tutto chiari, a uno dei singoli animali a maggior rischio d’estinzione della Terra, condizione ulteriormente esacerbata dal fatto che l’animaletto in questione, come tutte le focene, mal si adatta alla vita in cattività, e proprio per questo non ne esistano coppie fertili all’interno degli acquari o i santuari di conservazione ecologica. Nei fatti, l’intera popolazione di questo relativamente piccolo abitante degli oceani (misura massima della femmina: 140.6 cm, del maschio 134.9 cm) vive allo stato selvatico nell’area di uno dei tratti di mare più pesantemente industriali, e pescosi, dell’intera America Settentrionale. Ancora fino al 2021-22, volendo affidarci alle stime più pessimistiche, prima che i fattori che hanno inciso in queste ultime generazioni sulla sua sopravvivenza, inevitabilmente, mietano l’ultima vittima individuale, relegando la specie una mera pagina commemorativa sui libri di storia della biologia, giusto accanto al delfino di baiji, estintosi nel Fiume Azzurro della Cina appena una decina d’anni fa.
Il che sarebbe, oltre che un peccato, un problema alquanto significativo per l’intero ecosistema marino della Bassa California, la penisola che racchiude, assieme alla costa del Messico, questo tratto di mare dall’insolita e preziosa biodiversità. La vaquita infatti, termine che vuole dire, letteralmente, “mucchetta”, ha un ruolo primario nella depopolazione dei pesci scienidi, dei perciformi e delle trote di mare, che vivono e si riproducono vicino al delta del fiume Colorado. Costituendo inoltre, come molte altre specie marine, anche la preda di un qualcosa di più grande, e nello specifico gli squali, la scomparsa delle focene potrebbe privare questi ultimi di una fonte potenzialmente fondamentale di cibo. Dando l’inizio ad un effetto a catena il cui estremo termine, nei fatti, esula grandemente dalla nostra capacità di previsione. A causa di questo suo specifico ruolo nello schema delle cose, la vaquita vive primariamente nell’area settentrionale del golfo, nota geograficamente come Mare di Cortez, all’interno di lagune non più profonde di 50 metri, e non più lontane dalla costa di 25 Km, possibilmente in presenza di acque torbide per la presenza di alghe, e quindi ricche di sostanze nutritive per assicurare la presenza delle loro prede preferite, che includono anche seppie e crostacei. Ed è proprio questa collocazione tanto specifica in un habitat estremamente definito, a darci un idea chiara della portata e natura del problema: quanto può essere difficile, in effetti, proteggere un’area tanto ridotta dei nostri oceani, dove potrebbe bastare una sorveglianza assidua da parte dei governi americano e messicano, nel rapporto delle popolazioni con il mare, per assicurare la continuativa sopravvivenza delle specie chiave? ESTREMAMENTE difficile, a quanto pare. E andiamo adesso ad elencarne le ragioni…

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Caramelle di lumaca tra i giuncheti del bayou

