Si può cambiare la ruota di un aereo in volo?

Gladys Ingle

È una storia del primo secolo dell’aviazione, o per meglio dire, che si colloca agli albori di quei cento anni, il periodo attraversando il quale siamo passati, dal delicato Flyer dei fratelli Wright, a grandi bolidi che volano sopra gli oceani, i caccia VTOL e addirittura lo Space Shuttle della NASA, purtroppo decommissionato. Nulla dura per sempre, tranne il ricordo delle imprese degne di essere discusse, anche se sono trascorsi gli anni di oltre un paio di generazioni. E certamente non è eterno uno pneumatico, sottile involucro con dentro l’aria, che rompendosi in determinate circostanze, può far perdere il controllo di un veicolo su strada. Mentre lassù nel cielo, molto, molto peggio… È una vicenda complessa, che può essere riassunta in un concetto semplice e immediato: EMERGENZA! Questa gente si trovava, lietamente intenta a vagheggiare, sopra un aeroporto di Los Angeles piuttosto noto a quei tempi, la Scuola d’Aviazione di Burdette. Celebre perché, come ben sapevano i vicini coabitanti, da quella pista partivano missioni di continuo, sempre soggette a un qualche tipo di “imprevisto” o “incidente di percorso”. Non per niente, i principali utilizzatori della pista a partire dal 1924 avevano un nome come The 13 Black Cats (I Tredici Gatti Neri) e il pericolo l’avevano trasformato in una costante della propria vita, nonché quella degli spettatori. Così costoro, nel frangente qui documentato, finivano per perdersi in qualche maniera misteriosa la metà esatta delle ruote di un biplano, il Curtiss JN-4, che in totale ne ha soltanto due. L’avevano montata male? Le viti erano corrose? Un gabbiano se l’è ingurgitata? Poco importa, a posteriori, stabilire le cause di un disastro in fieri, la palla di fuoco che nient’altro attende che il momento della verità. Un tale velivolo, tutt’altro che versatile, in simili condizioni non potrebbe infatti mai atterrare. E saremmo già stati pronti a perderci d’animo se non che d’un tratto giunge lei… Gladys Ingle! La donna con “coraggio e nervi di ferro” (l’acciaio ancora non si usava) che costituiva l’inesattezza semantica nel nome di squadriglia degli stuntmen in questione. Si diceva infatti che nell’affiatato gruppo, che da sempre si sforava di sfidare il rischio e la superstizione, persino i nomi d’arte di ciascun membro dovessero contenere esattamente 12 lettere. Vincolo che apparentemente, non si applicava all’unica felina della compagnia, tra l’altro specializzata in una delle imprese più caratteristiche di quegli anni, punto cardine del repertorio dei barnstormers, gli acrobati dei circhi volanti: ovvero la camminata sopra le ali a centinaia di metri d’altitudine, come niente fosse, mentre l’aereo può procedere anche a 90-120 Km/h. Il che, naturalmente, risultava decisamente accessibile rispetto ai nostri tempi di semplici monoplani, sopra i quali non potresti reggerti a nulla, tranne la speranza in via d’esaurimento. Mentre questa vera e propria atleta, a vederla mentre si trasferiva nel corso dei suoi show tra  piloni, i cavi e le sporgenze di collegamento, più che un gatto ricordava una scimmia, animale simbolo della suprema agilità.
Chi meglio di lei, dunque? Se non allora, quando? Un richiamo riecheggia per il campo, mentre già l’eroina si assicura la gomma di ricambio sulle spalle, a mò di zaino. Accompagnata da un paio di fidi compagni, s’invola quindi a bordo di un secondo biplano, per dirigersi a salvare il segno della situazione senza l’ombra di un imbracatura o un paracadute. Certamente, ce la farà…

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Il volo della slitta di metallo: le portaerei ricominciano da qui

