Classe, semplicità, eleganza e un senso di rispetto nel mantenimento dei valori estetici di un tempo. Questi sono i meriti, più di ogni altro, che individuiamo come validi nel metodo impiegato per ripristinare i fasti di un’antica dimora, specie se si tratta di un castello. Simbolo per eccellenza del potere assoluto, su un territorio che può estendersi ben oltre i limiti spioventi del suo fossato. Ed ancor più quando è mancante quel particolare elemento, venuto meno l’originario scopo difensivo di tali alte mura, trasformate dalle circostanze in alternativa più rurale del grattacielo. Non è forse vero che l’odierno capitalista, in questo vigente periodo della storia, può diventare il possessore di un’autorità distinta e trasversale, soprattutto quando messo a confronto con coloro che devono chiedere il permesso, anche soltanto per cambiare il colore dell’uscio di casa propria? Ce lo dimostra l’insolita ed impressionante vicenda dello chateau La Stelsia (già Lalande) costruito nel distretto di Lot-et-Garonne nel Sud-Ovest della Francia, a quanto affermano le poche fonti attorno al XIII secolo come parte della linea difensiva contro eventuali scorribande da parte degli Inglesi. Il cui approfondimento diviene relativamente più semplice a partire dal XVII secolo, quando membri non meglio definiti dell’aristocrazia locale ne fecero una fattoria fortificata, quindi l’elegante dimora che possiamo vedere tutt’ora. Se ci riesce di scrutare oltre la sottile scorza di quella vernice variopinta che oggi offusca i crismi architettonici che tenderemmo a dare per scontati.
Questa l’idea e tale la realizzazione ad opera di Philippe Ginestet, l’imprenditore ed uomo d’affari natìo proprio di un paese a pochi chilometri da qui, che avendo guadagnato una fortuna non indifferente grazie alla catena di negozi per la casa Gifi ha scelto di acquistare quasi quindici anni fa l’imponente struttura da 31 camere e 40 bagni, ormai da tempo adibita ad hotel ma ormai prossima al fallimento. Impegnandosi a restaurarla completamente a patto che: 1 – Potesse avere i permessi di rinnovare il business per riuscire a renderlo redditizio. 2 – La colorazione esterna dell’edificio restasse totalmente a sua esclusiva e indisputabile discrezione. Il che, vista l’alternativa per un posto che sembrava già destinato a cadere in rovina, non lasciò materialmente grandi alternative alla commissione per i beni culturali del dipartimento…
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Il titano di Buffalo, municipio degno di simboleggiare il mutamento del canone statunitense
Associare lo stato di New York al concetto di grattacielo evoca immediatamente immagini dell’isola di Manhattan, zoccolo di roccia metamorfica che ad oggi fa da basamento al singolo conglomerato di edifici più notevoli di tutto l’emisfero occidentale. In un’epoca coéva, d’altra parte, l’idea di costruire un palazzo in grado di rivaleggiare con la spropositata imponenza dei paesaggi naturali affascinava molti, altri luoghi negli Stati Uniti avevano iniziato a muoversi nella saliente direzione, per manifestare l’intenzione di potersi trasformare in vaste e tentacolari metropoli, ammesso e non concesso che da ciò potesse scaturire l’espressione ideale della convivenza umana. Da un simile punto di vista la città di Buffalo, con una popolazione che negli anni ’30 del Novecento era circa il doppio delle 270.000 anime allo stato attuale, presentava un incentivo ulteriore; quello di trovarsi posizionata, nel punto mediano tra i laghi Erie ed Ontario, in un punto di collegamento strategico con l’antistante Canada, volendo anche per questo diventare il simbolo di un’industria in corso di trasformazione e l’incremento della prosperità collettiva in crescita costante. Qualcosa che fu visto degno di ricevere un maestoso tempio, destinato a sorgere nel giro di appena tre anni. Punto d’inizio, e d’arrivo al tempo stesso…
