In qualità di civilizzazione comunemente considerata il simbolo dell’ingegneria pubblica nel mondo antico, l’antica Roma era solita costruire reti di collegamento in grado di durare secoli, se non millenni. Ed anche successivamente alla caduta del potere centrale, simili infrastrutture continuarono ad essere impiegate “resistendo all’uso” per l’intero periodo medievale; un risultato perseguibile anche grazie all’assenza del pesante traffico veicolare dei nostri giorni. Ciò di esistono soltanto rare testimonianze archeologiche, d’altro canto, è il tipo di sentiero costruito per l’esercito durante tali marce di conquista epocali. La costituzione in essere di una linea di transito, capace di essere spianata nel momento del bisogno. E la cui durata sia effettivamente garantita fino al completamento della campagna di turno. Una soluzione semplice. Una soluzione pratica. Forse l’unica possibile, considerati i presupposti. Immaginate una legione che procede in mezzo agli alberi di una foresta, trovandosi improvvisamente innanzi a un tratto di terreno paludoso. Ci sarebbe nulla di più naturale a questo punto, che abbattere i primi, per disporli uno di seguito all’altro sulla seconda?
Il termine tecnico attribuito in epoca moderna per tale prassi parzialmente dimenticata si configura come corduroy road; dal nome del tipico tessuto del velluto a coste, il cui aspetto in plurimi avvallamenti e protrusioni ricorda in effetti quello della strada concepita molti anni prima. Così chiamata tradizionalmente in riferimento al particolare percorso costruito dai normanni poco dopo l’anno mille, per porre sotto assedio la fortezza di Hereward il Fuorilegge, famoso condottiero dei ribelli sassoni durante la conquista delle isole inglesi. Ma per dare seguito ad un simile contesto culturale, il particolare sistema avrebbe in seguito trovato larga applicazione particolarmente dopo i quasi cinque secoli, necessari affinché gli europei approdassero sulle remote coste del Nuovo Mondo. Un luogo dove zone ancestrali di foresta tappezzavano il perimetro dei continenti. E non c’era nulla di più facile, per collegare i vari insediamenti, che traferirne l’opportuna parte sotto le ruote dei propri sistemi logistici eminenti. Ed alcuni dei tratti di corduroy oggi più rilevanti dal punto di vista archeologico sono riemersi sostanzialmente nello stesso modo: durante i lavori per la posa in essere di nuovi tratti di collegamento, mentre i cantieri scavavano al di sotto del terreno noto, riscoprendo il legname di un tempo oramai distante. Vedi il caso della scoperta realizzata nel 2015 in Fairfax, Virginia, dei numerosi tronchi di cedro utilizzati durante l’epoca della guerra civile in sostituzione dei noti sentieri fangosi tipici di questa regione nordamericana. E sembra quasi di vedere i treni di rifornimenti, dietro all’esercito dal passo lieve e i suoi cannoni frutto delle forge mai sopite, mentre incedevano verso gli obiettivi giudicati necessari dal comando dell’Unione…
costruzioni
Il mistero moderno dei nove dragoni nella valle dimenticata dal mondo
Il sistema cognitivo, nonché processo retorico dell’antonomasia permette di assegnare per associazione il termine di connesso al più famoso quartiere di Los Angeles a luoghi e città molto distanti tra loro. La più famosa casistica di questo tipo è Bollywood della fiorente industria cinematografica indiana, concentrata primariamente entro il territorio urbano di Mumbai. Ma abbiamo anche Jollywood di Assam, Lollywood in Pakistan, Helawood in Sri Lanka, Hallyuwood in Corea. E che dire di Kazakhwood (Almaty) Nollywood (Nigeria) o Pallywood (Palestina)… Fino a quello che costituisce, per quantità di dipendenti, il più vasto studio al mondo, la cosiddetta Chinawood degli Hengdian Studios di Dongyang, nella provincia dello Zhejiang. Luoghi che perseguono visioni e canoni espressivi differenti, eppur dotati di taluni aspetti coincidenti tra loro. Uno di questi è l’apparente necessità di poter venire ricordati per un punto di riferimento paesaggistico, come la scritta hollywoodiana sopra Mount Lee, al di sopra del canyon di Beachwood. O la costruzione di musei che impiegano vecchi set cinematografici e costumi al fine di creare attrazioni turistiche di richiamo. Orbene se ora vi dicessi, che il sopracitato sito nel meridione dello storico Regno di