Ford Carrier EMALS

Ore 1300, 17 giugno 2015: una sirena che risuona fragorosa tra gli ampi spazi del ponte di volo della nuova USS Gerald R. Ford, la più grande nave militare che abbia mai solcato i mari della Terra, varata alla fine del 2013 ma che non riceverà un suo ruolo attivo almeno fino a Febbraio del prossimo anno. È questo il segnale, tutt’altro che inatteso, per dare il via al momento culmine di una particolare cerimonia, da compiersi sotto la supervisione silenziosa del capitano, il suo entourage, uno stuolo intero di ingegneri. E soprattutto grazie a lei, la donna che questo vascello l’ha bagnato per la prima volta, supervisionando l’uso della classica quanto allegorica bottiglia di champagne. Stiamo parlando, tanto per attribuire un nome alla figura in abiti informali, di Susan Ford, l’unica donna tra i quattro figli del 38° presidente degli Stati Uniti, il cui paterno nome è stato iscritto sullo scafo della solcatrice degli oceani qui presente. E che nave: la prima di una nuova classe, destinata a rimpiazzare nel corso dei prossimi 20 anni le pur ottime, ma ormai attempate 10 consimili della storica USS Nimitz (varo: 1972) prima super-portaerei statunitense con doppio reattore nucleare A4W, fornita quindi di un’autonomia essenzialmente non condizionata dall’esaurirsi del carburante. Ma già scende il silenzio carico di aspettativa sopra questa nuova erede, mentre gli addetti spingono in posizione la vera protagonista dell’evento. Un curioso e ingombrante dispositivo rosso, dalla forma solo vagamente aerodinamica e dotato della telecamera di bordo su una gondola (estrusione di supporto) frontale, il cui peso complessivo, presumibilmente, dovrebbe assomigliare a quello di un qualche aeromobile destinato a far parte dei 75 che trasporterà la nave. Assai probabilmente un qualche modello di F/A-18, ovvero il successore del mai dimenticato F-14, la cui forma angolare, tante volte orgogliosamente messa in mostra al cinema e in tv, aveva condizionato i parametri dell’estetica automobilistica degli interi anni ’70 e ’80. Mentre adesso, nell’epoca del futuribile come ideale collettivo, ci ispiriamo direttamente al mondo della pura fantasia. Due marinai con elmetto protettivo, a questo punto, assicurano dei grossi cavi di metallo al gancio che spunta in mezzo alla rotaia, l’unica parte visibile di un nuovo meccanismo, poi si allontanano e ritornano sull’attenti. L’aria pare quasi fermarsi, mentre l’ospite d’onore alza il braccio sinistro e, in un gesto un po’ rigido, inizia a puntarlo nella direzione del decollo. Ora, naturalmente tutti noi sappiamo che gli aerei della marina in servizio attivo vengono lanciati grazie all’uso di una catapulta. Ma ciò che avviene dopo è un puro esperimento di fisica applicata…
Tra gli aspetti tecnici più problematici delle portaerei a propulsione nucleare, da sempre concepite per restare in servizio molte decadi e venire aggiornate mano a mano, ne permaneva uno dalla significativa inefficienza, eppure troppo oneroso, o complesso da sostituire: il vecchio sistema di lancio del CATOBAR (Catapult Assisted Take Off But Arrested Recovery) basato sull’impiego di pistoni a vapore. Un meccanismo potente e affidabile, ma che non aveva mai potuto disporre di alcun feedback nei controlli, agendo sempre nella sua massima potenzialità e conducendo dunque a una significativa usura delle strutture degli aerei. Ciò senza nemmeno considerare la bassa efficienza energetica del dispositivo (ovviamente un problema secondario su un vascello nucleare) stimata attorno a un miserevole 4-6%. Proprio per questo, al momento dell’ordine da 13 miliardi di dollari fatto presso i cantieri di Newport appartenenti alla Huntington Ingalls nel 2005, fu reso subito chiaro che la nuova portaerei avrebbe dovuto ricevere la prima generazione delle nuove catapulte EMALS ad elettromagnetismo (Electromagnetic Aircraft Launch System) in grado non soltanto di generare una spinta potenzialmente maggiore, ma di farlo in modo maggiormente regolare e variabile, riducendo sensibilmente la massima minima degli aeromobili lanciabili con il sistema. Ad esso si abbina un sistema di recupero aeromobili, anch’esso elettromagnetico, dalla maggiore applicabilità e delicatezza. Un aspetto molto significativo, in quest’epoca di droni sempre più leggeri.
Ma eccoci al momento della verità: lei che accentua il suo segnale poi, guardando l’ufficiale a fianco che si abassa e punta in avanti con il fare plateale tipico dei controllori di volo militari, piega le ginocchia e socchiude gli occhi, per meglio osservare il “decollo”. Quindi il blocco di metallo con le ruote che parte, a una velocità considerevole, accelera fino al ciglio del ponte di volo e decolla, sparendo lieve verso l’orizzonte, fra le nubi candide e distanti a largo della California come un agile gabbiano, SPLASH!