Insediamento nato nel 1797 successivamente all’acquisto da parte dei coloni di un villaggio delle tribù irochesi, qui esso aveva visto applicare un coerente adattamento dello stile architettonico sul modello europeo, tanto efficacemente impiegato mezza decade prima nella costruzione della Washington di Pierre l’Enfant. Laddove il collega Joseph Ellicott, sfruttando l’espandersi di un sistema di strade a raggera dalla piazza centrale di Niagara Square, aveva previsto un intercalare di parchi equidistanti ed isolati complementari, ciascuno dedicato all’espressione di un diverso aspetto della vita cittadina. Ed al centro di tutto, spazio per quella che sarebbe diventata un giorno la casa del popolo, un edificio amministrativo monumentale d’imponente e distintiva composizione. Mentre la città continuava a crescere, tuttavia, l’obiettivo sarebbe stato rimandato più volte, fino all’acquisto da parte dell’amministrazione nel 1871 di uno slargo presso il mozzo della ruota ideale, ove sarebbe sorto un palazzo di granito in stile neo-gotico dell’architetto Andrew Jackson Warner, con tanto di torre dell’orologio alta sette piani. Non ci volle molto tuttavia affinché il rapido incremento della popolazione rendesse tale sede municipale eccessivamente angusta, incoraggiando appena mezzo secolo dopo la costruzione di una nuova sede municipale dalle proporzioni maggiorate. Ma le regole del “gioco”, nel frattempo, avevano subìto un cambiamento di significativa rilevanza. Chiamati a tal fine gli architetti George J. Dietel and John Wade, fu deciso quindi che il palazzo sarebbe sorto nello stile simbolo del nuovo paradigma, l’Art Decò diventato popolare grazie all’opera d’innumerevoli ingegneri, progettisti e fautori della rivoluzione dei canoni visuali vigenti. Esso sarebbe stato inoltre, in maniera quasi incidentale, assolutamente immenso…
L’ultimo castello colonnare che troneggia sotto l’isola scozzese dei giganti
Prima degli articoli sulle riviste, i documentari televisivi, gli influencer di TikTok, le destinazioni turistiche nascevano e guadagnavano la loro fama tramite gli strumenti propriamente interconnessi al mondo della cultura. Così che la citazione da parte dello scrittore James Macpherson di un’isola remota nell’arcipelago delle Ebridi un tempo denominata Staffa (“colonna”) lunga appena 1,2 Km e larga 400 metri, come luogo di nascita di Ossian, il leggendario poeta da lui citato come ispiratore del suo corpus di opere narrative sulla mitologia dei popoli del Nord, avrebbe suscitato a partire dal 1761 l’interesse collettivo dei romantici, incapaci di resistere al sito caratteristico ove sorgeva un antico castello. Personaggi come il compositore Felix Mendelssohn, che ancora nel 1829, durante un’escursione presso l’arcipelago d’isole scozzesi noto come le Ebridi, fu famosamente sorpreso di non trovare sopra le alte coste nessun tipo di rovina, ma al di sotto di queste, lo spazio vuoto di una grande sala simile alla volta di una cattedrale, la cui altezza dalle acque lambenti dell’Atlantico sembrava superare i 22 metri d’altitudine dallo scafo della sua minuta imbarcazione. Dovete considerare a tal proposito come a quell’epoca, persino dopo l’introduzione del metodo scientifico e la nascita dell’archeologia, l’origine naturale di una simile struttura non sarebbe stata particolarmente evidente, questione già all’origine di una disputa mezzo secolo prima tra il geografo del regno Joseph Banks ed F. Cope Whitehouse, egittologo, nonché studioso delle cosiddette civiltà perdute. Ciò detto il musicista Mendelssohn, che aveva differenti sensibilità, senza soffermarsi troppo sulla questione si lasciò trasportare da un diverso scorcio sensoriale, quello garantito dal particolare suono che le onde producevano all’interno di una simile struttura basaltica, costituito da un’innumerevole susseguirsi di formazioni di basalto verticale geometricamente ripetute, simili a quelle dell’ancor più famoso Selciato del Gigante (“Clochán an Aifir“) situato all’altro lato del braccio di mare che separa Scozia ed Irlanda. Un