Il più grande cuore mai studiato da scienziati umani

Big Blue Live

La scena si apre in modo graduale. Lei che tira fuori, nell’ordine, un barattolino con il principale organo circolatorio del topo, poi quello di un tacchino (decisamente più ingombrante di come ci si aspetterebbe) e a seguire di una mucca, delle dimensioni approssimative di un grosso melone. Infine, nella riproposizione della scena classica del film degli anni ’80 Mr. Crocodile Dundee, esclama: “No, [basta scherzare] QUESTO è un vero cuore.” Silenzio in sala. Questa non è una semplice pompa da giardino. Un monumento dal peso di 180 Kg, di 1,50×1,20×1,20 metri, talmente grande che può battere soltanto 6 volte al minuto. Per sparare a gran velocità, lungo una creatura che da viva poteva facilmente misurare 30 metri di lunghezza, una quantità stimata di 220 litri di sangue per ciascuna contrazione, contrastando tra l’altro le significative pressioni delle profondità abissali. Perché si, naturalmente, stiamo parlando di un essere che vive in acqua, altrimenti di che scheletro avrebbe mai avuto necessità, e di quali muscoli, per sostenere la sua massa senza eguali? E sarà a questo punto altrettanto ovvio, per un semplice processo di esclusione, che si tratta di lei, la magnifica, titanica ed azzurra (si fa per dire) balenottera, che da sempre si moltiplica nei principali grandi oceani della Terra. Ma sempre meno frequentemente, incontrando le difficoltà che vengono dall’essere un gigante prevalentemente solitario, largamente inoffensivo, la cui stessa essenza è fonte di prodotti e pratiche convenzionali amate da coloro che le praticano, ancor più che la mera e semplice necessità. Assieme ai miti e leggende, le presunte convenzioni che gelosamente custodiamo, in merito ai nostri cugini più distanti, che vorremmo totalmente eccezionali, ancor più di quanto non lo sono già.
Che la storia della scienza venga fatta sotto l’occhio delle telecamere è già piuttosto raro, ma ancor maggiormente è che avvenga durante le riprese di un programma televisivo, come fieramente enunciato in questo spezzone di Big Blue Live, la nuova serie di documentari oceanografici della possente BBC inglese che andrà in onda dalla fine della presente settimana. Qui compare infatti la biologa marina Jacqueline Miller del Royal Ontario Museum di Toronto, con quello che potrebbe facilmente definirsi il Sacro Graal del suo mestiere: un intero esemplare, perfettamente conservato nella formaldeide, di ciò mantiene in vita l’impressionante Balaenoptera musculus, singolo animale più massivo del pianeta. Introvabile perché, come è largamente noto, la più grande percentuale di ciò che sappiamo su queste creature l’abbiamo appresa grazie all’opera di caccia e successivo sezionamento portata avanti dalle navi baleniere, che si stima ne abbiano uccise, a partire dai primi del 900, addirittura centinaia di migliaia. Prima che si scoprisse come, tutto considerato, non fosse poi eccessivamente pratico far fuori e poi tagliare a pezzi un mammifero lungo quanto un palazzo di dieci piani, in grado di nuotare, se minacciato, a velocità di fino a 50 Km/h per dei tratti alquanto lunghi e indipendentemente dalle onde in superficie. Il che, incidentalmente, fu la sfortuna dei più lenti capodogli, ma questa è tutta un’altra storia. Ciò che ci interessa, invece, è il modo in cui non si ebbero misurazioni affidabili sul peso dell’unico vero mostro marino, finché un’intera truppa di scienziati, tecnici e ingegneri non si diedero appuntamento presso qualche spiaggia, a seguito del disastroso approdo di un cetaceo che lì aveva scelto di morire tutto intero.
Qualcosa di non poi così dissimile da quanto capitato in questo caso, visto come l’occasione di mostrare l’organo derivi, nei fatti, da una catastrofe avvenuta l’anno scorso, presso le coste sud-orientali del Canada: 9 di questi titanici animali, una percentuale relativamente alta degli ormai complessivi 2.000 rimasti, che per cause ignote si ritrovano bloccati sotto i ghiacci del golfo di St. Lawrence, incapaci di raggiungere la superficie e respirare. Così, parecchi mesi dopo la solida calotta inizia a sciogliersi, e mentre le bestie ormai defunte vanno alla deriva, un team del ROM, guidato dalla qui presente portavoce, assieme ad alcuni tecnici della loro azienda fornitrice Research Casting International, operativa nel campo della preparazione di campioni museali, ottengono il permesso di recuperare due delle carcasse, giunte infine presso la costa della remota isola di Terranova. Un’impresa straordinariamente valida per il museo, visto come gli scheletri ed altri “pezzi” completi di balenottera, fra tutti gli spazi espositivi del mondo, siano una delle attrazioni più amate dal pubblico pagante. Nonché una missione difficile, macabra e maleodorante. Quale miglior modo, dunque, di dare inizio ad una serie per la Tv…