Mezzo ha unito le due cose, avendo edificato sulle sue colline un qualcosa che congiunge l’epico al futuristico, il mitologico al divertimento per ogni età dei suoi visitatori? Dove il piccolo laghetto artificiale al termine della profonda gola di Jiulong, chiamato tradizionalmente il pozzo del Drago Nero, si trova sovrastato non da una singola testa del mitico animale, bensì nove straordinari esempi di svettanti statue dedicate a esso, dell’altezza mediana di circa una trentina di metri. Più quello che si abbina ad un segnale sulla porta d’ingresso, un’interessante scultura lignea recante la dicitura “Parco culturale di Kowloon” (九龍 ovvero letteralmente: “dei Nove Draghi”) Ma poiché come sapete il principale degli animali folkloristici d’Asia è caratterizzato dalla forma del corpo simile a quella di un serpente, la storia è lungi da esaurirsi in tale prologo, vedendo per ciascun gigante la presenza di un notevole prolungamento, su per il declivio e fino a 400 metri di estensione per raggiungere la coda necessaria della creatura. Così numerati sulla base dei più antichi cataloghi nozionistici di quel paese, le quattro direzioni cardinali ed i cinque elementi, le strutture sorgono maestose là dove qualcuno, in un momento imprecisato a partire dagli anni 2000, sembrerebbe averle collocate con dispendio non trascurabile di risorse ed investimenti pecuniari. Prima che un’evidente mancanza di visitatori portasse, a circa una decina d’anni dall’inaugurazione, all’improvvida chiusura del parco che ora resta a sempiterna memoria della facilità con cui si tende a dare inizio a grandi e complicati progetti in Cina. Nonché quello che resta in seguito, successivamente all’abbandono dei luoghi un tempo ameni da parte della moderna civilizzazione umana…
Fenomenologia della spirale costruita per intercessione dell’Altissimo affittuario di Santa Fe
Un Dio vicino, partecipe delle problematiche della vita e sempre disposto a porgere una mano, offrendo soluzioni funzionali ai contraccolpi della quotidianità impietosa. Questa l’idea promossa da taluni ordini religiosi, come quello della Sorellanza di Loretto (la doppia “t” basta a distinguersi dal comune marchigiano) nel Nuovo Messico, istituita nel diciannovesimo secolo con l’obiettivo particolarmente rilevante di offrire consulenza religiosa, ed educazione linguistica, alle giovani abitanti di un territorio annesso negli Stati Uniti soltanto nel 1848. Ma ci sarebbero voluti quasi trent’anni affinché l’arcivescovo Jean-Baptiste Lamy, vicario della Chiesa Cattolica, reputasse opportuna la costruzione per loro di una chiesa con annessa sede scolastica, presso il principale sito urbano di Santa Fe. Coinvolgendo, per riuscirci, l’architetto Antoine Mouly e suo figlio Projectus, destinati a perseguire l’ideale di un maestoso edificio neo-gotico, con tanto di contrafforti e finestre con vetrate importate direttamente dal Vecchio Continente. Se non che il primo sarebbe morto di cause naturali ed il secondo, a quanto si dice, in una sparatoria, lasciando l’edificio ormai prossimo all’inaugurazione privo di un singolo, fondamentale elemento: una scala che potesse raggiungere il piano sopraelevato, dove l’unico accesso rimaneva una singola, inappropriata scala a pioli. Le suore dunque, impossibilitate a utilizzare tale soluzione per via dell’abito, contattarono diversi addetti ai lavori ottenendo un’assoluta concordia delle opinioni: nello scarso spazio disponibile, qualsiasi elemento d’ascesa sarebbe risultato antiestetico e/o strutturalmente instabile nella maggior parte delle circostanze future. Che cosa avrebbero potuto fare, quel punto? Le opzioni erano limitate, ma ciò riduceva anche la titubanza. Tutte assieme, all’interno della navata, si misero a pregare all’indirizzo di San Giuseppe, protettore dei carpentieri. Ed è qui che la narrazione storica sfocia, in base alle cronache scritte sull’argomento, nella pura leggenda folkloristica o narrazione di parabole religiose. Poiché alla nona alba, una figura misteriosa apparve all’orizzonte, in groppa ad un mulo carico di attrezzi da carpentiere. E senza che nessuno avesse la reazione istintiva di fermarlo, iniziò a costruire qualcosa nella navata della cappella, che spiraleggiava elegantemente verso l’irraggiungibile piano rialzato. Le sorelle si sarebbero trovate d’accordo, successivamente, nel