Rappresenta una fondamentale anomalia nello sviluppo estetico ed architettonico del Novecento, il fatto che dal nulla si riuscito a emergere uno “stile internazionale” o maniera tipica di costruire i grattacieli, del tutto privo di creatività nella progettazione in quanto conforme alla descrizione di massima che corrisponde ad un rettangolo, svettante verso il cielo. E che in qualche maniera insidiosa, replicato all’infinito nelle capitali e principali megalopoli del mondo, tale approccio abbia risucchiato l’energia del senso comune, relegando soluzioni alternative ai vezzi di creativi che lavorano fuori dal coro, tanto spesso criticati o incompresi dai passanti urbani delle larghe strade antistanti. Quasi come se l’esistenza di una cultura distintiva, stilemi o metodi espressivi singolari, potesse costituire il peccato fondamentale dei popoli, direttamente contrapposto al trionfo dell’anonimato e la modernità futura. Pensate per conferma al grande architetto veronese Rinaldo Olivieri (1931-1998) ed in modo particolare al suo lascito di maggiore rilevanza storica, il centro commerciale con uffici nei ballatoi e residenze ai piani superiori della Pyramide di Abidjan del 1973, agglomerato principale e fino a dieci anni dopo tale data anche il centro amministrativo della Costa d’Avorio. Opera che trae una diretta ispirazione dalle capanne coniche dei popoli oriundi nonché la geometria astratta di talune statuette di epoca pre-coloniale originarie di queste terre, eppure inserita a pieno titolo nel movimento architettonico del Brutalismo, così strettamente associato alla perdita delle misura umana ed i distopici paesaggi urbani della fantascienza post-modernista. Il che in un certo senso trova giustificazione a posteriori nell’aspetto attuale dell’edificio, colosso alto 14 piani dal lato di 80 metri, i cui 80.000 metri quadri troppo difficili da affittare sono diventati a partire dagli anni ’90 rifugio per i senza tetto, e in seguito una cattedrale derelitta di quello che avrebbe potuto essere, se soltanto le peggiori profezie non avessero trovato il modo e la ragione di realizzarsi. Visioni relative all’insorgenza dell’economia di scala nel settore dell’agricoltura intensiva, relegando gli anni del miracolo ivoriano nell’esportazione di cacao e caffè a nostalgica memoria del passato. Mentre il potere economico che aveva un tempo ambito a trasformare questa città nella New York dell’Africa Occidentale andava scemando, rendendo in tal modo lo sforzo relativo al mantenimento di opere come questa del tutto impossibile da estendere fino all’inizio del nuovo millennio. E le pareti di beton (cemento) macchiate dall’umidità e lo smog iniziavano a riflettere gli spazi interni derelitti e cadenti…
urbanistica
Il sistema di barriere sulla foce che conduce le speranze di Dublino verso il mare
Città costiera che si affaccia sul Mare d’Irlanda, la capitale dell’Isola Verde avrebbe potuto costituire da molti punti di vista l’esempio di un porto perfetto. Situata su un terreno pianeggiante attraversato dal fiume Liffey, in corrispondenza di una foce riparata dalle intemperie del settentrione, semplicemente troppo utile dal punto di vista logistico per poter pensare di costruire in altro luogo i suoi moli. Se non che al concludersi dell’Era Medievale, e con il conseguente aumento delle dimensioni e del pescaggio delle imbarcazioni di uso comune, qualcosa di terribile iniziò a verificarsi: una quantità crescente di dispendiosi, e molto spesso tragici naufragi. Circa 300 registrati a partire dall’inizio delle testimonianze scritte dell’autorità portuale, principalmente a causa della coppia di banchi di sabbia situati sul fondale della baia, i due Bull del tutto invisibili al di sotto delle onde di superficie. La cui esistenza fu ad un certo punto collegata, grazie alle conoscenze idrologiche del tempo, alla quantità di sedimenti trasportati dal suddetto corso d’acqua, la cui