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I tre problemi dell’oca canadese

Canada goose

Punto primo: IL VIAGGIO. Il suono di piedi palmati sulla pavimentazione, un delicato starnazzare. L’ombra che compare ai lati del campo visivo. Chi disturba il pomeriggio del guerriero? Essa è giunta, sia l’essa o in pentola, pregunta. Perché viviamo in un mondo dove, nonostante le apparenze e i presupposti d’industrializzazione, ancora ci può capitar l’incontro con creature fuori dal controllo degli umani. Gli animali, selvatici persino. Certamente sarà capitato di recente a voi lettori, guardando casualmente fuori la finestra, di trovarvi quello spazio all’improvviso non più vuoto, ma occupato da…Qualcosa. Qualcuno/a, il passero, piccione, addirittura un grosso corvide con l’occhio nero. Per non parlare poi dei ragni, le zanzare, i curculionidi nel tuo giardino. Ma tutto questo non è nulla, neanche un picco d’encefalogramma, al confronto del colloquio capitato al ranger Andre Bachman, mentre guidava il suo pickup lungo una strada di campagna nell’Alberta, tra Edmonton e il lago Shining Bank: quasi cinque chili di volatile col collo lungo, la livrea graziosamente bicolore, il becco che si apre per mostrare un dentro rosa e carico d’aspettativa. Forse voleva da mangiare. Forse. Oppure, molto più semplicemente, si era persa l’oca canadese.
La Branta canadensis è una creatura dal notevole successo ecologico, che nella maggior parte dei casi non ha certo alcun bisogno dell’aiuto di noialtri. Normalmente vista, tra settembre e novembre, mentre disegna grandi V nei cieli, assieme a un certo numero di sue compagne, divorando miglia e miglia verso l’obiettivo della migrazione e poi di nuovo in primavera, di ritorno verso il nido della nascita distante. Non c’è quasi limite, ai percorsi che può compiere quest’oca, in grado di spaziare fino al Nord Europa, transitando per le terre artiche che uniscono i remoti continenti. E questo senza nemmeno prendere in considerazione come proprio noi, colpiti dall’ottimo potenziale in qualità di bestia d’allevamento o bersaglio per la caccia ai pennuti, abbiamo fatto in modo d’introdurla in Bretagna, Sud America e addirittura la remota Nuova Zelanda, tutti luoghi in cui l’animale si è moltiplicato a dismisura. Riunite in uno stormo, all’altezza media di 1 Km (ma possono raggiungere occasionalmente la cifra spropositata di 9.000 metri) le oche volano, dandosi il cambio per non faticare troppo, visto come l’apripista della formazione, il “vertice” per così dire, sia il soggetto dello sforzo maggiormente significativo. Nel frattempo, un particolare processo biologico causa l’ingrossamento della loro tiroide, con un conseguente aumento degli ormoni che le aiutano a superare la fatica, velocizzano il metabolismo e riscaldano quello che è sotto il variegato manto delle loro piume. Non puoi davvero fermare, un’oca in volo. Ma il problema è che quando si ferma, per un motivo qualsiasi, restando sfortunatamente indietro, difficilmente sarà in grado di raggiungere le sue compagne.
Così questo esemplare, dalle dimensioni probabilmente una femmina, giaceva a lato della strada, spaesato e solitario, in dubbio sul suo passo successivo. Per gli animali che scelgono la vita del gregario, perdere la leadership, e con essa la bussola del richiamo, può rivelarsi estremamente grave. Ed è qui, che può entrare in gioco la preziosa compassione. Fermare il veicolo, scendere dall’auto, scambiarci due parole. Forse fargli una carezza. Magari dargli da mangiare (no, non è il nostro caso). E soprattutto, offrire al volatile una nuova forma da seguire, ma stavolta con quattro pneumatici, la targa e il parabrezza. Che scena! Mr. Bachman che prosegue lungo il suo percorso, eppure questa volta, non più solo. L’oca, prima incespicando sull’asfalto, poi alzandosi letteralmente in volo, si piazza bene al centro dello specchietto retrovisore, inscenando la perfetta equivalenza a bassa quota del suo naturale volo in formazione. Così per l’uomo non è affatto difficile, né sgradito, comprendere il passo successivo dell’operazione. Con piglio certo e mano salda sul volante, si dirige verso il più vicino specchio d’acqua, dove la sua nuova amica possa soggiornare e riposarsi, prima di decidere che fare.