rimbalzare riecheggiante di tonalità melodiose, che egli avrebbe trasformato e riproposto l’anno successivo come tema principale di quello che potrebbe essere chiamato il suo capolavoro, l’ouverture privo di un’opera Die Hebriden, dedicato al sublime senso di solitudine e la natura selvaggia dell’eponimo gruppo d’isole inglesi. Entro cui lo spazio cavo sotto Staffa era stato detto in lingua gaelica, prima del passaggio e della trattazione ad opera di J. Banks, Uamh Bhin ovvero Grotta Melodiosa, finché le associazioni letterarie di cui sopra non l’avrebbero vista ribattezzare con l’attuale qualifica di Fingal’s Cave, dal nome del personaggio ossianico, più o meno basato sulla figura mitologica di Finn/Fionn mac Cumhaill, il condottiero dell’eroica banda di avventurieri noti come Fianna, possibilmente collegato alla creazione stessa di questo luogo senza pari nel mondo…
Catarsi nel Caucaso: la tragedia del maestro che precipitò dal tetto del monastero
La conoscenza approfondita della storia di un luogo nel corso del Medioevo è frequentemente la diretta risultanza del lavoro di un cronista, personalità istruita che a vantaggio dei contemporanei e la posterità ulteriore, fece impiego delle proprie conoscenze per tradurre in una cronaca la dettagliata memoria dei trascorsi di un popolo, un paese, una famiglia. Lavoro che fu compiuto, per quanto riguarda l’Armenia dall’XI al XIII secolo d.C, dal vescovo metropolitano ortodosso Stepanos Orbelian, discendente dell’omonima e prestigiosa famiglia di feudatari della provincia di caucasica di Syunik. Che si misero al servizio, nel 1177, del nipote del re della Georgia, il principe Denma, durante la ribellione contro il sovrano usurpatore Giorgio III Bagration. Destinata a naufragare nel sangue e la severa punizione di quest’ultimo, nonché l’esilio dei suoi più fedeli sostenitori. Ma i signori di Syunik sarebbero tornati in patria la generazione successiva, per assistere la figlia del re Tamar e il suo successore nonché nipote, Giorgio IV Lasha contro l’invasione del Turchi Selgiuchidi, il che valse a Liparit III Orbelian la qualifica di viceré di Georgia e tutti i suoi domini. Seguì un’epoca di ricchezza e prosperità nella provincia, capace di riflettersi in quell’epoca dal forte sentimento religioso nella costruzione di splendidi edifici ecclesiastici, svettanti chiese e notevoli monasteri. Il più celebre dei quali, senza ombra di dubbio, sarebbe rimasto nel millennio successivo quello di Noravank, situato a 122 Km dalla città di Yerevan dentro un angusto canyon scavato nell’arenaria dal fiume Amaghu, vicino al villaggio di Yeghegnadzor. Un complesso architettonico indicativo delle tecniche costruttive dell’epoca, usato anche come residenza e mausoleo della famiglia a partire dal completamento della chiesa cruciforme di Surb Karapet, dedicata alla figura di Giovanni Battista. Ma le cui vette più elevate, in più di un senso, sarebbero state raggiunte nel 1339 con l’adiacente santuario dedicato ad Astvatsatsin (la “Santa Madre di Dio”) struttura alta 26 metri costituita da due piani, dalla forma di un rettangolo sormontato da una croce greca. Dietro le cui svettanti mura, aguzzando la vista, un osservatore ideale di quel panorama potrà scorgere una piccola khachkar, la tipica croce decorata con bassorilievi dei luoghi sacri e cimiteri Armeni, così istantaneamente diversa dalle altre contenute entro il perimetro del monastero, proprio perché umile nell’aspetto e semplice nel progetto artistico di colui che dovette crearla. Si tratta, molto chiaramente di una tomba, dedicata a niente meno che Momik, il leggendario scultore, architetto e illustratore di manoscritti del XIII secolo, la cui ultima creazione fu proprio la chiesa di Astvatsatsin. Ed il cui completamento, secondo una leggenda collegata all’ultimo periodo della sua vita, non avrebbe mai avuto l’occasione di vedere. Causa il tradimento supremo, subìto proprio per il tramite di colui che gli doveva maggiore riconoscenza…