velocità di scorrimento risultava insufficiente a spingerli oltre la zona antistante al punto d’approdo più tradizionale d’Irlanda. Ci sono tuttavia molteplici ragioni per cui il centennio a partire dal 1700 viene chiamato “secolo della scienza”, principalmente attribuibili ad un modo innovativo di concepire il rapporto tra causa ed effetto, che potremmo definire l’inizio del metodo scientifico propriamente detto. Allorché ben prima della codificazione accademica da parte del fisico italiano Giovanni Battista Venturi dell’effetto che oggi porta il suo nome, molti erano a conoscenza del modo in cui restringere ed incanalare l’acqua potesse incrementare la rapidità del suo scorrimento. Il che avrebbe portato attorno al 1715 alla costruzione di una prima barriera nelle acque antistanti il punto critico, costituita da una serie di piles (pali) in legno sulla parte finale del canale urbano. Ma soprattutto in seguito ad una serie d’inverni sufficientemente burrascosi da infliggere danni a tale opera, l’effetto si rivelò trascurabile il che avrebbe portato l’Assemblea Cittadina ad autorizzare una serie d’interventi maggiormente estensivi, concepiti al fine di edificare un vero e proprio muro che potesse resistere per lungo tempo all’incessante forza delle maree. Con il trasporto di una vasta quantità di pietre granitiche provenienti dalla cava di Dalkey ed altre miniere vicine, il progetto iniziò dunque a concretizzarsi nel 1748. Il suo completamento avrebbe richiesto oltre due decadi, un buon risultato tutto considerato, trattandosi all’epoca, con i suoi 5 Km abbondanti, del più lungo muro marino che fosse mai stato costruito da mano umana…
L’alveare sovrano delle 953 finestre, strano palazzo che sorveglia la vivace Jaipur
Il possesso di una salda capitale è fondamentale per la fondazione di un regno, così come Sawai Jai Singh sapeva nel momento in cui, finalmente, il potere dei Mughal iniziava ad affievolirsi. Vassallo del preponderante impero islamico fin dal 1699, anno del suo accesso al trono, il Rajput del regno di Amber si trovò investito dell’ardua mansione di tenersi in equilibrio, tra le minacce militari degli stati induisti settentrionali e le continue richieste di fondi e forza lavoro da parte di Aurangzeb I. Con la morte di quest’ultimo all’età di quasi 90 anni tuttavia, e l’accesso al trono di una lunga serie di governanti privi delle stesse capacità diplomatiche e amministrative, l’integrità del territorio apparve sottoposta ad un forte impulso di frammentazione. Alleatosi perciò mediante un matrimonio col vicino Rajput di Mewar, Jai Singh acquisì un potere militare e indipendenza politica tali da poter riuscire a realizzare la sua aspirazione principale: spostare la corte, le residenze reali e i simboli del potere verso una nuova città-fortezza, dotata di mura sufficientemente alte da mantenere all’esterno gli ultimi colpi di coda del serpente che condizionava alla sconfitta del suo sguardo ipnotico la formazione di un nuovo gruppo identitario dell’India unificata. Giunse perciò il 1727 e assieme ad esso la nascita di Jaipur, insediamento nell’odierna regione del Rajasthan, dove a seguito di un triplo sacrificio rituale Aśvamedha, il sovrano decretò che venisse costruito il suo palazzo reale. Costruito grazie all’ampliamento di una loggia di caccia, inglobata nella parte nord-est del nuovo centro cittadino in base alla precisa scienza urbanistica del Shilpa Shastra, l’imponente edificio si sarebbe dunque arricchito nel susseguirsi dei diversi dinasti di un massiccio portone monumentale, l’ornata sala delle udienze Sabha Niwas, il distintivo Sarvato Bhadra, spazio aperto sotto una tettoia per ricevere ed intrattenere i dignitari provenienti da fuori… Ma ciò che maggiormente caratterizza ancora oggi il magnifico complesso, a partire dal 1799, sarebbe stata l’aggiunta che il nipote di Jai Singh, Pratap Singh, fece costruire a estemporaneo beneficio delle