Non è un ambiente particolarmente adatto agli umani, si può ben dire con estrema enfasi e profonda consapevolezza: questa vasta pianura alluvionale dove i sedimenti del fiume Mississipi, ad ogni fluttuazione meteorologica, si espandono e ritornano da dove sono provenuti, lasciandosi alle spalle un gigantesco pantano. Non quello risultante da una pioggia o un temporale estivo, destinato a prosciugarsi con i primi soli della primavera. Ma uno stato di costante umidità del suolo, con acqua che ristagna, eserciti di pesci, rane, coccodrilli e zanzare. Ma anche preziosa vegetazione e una notevole biodiversità. Nella malsana, non bonificabile palude. Eppure da queste parti, in prossimità del territorio di New Orleans, il rapporto delle persone con l’ambiente si basa su una serie di presupposti molto caratteristici, tali da trovare un senso a tutto questo, ed in qualche modo, trasformarlo in una valida risorsa. È perciò del tutto comprensibile la reazione d’istintiva diffidenza e un vago senso di premonizione, vissuta dalla prima guida turistica, pescatore o studioso della natura, nel momento in cui lo sguardo si posò accidentalmente sulla strana cosa. Una specie di…Grossa gomma da masticare rosa, fatta aderire sopra la corteccia di mangrovia da un agente misterioso e lì lasciata, a monito apparente del costante senso d’ingiustificata familiarità. Poiché a quel punto, con un rapido sguardo gettato tutto attorno, di simili cose ne sono comparse non dieci, ma un numero variabile tra cento e quattrocento, ad evidente dimostrazione che si, qui c’è un qualche tipo di problema. Siamo tutti vittime di un’invasione? Chi è lo strano mattacchione che trova piacere a fare questa cosa? No, no, nessuno. Davvero. Di umano. Ma qualcosa di diverso, viscido e molliccio, che proviene da una terra relativamente lontana: il Sud America o in alternativa, per alcune specie, le profondità ben più remote dell’Africa nera. Tutto questo è opera della lumaca mela.
Succede di notte, quando finalmente nella terra umida comincia la stagione del silenzio. Il momento in cui gli animali tacciono, e nessuno di volante, strisciante o che sia in grado di tendere un agguato fa nient’altro che dormire, nel profondo della propria fangosa tana. Perché è soltanto allora che la chiocciola grande fino a 15-20 cm emerge dall’acqua, ed inizia lentamente ad arrampicarsi. Sopra un filo d’erba, sul macigno, sulla corteccia, sullo scafo della vecchia imbarcazione rovesciata e abbandonata dall’uomo. Finché i suoi gangli cerebrali, programmati attentamente dall’evoluzione, non comprendono che quello è il posto giusto, al sicuro dai pericolosi predatori acquatici. E proprio lì, depone le meravigliose  uova. È una visione decisamente surreale, considerato l’aspetto complessivo delle stesse: piccole palline di pochi millimetri di diametro, di un colore quasi fluorescente e all’apparenza innaturale, che fuoriescono dal guscio del mollusco ed iniziano a muoversi lungo il suo corpo, come trasportati da una macchina a nastro industriale. Una quantità sempre maggiore di materiale, il quale, una volta raggiunta l’estremità dell’animale, aderisce alla superficie scelta grazie ad un composto della sua miracolosa saliva. Quindi, completata l’opera, la lumaca inizia il lungo viaggio di ritorno verso i suoi territori di caccia e di accoppiamento, che sono sempre, rigorosamente sul fondale. È così una doppia vita, questa delle Ampullariidae o lumache mela, o ancora mistery snails, come amano chiamarle gli americani, particolarmente per il mercato degli acquari, da cui in un momento imprecisato fecero la loro mossa di evasione. Che nascono fuori dall’acqua nel giro di 2-4 settimane da questo evento, ma vi fanno subito ritorno e poi lì restano, fino all’epoca della maturità. Quindi, chiaramente, il ciclo ricomincia e così via fino all’eternità. Quale sarebbe mai, dunque, il problema di tutto ciò? È presto detto: esse non smettono mai di farlo. Iscritte ad ottima ragione nell’elenco delle 100 specie più invasiva al mondo, queste grosse lumache si riproducono più volte l’anno, producendo ogni volta svariati grappoli da 400-1000 uova ciascuno. I quali, oltre a risultare ben protetti dai pericoli della palude, sono del tutto incommestibili per chiunque tranne la formica rossa (Solenopsis geminata) in funzione di un composto neurotossico che le ricopre, come evidenziato per l’appunto dalla vistosa colorazione aposematica delle stesse. Nessuno sa, in effetti, com’è possibile che la formica riesca a digerirli. E tutto questo non finisce qui: poiché queste lumache, nei fatti, non hanno predatori in grado di scovarle e penetrare il loro resistente guscio, nel quale possono rinchiudersi completamente grazie all’opercolo sul loro dorso, e sopravvivere per lungo tempo in un luogo ben distinto e irraggiungibile dal  mondo. Finché un segnale noto solamente a loro, nuovamente, non gli dice di trovare un/una compagna, per trasmettere se stessi fino alla prossima generazione. Si, avete capito bene: QUESTE lumache, come del resto innumerevoli altre, non sono ermafrodite e presentano due sessi ben distinti tra di loro.

