L’alveare sovrano delle 953 finestre, strano palazzo che sorveglia la vivace Jaipur

Il possesso di una salda capitale è fondamentale per la fondazione di un regno, così come Sawai Jai Singh sapeva nel momento in cui, finalmente, il potere dei Mughal iniziava ad affievolirsi. Vassallo del preponderante impero islamico fin dal 1699, anno del suo accesso al trono, il Rajput del regno di Amber si trovò investito dell’ardua mansione di tenersi in equilibrio, tra le minacce militari degli stati induisti settentrionali e le continue richieste di fondi e forza lavoro da parte di Aurangzeb I. Con la morte di quest’ultimo all’età di quasi 90 anni tuttavia, e l’accesso al trono di una lunga serie di governanti privi delle stesse capacità diplomatiche e amministrative, l’integrità del territorio apparve sottoposta ad un forte impulso di frammentazione. Alleatosi perciò mediante un matrimonio col vicino Rajput di Mewar, Jai Singh acquisì un potere militare e indipendenza politica tali da poter riuscire a realizzare la sua aspirazione principale: spostare la corte, le residenze reali e i simboli del potere verso una nuova città-fortezza, dotata di mura sufficientemente alte da mantenere all’esterno gli ultimi colpi di coda del serpente che condizionava alla sconfitta del suo sguardo ipnotico la formazione di un nuovo gruppo identitario dell’India unificata. Giunse perciò il 1727 e assieme ad esso la nascita di Jaipur, insediamento nell’odierna regione del Rajasthan, dove a seguito di un triplo sacrificio rituale Aśvamedha, il sovrano decretò che venisse costruito il suo palazzo reale. Costruito grazie all’ampliamento di una loggia di caccia, inglobata nella parte nord-est del nuovo centro cittadino in base alla precisa scienza urbanistica del Shilpa Shastra, l’imponente edificio si sarebbe dunque arricchito nel susseguirsi dei diversi dinasti di un massiccio portone monumentale, l’ornata sala delle udienze Sabha Niwas, il distintivo Sarvato Bhadra, spazio aperto sotto una tettoia per ricevere ed intrattenere i dignitari provenienti da fuori… Ma ciò che maggiormente caratterizza ancora oggi il magnifico complesso, a partire dal 1799, sarebbe stata l’aggiunta che il nipote di Jai Singh, Pratap Singh, fece costruire a estemporaneo beneficio delle sue consorti e numerose ancelle situate negli appartamenti dove, in base alla severa legge del Purdah, l’intera metà femminile della corte avrebbe avuto l’appannaggio limitante ed al tempo stesso esclusivo. Tale ambiente denominato zenana infatti, così come nell’harem di matrice araba, prevedeva l’assoluta segregazione delle sue occupanti che potevano uscire soltanto con il volto ed il corpo interamente coperti. Il che gli avrebbe totalmente impedito, paradossalmente, di presenziare ai molti riti e processioni previste dall’iconografia del potere in base al criterio della religione induista. Da qui l’idea, concretizzata grazie all’assistenza del rinomato architetto dell’epoca Lal Chand Ustad, di costruire una facciata sul fronte del perimetro dotata di caratteristiche intrinsecamente particolari, capaci di rendere possibile l’osservazione senza essere visti a propria volta e farlo mantenendo nel contempo elevati standard di lusso e confortevolezza situazionale. Includendo nel fiabesco Hawa Mahal, come prerogativa fortemente avanzata, una versione completamente automatica di quella che potremmo definire l’aria condizionata dei tempi odierni…