sue consorti e numerose ancelle situate negli appartamenti dove, in base alla severa legge del Purdah, l’intera metà femminile della corte avrebbe avuto l’appannaggio limitante ed al tempo stesso esclusivo. Tale ambiente denominato zenana infatti, così come nell’harem di matrice araba, prevedeva l’assoluta segregazione delle sue occupanti che potevano uscire soltanto con il volto ed il corpo interamente coperti. Il che gli avrebbe totalmente impedito, paradossalmente, di presenziare ai molti riti e processioni previste dall’iconografia del potere in base al criterio della religione induista. Da qui l’idea, concretizzata grazie all’assistenza del rinomato architetto dell’epoca Lal Chand Ustad, di costruire una facciata sul fronte del perimetro dotata di caratteristiche intrinsecamente particolari, capaci di rendere possibile l’osservazione senza essere visti a propria volta e farlo mantenendo nel contempo elevati standard di lusso e confortevolezza situazionale. Includendo nel fiabesco Hawa Mahal, come prerogativa fortemente avanzata, una versione completamente automatica di quella che potremmo definire l’aria condizionata dei tempi odierni…
Nel sottosuolo della Cechia, il misterioso cavaliere delle caditoie urbane
La strana sensazione di trovarsi nel momento topico, l’ideale punto di verifica del proprio stesso locus d’esistenza. Le sublimi convinzioni di una personalità inerente: molte cose stupide o imprudenti sono state fatte, dai pregressi membri della società moderna, nell’intento di riuscire a perseguire il culmine di una simile catena percepita di cause ed effetti. Ciò che viene messo in mostra nel canale dell’utente di YouTube Kanálismus della città di Brno in Repubblica Ceca, d’altronde, pare giungere da un piano esagitato della stessa cognizione, l’ultimo capitolo del senso logico connesso all’effettiva percezione conseguenze. È questo dunque l’Instagrammer per antonomasia, per utilizzare il neologismo come antonomasia di coloro che mettono se stessi o gli altri in situazioni di pericolo, in un contesto totalmente originale che potremmo definire in tal senso come “nuovo”. Giacché se qualcosa andasse, in quei momenti, per il verso sbagliato non c’è nulla o nessuno che potrebbe frapporsi tra costui e l’ora prospettata della non-esistenza. Soltanto un folle, in altri termini, potrebbe mai pensare di mettersi a fare lo stesso!
Prima di passare ad una puntuale descrizione di quanto stiamo vedendo, sembrerà corretto a questo punto sollevare una fondamentale domanda. In quale luogo, tra l’ampia possibilità offerta da un centro abitato di oltre 400.000 anime, vorreste trovarvi MENO, al principiar di un catastrofico temporale? Il tipo di rovescio denso ed improvviso, trattenuto dalle dense nubi degli azzurri cieli, finché tutta insieme si potesse rovesciare la fluente furia di una stagione. Risposta facilmente prevedibile per molti dei presenti: in basso, sotto la precisa linea di demarcazione del suolo asfaltato. Là, dove ciò che scorre defluisce o almeno questo è ciò che avremmo l’essenziale aspirazione di veder succedere appropriatamente. Lontano dagli occhi e così anche dal cuore, ma non dalla mente di coloro che comprendono, sinceramente, il tipo d’investimenti e competenze messe in campo nell’odierno mondo ingegneristico. Affinché la gente possa vivere a stretto contatto e in circostanze sufficientemente stabili e sostanzialmente prive di pericoli capaci di condurre all’automatico disfacimento delle rispettive metodologie dell’esistenza. Nel dedalo fondamentale che permette alla convergenza di riuscire a perpetuarsi, la venosa ragnatela degli scarichi fognari e tutta l’acqua che là dentro viene indotta a propagarsi. Giù, dove le telecamere del cyberspazio non avevano mai avuto una ragione, né responsabile motivazione, di finire per trovarsi nel momento in cui ogni cosa viene trascinata fino all’ultimo capitolo del libro delle possibilità presenti…