menzionare l’origine del materiale. Legname che ogni giorno compariva, miracolosamente, all’interno di due ciotole chieste in prestito dall’uomo all’arrivo tra quelle salienti, ma incomplete mura. In un tempo eccezionalmente breve, che taluni affermano esser stato una singola notte, alcuni appena un paio di giorni o al massimo una settimana, l’elemento architettonico fu completato dallo strano individuo. Si trattava di una scala a chiocciola con trentatré scalini (gli anni di Cristo) costruita in abete fino a 6,1 metri, che girava due volte su se stessa raggiungendo in modo alquanto impressionante l’obiettivo, essendo all’epoca del tutto priva di un corrimano. Un’aggiunta la quale, piuttosto che ingombrare lo scenario della chiesa, sembrava accrescerne l’implicita eleganza suscitando stupore e meraviglia nei suoi visitatori, benché taluni utilizzatori soffrissero terribilmente di vertigini al momento in cui dovevano percorrerne l’elicoidale tragitto. Al termine del lavoro, effettuato senza nessun tipo di chiodo o colla, l’uomo scomparve senza chiedere alcunché in pagamento. E nessuno riuscì più a trovarlo, mentre tra i locali cominciò a circolare una strana voce. Che potesse essersi trattato di San Giuseppe, in persona…
Perché la prima regola del tank club resta: non installare i cingoli alla postazione di gioco
Videogames are weird, man! Chiunque abbia sperimentato la gloria dell’eclettico MMO pseudo-simulativo, parzialmente strategico, assolutamente randomico e spesso non causale World of Tanks all’apice degli anni 2010, indipendentemente dalla propria nazionalità, dispone per osmosi al minimo di un breve frasario con prestiti delle lingue dell’Est Europa. La reiterata esclamazione polacca kurwa usato tanto spesso in questo gioco del Belarus, riferita al comportamento presumibilmente non conforme di un partecipante alla battaglia digitale, oppure l’educato moin moin dell’alto tedesco frisone, equivalente grosso modo ad “buon giorno” italiano. E poi l’occasionale, ben più raro cyka blyat (Сука блять) usato nei momenti di maggiore irritazione, principalmente in funzione del fatto che la Federazione Russa, all’epoca come ancora adesso, disponeva di un server dedicato soltanto ai suoi abitanti, probabilmente tra i maggiori contributori economici del più antologico tra i freemium games. Ed era tutto un po’ poetico, un po’ surreale, perché dopo tutto tendevamo a tralasciare il tipo d’atmosfera che gravava in quel contesto, la maniera in cui i cultori di determinate ideologie tendevano ad interpretare i mezzi da guerra della seconda guerra mondiale, costruendo fantasie ponderose tra i conflitti di paesi che, in un modo o nell’altro, riuscivano a coesistere senza ri-definire in maniera inerentemente problematica il proprio “legittimo spazio vitale”. Internet stessa vedeva la Russia dei giovani d’oggi come un luogo atipico al pari del Giappone o della Corea del Sud, con le proprie usanze qualche volta incomprensibili e dove la vita non era sempre piacevole, ma che offriva un contributo interessante all’omogeneità della cultura pop del post-moderno, non più oriundo e non più settorializzato in base alle nazioni del medio Novecento. Così cliccavamo e quelle munizioni (gratis o pagate a suon di valuta “gold”, nel caso di coloro che cercavano la strada più breve) bucavano quell’armatura di reputazioni ereditate e presunta diffidenza, ben prima che operazioni speciali potessero spazzare via le decadi di ore e gioie condivise contro le difficoltà di un vero e proprio casinò dei corazzati virtuali, senza una sola vittima restasse offesa nella propria forma fisica di un campo di battaglia senza sostanza né conseguenze.
Eppure quante volte, ce lo siamo chiesto? Se premere un bottone avesse avuto un prezzo, invece che far muovere soltanto pixel sullo schermo? Se la scienza aptica della trasmissione di un ritorno di forza, così come avviene nei simulatori di guida e anche di volo, almeno prima che la guerra dei brevetti avesse chiuso quel divertimento in una cassaforte assieme al plutonio. Se caricare un colpo nella culatta del cannone comportasse scuotere una bottiglia da un litro e mezzo di Sprite, prima di premere a gran forza con entrambe le mani. Preparandosi a imprecare in quella lingua sconosciuta, eppure al tempo stesso così dannatamente familiare…