Costruito ad affacciarsi sull’affollata e spesso caotica piazza del mercato, l’edificio incorporato nelle mura palaziali presenta come caratteristica dominante una forma decisamente insolita, che avrebbe potuto trarre ispirazione nell’opinione di molti dalla corona stessa della manifestazione terrena del dio Visnù, Krishna l’essere supremo libero da qualsivoglia condizionamento ed illusione. Al di là di tale associazione culturale, d’altra parte, la costruzione realizzata soprattutto con arenaria di colore rosa e vermiglio finisce per ricordare ad una mente più naturalistica, con le sue numerose finestre sovrapposte, la gremita residenza collettiva di un alveare d’imenotteri dotati delle caratteristiche strisce apiarie. Novecentocinquatatre in totale come dicevamo, del tipo jharokha dotato di cornice scolpita, cupola decorativa e balconata sporgente, nonché nel presente caso, ante apribili dai molti fori sovrapposti (termine tecnico: jaali) che donano l’aspetto complessivo di un finissimo merletto ricamato con cura. Struttura sorprendentemente sottile nel suo senso longitudinale, costituendo una facciata “falsa” che lascerebbe sottintendere un palazzo molto più elevato alle spalle, lo Hawa Mahal misura 15 metri di altezza per 27 di larghezza, mentre la profondità supera raramente gli 8 metri. I piani, nel complesso, sono cinque di cui quelli superiori risultano tuttavia progressivamente più stretti, fino a permettere l’accesso soltanto mediante l’utilizzo di un’angusta e contorta rampa. Difficile determinare, d’altra parte, quanto sia stata una fortuna e quanto invece intenzionale l’utile verificarsi di un fenomeno Venturi grazie alle molte, piccole aperture verso l’esterno, così da velocizzare il transito dell’aria fino al meritato soprannome del sito con la dicitura di Palazzo dei Venti.
Frutto di un lungo lavoro da parte dell’intera equipe di progettisti ed artigiani accolti a braccia aperte da Pratap Singh negli anni del declino della capitale islamica di Delhi, l’edificio rappresenta di suo conto un importante punto di riferimento architettonico proprio in funzione del suo sincretismo inerente, che vede l’incorporazione di elementi di matrice arabesca assieme ai crismi fortemente definiti della corrente costruttiva dei Rajput, frequentemente associata ai forti militari ed altri elementi legati alla difesa del territorio. In tal senso inaccessibile dall’esterno, quanto interconnesso al delicato dedalo di colonnati, saloni e cortili con fontane della parte interna del palazzo o pseudo-Città-Proibita di Jaipur, il Mahal sarebbe presto diventato un importante simbolo locale, al punto da vedere adottato su larga scala il suo schema cromatico, mediante l’utilizzo di vernici e stucchi di colore rosa come simbolo dell’apertura delle genti ai visitatori provenienti da terre lontane. Nel modo che avrebbe famosamente raggiunto l’apice nel 1878, all’inizio esatto del periodo coloniale britannico quando il principe del Galles, futuro Edoardo VII del Regno Unito, giunse a visitare la futura capitale della provincia omonima di Jaipur, trovando le sue strade e le alte mura laboriosamente tinteggiate nel colore memorabile di una preponderante fioritura di alberi di ciliegio.

Con una popolazione già cresciuta a 160.000 anime verso l’inizio del XIX secolo, Jaipur vide dunque crescere in maniera esponenziale il proprio ruolo amministrativo ed industriale, particolarmente nei settori della metallurgia ed il taglio dei marmi estratti direttamente dalle molte cave locali. Senza tuttavia mai perdere le significative implicazioni di natura culturale, con il proficuo turismo derivante, grazie a un patrimonio architettonico capace di rientrare in casi multipli nel ricco catalogo dei beni tutelati dall’UNESCO. Una qualifica che sarebbe stata attribuita anche al prestigioso palazzo delle donne, benché soltanto a partire dal 2019 nel contesto dell’intero centro storico di quel centro abitato.
Là dove l’iconica corona di Krishna svetta, rosa e inconfondibile ricordando agli oltre due milioni di abitanti odierni la pregevole natura interconnessa delle proprie radici. Anche senza la necessità di “abbellirla” con l’inflazionata foto turistica, che vede l’utilizzo di uno specchio per far sembrare che il palazzo sorga da un lago. Prerogativa, quest’ultima, davvero presente in molti edifici altrettanto celebrati e iconici del vasto Rajasthan. Forse potrebbe interessarvi un conciso approfondimento in materia

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