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Il guru che ha inventato lo zodiaco dei pappagalli

È difficile sopravvalutare l’importanza di una preposizione ed è per questo che si parla sempre di Paradiso “in” Terra, mai di Paradiso “sulla” Terra. Poiché il luogo di ricompensa per le buone azioni accumulate nel corso della vita è sempre necessariamente al di sopra delle nostre teste, tanto che l’impiego di un termine linguistico che implica una posizione in senso verticale sfaterebbe il concetto stesso del poter raggiungere quell’esperienza prima, o subito dopo il trapasso. Ovvero grazie al ciclo delle reincarnazioni, se si sceglie di credere in questo destino dell’umana consapevolezza. Ciò è tanto più importante nella filosofia della religione induista, secondo cui il Bhuva Loka (Buon Regno) non è un luogo, bensì l’epoca di una vita più prossima alla totale liberazione dal peso dell’esistenza (Moksha) e dunque priva di bisogni, sofferenza e desideri. Proprio per questo io non credo che nessuno, osservando uno qualsiasi dei molti video di Sri Sri Ganapathi Sachchidananda Swamiji nel suo santuario degli uccelli presso la regione di Mysore, nello stato meridionale del Karnataka, potrebbe dubitare anche soltanto per un attimo della sua santità. Costui è un uomo che, raggiunte le più alte vette nello studio e nella pratica della musica tradizionale Ragam, che si dice possa colorare i sentimenti e lo spirito delle persone (nonché guarirle da ogni male) è riuscito a ritrovare quelle stesse note serenissime nel canto degli uccelli ed ha quindi deciso, grazie al supporto dei suoi innumerevoli fedeli in molti paesi del mondo, di costituire un’ulteriore attività benefica, ma questa volta dedicata alla salvaguardia ed al benessere dei suoi beneamati pennuti. Così nasce lo Shuka Vana, uno dei centri di accoglienza ed ospedali per animali più particolari al mondo, perché incorpora, oltre alle più moderne strutture assistenziali su oltre un acro di terreno, luoghi legati al culto di Hanuman, il dio scimmia che aiutò il signore Rama durante la guerra Ramayana,  tra cui uno Stupa di terracotta dedicato alle anime dei defunti per cause innaturali ed una statua di Shuka, figlio di Vyasa, l’antico saggio spesso rappresentato con le fattezze di un pappagallo, unico narratore del Bhagavata Purana.
Una base indubbiamente molto diversa dal mero approfondimento scientifico che generalmente alberga dietro a simili iniziative di conservazione del patrimonio faunistico, che ha quindi permesso a Sri Swamiji di meditare particolarmente a lungo sul significato esistenziale degli uccelli ed in particolare delle quasi 290 specie di pappagalli che ospita sul suo terreno, le quali del resto, nella cultura indiana hanno da sempre rivestito un’importanza simbolica tutt’altro che indifferente. Nel Ramayana l’eroe titolare incontra Jatayu, un avvoltoio gigante, che gli parla orgogliosamente dei suoi antenati: il saggio Kashipaya aveva avuto cinque figlie, delle quali Kraunchi diede l’origine alla linea dei gufi, Bhasi generò i corvi, polli e anatre, Shieni gli sparvieri e gli avvoltoi, Dhrtarashtri i cigni, le oche e i cuculi e Shuki le aquile tra cui la leggendaria Garuda. Soltanto da quest’ultima, dunque, sarebbero nati i pappagalli. Una metafora particolarmente pregna presente sul sito dello Shuka Vana parla della relazione tra i diversi uccelli come di uno specchio di quella che esiste tra gli esseri umani e la consapevolezza dell’Anima Suprema. Di pappagalli ve ne sarebbero, infatti, di due tipi: quello che mangia il frutto dell’albero materiale, assaporando tutte le gioie e le sofferenze del mondo. Costui è come l’uomo comune, che ancora non aspira alla crescita interiore ed al raggiungimento futuro dello stato del MokshaIn contrapposizione con l’altro suo simile, che non si reca a carpire un simile frutto, ma osserva da lontano colui che lo sta facendo. Esso è l’uccello più saggio, poiché aspira al sapere universale. Ma come possiamo noi, semplici esseri umani, aspirare alla sua stessa saggezza ed intelligenza? Secondo gli approfonditi studi di numerologia e lo spirito d’osservazione di Sri Swamiji c’è almeno una singola, pregna modalità…

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L’orribile sovrano del regno dei topi