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Il pugno d’aria che sconquassa gli aeroporti

Microburst Event

Questa scena piuttosto impressionante è stata registrata presso il piccolo aeroporto dell’Accademia delle Forze Aeree del Colorado ad Aprile dell’anno scorso, quando una serie di coincidenze veramente sfortunate hanno portato un certo numero di cadetti, assieme ad alcuni istruttori, a decollare nel bel mezzo di una situazione quasi indescrivibile. Immaginatevi sul sedile di comando di un aeroplanino Piper PA-18 Super Cub, dal peso a vuoto di 446 Kg, con la cognizione, vagamente acquisita durante il briefing di un volo d’addestramento, che “sussiste il potenziale di un microburst.” Sicuramente avreste già riconosciuto, in tali circostanze, il nome più temuto da chiunque abbia mai impugnato una cloche. Ma poiché da queste parti, essenzialmente, una tale atmosfera la si respira tutti i giorni, la scelta diventa tra l’accettare il rischio di essere trascinati dagli eventi, oppure non volare mai. Possibilmente, non sperimentare l’effetto del disastro sulla propria stessa pelle! Come invece capitava, così: durante la preparazione di un’escursione con alcuni alianti, con i velivoli a motore già pronti sulla pista, il comandante della base ha improvvisamente realizzato che si era ormai giunti al punto di non ritorno. Nel giro di cinque minuti, da una situazione di calma apparente, si era passati a un vento di 55 nodi (100 Km/h ca.) più che sufficiente per far staccare da terra un aeroplanino come questi anche da fermo, senza alcun pilota a bordo. E quindi, prima che fosse troppo tardi, ha dato l’ordine di decollare. Wow!
È largamente nota alle ricerche dei linguisti, come pure all’uomo della strada, la questione di alcune lingue degli Inuit e Yupik del Polo Nord che avrebbero “parecchi nomi per la neve e per il ghiaccio”. A seconda che si tratti di una formazione solida, piuttosto che vaporosa, oppure troppo morbida e davvero prossima allo scioglimento; quest’ultima particolare varietà, quella più potenzialmente perigliosa fra tutte e 99 quelle che classificherebbero secondo alcuni studiosi, un numero per altri esagerato. Ma se pure si potesse confermare l’esistenza di 50, 60 termini e tipologie diverse, non ci sarebbe proprio nulla di strano in tutto ciò: chi vive a stretto contatto con un elemento naturale, prima o poi, giunge alla conclusione che il comprendere e saper identificare i suoi diversi stati transitori può pesare fortemente sulla sua sopravvivenza. Strano invece come, nella quotidianità di chi osserva il mondo dal microscopio oggettivo della scienza, per connotare determinati stati dell’ambiente basti talvolta un valore numerico d’accompagnamento, come quelli delle scale di misurazione per i terremoti o le tempeste. Tranne quando tale approccio, nella sua estrema semplicità, non è più davvero sufficiente: permangono pur sempre, per ciascun livello distruttivo, le fondamentali distinzioni tra le cause scatenanti. Pensiamo, ad esempio, al caso spesso tragico delle tempeste americane. Un paese così vasto e spesso pianeggiante, soprattutto nella sua parte interna che si estende dalle Rocky Mountains al fiume Mississipi, che qualsiasi anomalia meteorologica non ha un semplice esito, con qualche pioggia, tuono o fulmine schioccante. Ma piuttosto s’ingigantisce silenziosamente, percorrendo tali spazi, finché palesandosi non basta a far tremare le fondamenta stesse della società civile.
Come nel caso delle lingue nordiche con gli stati solidi dell’acqua, c’è infatti una singolare varietà di espressioni della lingua inglese, anche di uso corrente, per definire e connotare simili disastri in fieri, determinati da questioni totalmente al di fuori del controllo umano, a esempio: supercell (un fronte mesociclonico) nor’easter (il vento dell’Atlantico che talvolta colpisce con furia il nord-est degli Stati) il panhandle hook (l’effetto domino di un particolare gruppo di tempeste che si danno il la a vicenda, attraverso un processo che noi definiamo ciclogenesi) e poi, naturalmente lui, il tornado (che quando si trova sopra l’acqua, viene invece detto waterspout). La temutissima colonna d’aria roteante, generatasi alla base di un cumulonembo, tanto spesso visibile all’occhio umano grazie alla condensazione delle molecole d’acqua contenute al suo interno; la quale, forse proprio in funzione di questa sua forma immediatamente riconoscibile, oltre che ai danni spropositati che risulta in grado di causare, è entrata a far parte del bagaglio delle conoscenze globalizzate, non venendo in alcun caso definito con il termine di “semplice” tempesta. Tutti riconoscono al primo sguardo quella particolare manifestazione della furia del cielo, in grado persino di deformare la struttura di sostegno dei più grandi grattacieli. Ma che dire invece di questa particolare alternativa, che condivide  il carattere improvviso e localizzato, nonché la crudeltà del tornado, eppure che ben pochi fuori dagli Stati Uniti chiamano per nome: tanto che, in effetti, persino qui da noi, dobbiamo usare l’espressione molto più generica di “raffica discendente” oppure rassegnarci all’inglesismo alquanto vago, microburst…Ed ecco, esattamente, che cos’è: il terrore degli aerei, siano questi in volo oppure come in questo caso, con le ruote appoggiate saldamente a terra. Ma in assenza di un qualsiasi hangar, dannazione!

