È forse una delle più notevoli esperienze di scoperta offerte ai visitatori stranieri, quella d’inoltrarsi nel quartiere commerciale del mercato notturno di Pettah, in prossimità del centro della capitale commerciale e culturale dello Sri Lanka. La gremita Colombo, così chiamata all’epoca dei Portoghesi come traslazione dall’originale termine Kolon thota, succeduta nel suo ruolo amministrativo dall’adiacente Sri Jayawardenepura Kotte nel 1982. Sebbene basti volgere lo sguardo allo skyline dei rispettivi insediamenti, per comprendere dove risieda ancora oggi il polo sincretistico delle diverse religioni nazionali. Allorché inoltrandosi nella scacchiera disegnata tra i siti residenziali, gli uffici multipiano e le vocianti radure del tessuto urbano, ci si trova innanzi d’improvviso ad edifici totalmente iconici che tendono a riassumere il ricco retaggio culturale della società isolana. Luoghi come l’alta chiesa cristiana di Wolvendaal, curiosamente dedicata alla pregressa infestazione di sciacalli nella corrispondente radura (erroneamente definiti wolves in seguito all’arrivo degli Olandesi) o il tempio Hindu di Sri Ponnambalavaneswarar con il suo gopuram monumentale, la trapezoidale porta decorativa rappresentativa dei siti di culto dell’India Meridionale. Mentre per quanto concerne la nutrita collettività dei singalesi fedeli alla tradizione dei Dawudi Bohora, depositari dello sciismo ismailita islamico importato dallo Yemen a partire dal X secolo d.C, non ci sono grossi dubbi su quale possa essere il principale ambiente architettonico di riferimento. Non appena ci s’imbatte nelle cupole appuntite della cosiddetta Moschea Rossa, la cui forma vagamente simile alle riconoscibili “cipolle” della tradizione Musulmana viene coadiuvata da un singolare cromatismo delle linee geometricamente sovrapposte; scelta chiaramente insolita dell’architetto Habibu Lebbe Saibu Lebbe che ne curò il progetto a partire dall’anno 1908, con l’intento esplicito di evocare piuttosto l’immagine di un melograno, frutto citato per tre volte nel Sacro Corano in qualità di simbolo e prezioso dono del Paradiso. Sgargiante presenza situata tra palazzi totalmente privi di ulteriori particolarità latenti, la notevole costruzione, quasi escheriana nella sua complessità inerente, incorpora dunque elementi dell’architettura indo-iranica risalente al XIX secolo, mutuata in modo indiretto dalle creazioni poste in opera durante i lunghi anni coloniali del Raj britannico. Ma essa è soprattutto la fondamentale risultanza, in modo ancor più significativo, di un’interpretazione fortemente personale del bello, quasi naïf nell’inconfondibile spontaneità del proprio autodidatta e misterioso creatore. In modo tale da costituire un faro unico all’interno del tessuto cittadino, nonché una delle attrazioni maggiormente memorabili per chi tenta di conoscere la complessa stratigrafia di Colombo dalle sue caratteristiche tangibili ed i beni culturali immanenti…
La moschea di Jami-Ul-Alfar, il cui appellativo deriva dall’unione della parola araba per “luogo di preghiera congregazionale” con una possibile traslitterazione fonetica singalese di uno dei 99 nomi di Dio, viene ad ogni modo impiegata ancora oggi per lo scopo funzionale della sua fondazione. Il che rende opportuno far notare preventivamente la complessità dell’ingresso ai non islamici, con orari particolari riservati ai fedeli e regole straordinariamente specifiche soprattutto per l’accesso alle donne, consentito soltanto in particolari giorni ed orari della settimana. L’ingresso al di là del suo portale, ai pochi e fortunati eletti, offre tuttavia l’esperienza diretta di un cortile interno unico nella sua categoria, con piani sovrapposti che s’incastrano tra loro, in un effetto ulteriormente potenziato dalla compenetrazione ottica delle già note superfici a scacchiera. Non è precisamente noto cosa abbia portato Habibu Lebbe ed i suoi committenti all’insolita scelta per la facciata e il resto, essendo l’architetto in questione notoriamente privo di educazione formale o laurea nel settore, cui si era piuttosto interessato a partire dal lavoro del padre, che svolgeva la funzione meramente pratica di muratore per la comunità locale. Possibilmente erudito, forse a partire dalla frequentazione di una qualche scuola islamica informale, il misterioso creativo non lasciò a quanto si narra mai la propria terra d’origine se non per supervisionare la procura dei legni e marmi pregiati, conoscendo le molte meraviglie architettoniche del sub-continente soltanto dalle fotografie che gli venivano mostrate di tanto in tanto dai suoi committenti. Fino all’opportunità all’inizio del secolo scorso, fornitagli dai commercianti indiani che ne avevano conosciuto e compreso le capacità notevoli, di costruire quello che sarebbe rimasto il suo incontrastato capolavoro. Sfruttando al meglio il limitato spazio disponibile egli pensò conseguentemente ad un’insolita costruzione multilivello, che potesse in qualche modo costituire un punto di riferimento inconfondibile con i suoi motivi quasi tessili all’interno del piano regolatore alquanto carente di Reclamation Road. Operazione perfettamente riuscita al punto che, in base alle cronache pregresse, la moschea sarebbe giunta a costituire l’equivalenza di un faro diurno per le navi di ritorno al porto di Colombo, rientrando inizialmente anche tra gli edifici più elevati della città. Certamente degna di nota, come conclusione della storia, anche la vicenda largaemente nota sullo sfortunato decesso di Lebbe, più volte pubblicata su Internet a partire da un famoso racconto della sua nipote Ummul Fahima, che non ebbe mai l’occasione di conoscerlo direttamente. Questo perché al completamento della moschea, l’architetto ebbe l’idea di mettersi al centro della strada al fine di ammirarla, quando un carretto trainato da cavalli finiti fuori controllo lo investì improvvisamente, uccidendolo sul colpo. Dando anche luogo, secondo la tradizione tramandata in famiglia, ad un ulteriore quanto singolare miracolo: la maniera in cui la salma riesumata per accertamenti medici si presentò perfettamente integra e del tutto privo di segni, mostrando un’incorruttibilità possibilmente riconducibile alla fenomenologia dei santi della tradizione europea.
Ed è un peccato indubbio che l ‘eclettismo, la libertà formale, l’espressionismo e l’originalità del risultato messo in opera con il suo lascito di maggior importanza siano periti assieme a lui quel giorno, lasciando totalmente priva di termini di paragone una creazione al tempo stesso volumetrica ed indifferente, sgargiante al fine di facilitare il riconoscimento sulla lunga distanza ancor più di qualsiasi insegna pubblicitaria dei nostri giorni.
All’interno di una società lontana dalle terre di confine, ma che grazie al proprio porto permetteva l’accesso alle variopinte culture di ogni parte del mondo. E dove ogni fede poteva essere la benvenuta, ancor prima dell’irrigidirsi dei rapporti vicendevoli dovuto alla percezione contrapposta di taluni meriti e valori all’interno degli spazi condivisi del nostro mondo.