Non c’è espressione migliore di efficienza a questo mondo, della capacità prosperare in ogni situazione del roditore topo. E la forma più alta di quest’ultimo, nella forza, resilienza, intelligenza e ricchezza di risorse, è senza ombra di dubbio il ratto nero. L’essere che dopo aver messo a ferro e fuoco l’India, infestò le navi dei mercanti arabi sbarcando in mezza Asia, per poi giungere fino in Europa grazie all’utile passaggio dei cavalieri di ritorno dalle crociate. La singola specie di mammifero più invasiva al mondo, in grado di soverchiare persino i grandi e antichi insetti delle isole d’Oceania, dopo aver dominato i vicoli oscuri dei maggiori centri culturali e commerciali del Medioevo e Rinascimento, portandovi “accidentalmente” la Peste Nera. Un dono all’umanità, in realtà, concesso dalle pulci contenute nel loro pelo, ma che risultò straordinariamente utile a ridurre il numero dei grossi bipedi rivali, con le loro trappole, i loro veleni, il loro sistema immunitario inefficace. Faceva tutto parte…Del piano? Possibile? Un ratto non è poi così diverso dagli umani. Esso possiede gli stessi organi, lo stesso istinto di sopravvivenza. Vive in società e protegge la sua prole, poiché comprende ad un livello istintivo che in essa alberga la chiave del futuro della sua specie. Ma c’è una cosa di cui manca, almeno presumibilmente: l’organizzazione. Poiché dinnanzi all’esigenza di sopravvivere ogni giorno, tutti i roditori sono uguali. E sarebbe del tutto impossibile per loro, dunque, concepire il concetto stesso di un governo centrale. Il che non significa, del resto, che un ratto particolarmente vecchio e saggio, in determinate condizioni, non possa accentrare su di se una sensibile percentuale del cibo e le altre risorse a disposizione di una singola colonia, iniziando, nei fatti, e dirigerne le operazioni. L’oligarchia è una naturale tendenza di tutti gli esseri viventi, poiché a volte, consente di determinare il corso dell’immediato futuro, piuttosto che subirlo in modalità del tutto passiva. Nelle settimane o mesi a seguire, quindi, i piccoli esseri pelosi iniziavano a girare attorno a simili figure, venerandoli come fossero i loro stessi dei. E ad un certo punto, per quanto ci è dato di sapere, vi restavano attaccati per la coda.
Un Rattenkönig, re dei ratti, è una celebre creatura compòsita particolarmente rappresentativa del folklore tedesco, che tuttavia gode di uno stato di esistenza semi-confermata, entrando nei fatti nell’Olimpo dei criptidi, ovvero gli esseri, come Piedone o il mostro di Loch Ness, sulla cui esistenza molti sarebbero pronti a giurare. Secondo una delle attribuzioni più accreditate, per inciso, essa potrebbe provenire dalla Francia, essendo testimonianza di uno slittamento semantico dall’espressione maggiormente descrittiva di rouet de rats (la ruota di ratti) verso un più poetico ed accattivante roi de rats. L’origine di questa espressione, nei fatti, non è complessa da mettere in relazione con quanto stiamo guardando quest’oggi: un groviglio di roditori attaccati per la coda non potrà che dipanarsi dalla matassa centrale, mentre ciascuna delle menti coinvolte invia istruzioni contrastanti ai diversi membri del collettivo. Se si vuole cedere alla tentazione della logica naturalistica, in effetti, l’agglomerato di animali non potrà che essere la risultanza di uno sfortunato incidente, destinata a sopravvivere soltanto per un periodo particolarmente limitato. Ma l’uomo medievale, si sa, non era il più razionale interprete dei presagi, ragione per cui il ritrovamento di uno di questi ammassi, generalmente, stimolava l’istintivo terrore per l’imminente palesarsi di una qualche terribile piaga. Il che ogni volta,m puntualmente, si verificava. Pensateci: qual’è l’unica situazione in cui i ratti potrebbero annodarsi tra di loro? Se non quella in cui essi si trovassero già stipati in uno spazio troppo stretto per loro, a malapena sufficiente per raggiungere l’uscita della tana. Ovvero nel caso del sussistere di una situazione di squittente sovrappopolazione, con conseguente strascico di gravi malattie. Nel tempo, quindi, la leggenda del sommo masticatore continuò ad accrescere e perpetuarsi, mentre i pochi ritrovamenti accreditati trovavano collocazione nei musei.

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