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L’eleganza tecnica dei cacciabombardieri europei

Mirage 2000

Basta guardare indietro, seppure brevemente, alle innovazioni tecnologiche di questo scorso secolo per rendersi conto che la globalizzazione non è fenomeno soltanto culturale. Il nuovo flusso dei commerci e la possibilità di trasmettere, da un lato all’altro della Terra, qualsiasi metodo scientifico verso il progresso, ha sostanzialmente appiattito l’approccio creativo nel creare soluzioni problematiche complesse. Ciò nel senso che, quando qualcuno, in qualsivoglia continente, progetta un nuovo tipo di motore, carburante, strumentazione di bordo per automobili o natanti, nel giro di appena qualche annetto saranno milioni le persone in grado di apprezzarne i vantaggi, magari sotto un nome ed etichette differenti. Perché questo vogliono le leggi del mercato: che chi si ritrovi con le chiavi in mano di una valida invenzione, sia al più presto investito di un flusso di denaro tale da produrla in quantità pressoché illimitate, o in alternativa, ne ceda il controllo a qualcun altro di più svelto, nonché abile a gestirne i presupposti. Esiste, tuttavia, una significativa eccezione a tale regola, che si estende nell’intero areale dello scibile che risponde al nome spaventevole e glorioso della guerra. Fin dallo spegnersi dei fuochi apocalittici della seconda mondiale, ma in un certo senso pure prima, è esistita questa consapevolezza tra i potenti che il disporre di armi potenzialmente devastanti non era abbastanza per sentirsi al sicuro; occorreva, parimenti, che il proprio nemico non potesse dire altrettanto. Questo perché nei cieli e sui campi di battaglia dell’ultimo secolo, sostanzialmente, si è raggiunto un grado di possibile devastazione tale che nemmeno il più prudente ed abile dei generali, coadiuvato da soldati all’avanguardia, potrebbe mai riuscire a risparmiare gravi danni al territorio, le sue risorse, i suoi abitanti. Così un conto è il tipico contratto di lend-lease, per cui i paesi alleati si forniscono a vicenda gli aeromobili, ma per ciascun corpo d’armata dedito alla protezione dei cieli il velivolo migliore sarà sempre, se presente, quello progettato in situ, sulle specifiche esigenze e con il massimo contenuto tecnologico a disposizione. Gli aerei bellici, come del resto le più famose armi da fuoco o carri armati, non soltanto raggiungono l’apice del progresso grazie ad un sforzo continuo di menti eccellenti, ma dovranno farlo, alla stessa maniera di bruchi che percorrano la cima di un arbusto, lungo quelle numerose diramazioni che sono i paesi contrapposti. La scena geopolitica è in continuo mutamento: al punto che talvolta può bastare poco, come la scintilla di un accordo commerciale andato per il verso sbagliato, o l’offesa percepita da una particolare decisione ai vertici di un complesso accordo diplomatico, perché si scaldino i motori a ugello e venga l’ora di partire, pattugliando attentamente i territori di confine. E se dall’altra parte, anche “Loro” saranno in grado di farlo, per lo meno “Noi” sapremo questo: i nostri aerei sono migliori. Che siano russi, americani o frutto delle occasionali quanto fruttuose collaborazioni tra le principali nazioni del vecchio continente, ciascun velivolo ha dei punti forti che riescono a distinguerlo dai suoi rivali. L’apporto finale del resto, ciliegina sullo stato dell’arte di cui parlavamo poco sopra,  sarà sempre frutto del coraggio e delle doti del pilota.
Mani e menti umane come queste alla guida di ottimi caccia Mirage 2000, idealmente, tanto perfettamente e poeticamente rappresentate in una sequenza lunga 3 minuti e mezzo, creata a partire da diversi momenti del film francese del 2005, Les Chevaliers du ciel (Gérard Pirès) ispirato alle avventure fumettistiche di Tanguy e Laverdure, eroi che spopolarono tra Belgio e Francia nel corso degli interi anni ’60. Il fatto che l’intera appaia tanto realistica, persino in quest’epoca di grafica computerizzata estremamente pervasiva, non dovrebbe in effetti sorprendere nessuno, visto come alcune elle scene del film siano state realizzate grazie all’impiego di un serbatoio da ala per aerei a reazione appositamente modificato, impreziosito da un’ampia serie di telecamere sull’intero corpo della sua cilindrica esteriorità. Fino al momento dell’incredibile battaglia su Parigi, girata con il permesso dell’amministrazione cittadina durante le annuali celebrazioni per la festa nazionale della presa della Bastiglia, con una notevole quanto rara corrispondenza tra il momento effettivo della messa su pellicola e il teorico teatro dello scontro immaginifico nei cieli; gli aerei che sfrecciano in formazione serrata, vibrano delicatamente sopra l’orizzonte. Le figure geometriche da loro disegnate sul confine delle nubi: il susseguirsi di una simile sequela di momenti potrebbe costituire, così messa a parte dalla trama e dai dialoghi del film (che possono piacere o meno) la migliore rappresentazione di quello che l’uomo in volo è riuscito a rendere possibile nei nostri giorni, in cui neanche più esiste una connessione fisica tra gli alettoni e la cloche di comando. Tutto è automatico, robotizzato, oltre ciò che possa dirsi raggiungibile nel corso di una vita sola. La fisica applicata, sopra l’ingegneria, sopra il realistico bisogno di proteggere un’identità nazionale. E in cima alla piramide, sopra un’antenna sottile quanto la punta di uno spillo, lui che lancia il suo segnale, colui che affronta “Due ore di noia…” Seguite dai “Quindici secondi di assoluto terrore!” Il moderno pilota da caccia o attacco al suolo.

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