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Due storie adrenaliniche di salvataggi nella neve

Avalanche danger

Non importa quanto ci si senta preparati, le ore e i giorni di profondo allenamento, la conoscenza approfondita delle condizioni circostanti; ci sono luoghi in cui il pericolo è lo stato naturale, ed è soltanto la diffusa convenzione assieme all’uso di particolari norme che può giungere a fornire, a torto o a ragione, un senso di parziale sicurezza. È la tendenza di un elastico a riprendere la forma, l’acqua nel bicchiere che straripa, la tempesta dell’Oceano che inghiottisce. Quando meno te lo aspetti, o anche se per caso eri già pronto, il mondo cambia e si trasforma in una morsa cruda e disumana – ovvero, senza posto per gli umani. Mare, montagna: due lati della stessa medaglia. E la discesa verso l’inferno, come la traversata di un acquoso purgatorio, è pur sempre lastricata di ottime intenzioni, sotto un manto ameno e biancastro, oppure trasparente, ma pur sempre asciutto di fluidifica pietà.
30 gennaio scorso: quattro uomini sorridono entusiasti della loro bella idea. Sulle Alpi Svizzere, lontani dalle piste più battute, Andrew e Dan, australiani, con Leonard che vanta natali proprio in quei gelidi luoghi e Mort, James Mort, il quale cognome mai assumeva un doppio senso più appropriato alle future prospettive di sopravvivenza. Era il momento sul finire di una splendida vacanza, quando tutto appare ancor più accattivante, e si rimpiangono, assieme ai giorni ormai trascorsi, le esperienze che stavolta non ci è capitato di sperimentare. La gioia e il senso di assoluta libertà, nello specifico, di avventurarsi lungo una discesa morbida e perfetta, con la consistenza della spuma di champagne. Quella superficie piatta ed uniforme, pronta a ricevere due solchi paralleli per persona, che possa accompagnare ciascuna avventurosa piega con la nube di gustose particelle, l’onda del passaggio che raggiunge infine, con gran soddisfazione, chi si fermi per riprender fiato. Una sensazione, Unica. Uno di quei rischi calcolati che si corrono talvolta, dimentichi delle pericolose implicazioni, perché la vita è fatta pure di momenti rari, non soltanto grigia quotidinità. L’intera sequenza, ripresa con la classica GoPro da caschetto dello sciatore terzo della fila *Daniel, inizia nel suo attimo più transitorio, nel momento in cui i quattro si chiamano l’un l’altro, e ridono, gioiosamente scivolano verso il basso. Quando ecco che d’un tratto, l’atmosfera cambia. Non si vede bene da principio: l’accidentale cameraman dell’ora della verità si ferma allarmato, mentre un’alta quantità di bianco gli si muove ai lati, come se…La montagna stessa, dopo tutto, si fosse risvegliata dal suo sonno mattutino. Lui si volta e d’improvviso scopre, con un moto d’orrore, che l’amico non c’è più. Letteralmente svanito sotto il suolo: James Mort.
Ora, non è facile immaginarsi al posto del malcapitato subito sepolto. Cosa fare, in simili momenti? Trattenere il fiato, girarsi da una parte, tentare di fare il macigno. Assumere una posa che possa massimizzare il proprio ingombro, per garantirsi poi un maggiore spazio di manovra… Tutti approcci potenzialmente utili, ma la maggior parte delle volte inefficaci. Da una valagna non si scampa senza aiuto. Così l’uomo ha avuto forse la migliore idea possibile puntando il braccio verso il cielo, con la racchetta fortunata a far da boa in quel mare bianco, boia. Con gli altri tre, sull’immediato, che scorgono il segnale e accorrono sulla non-scena…

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La battaglia delle tesserine traballanti

Domino Rally

Schiere di soldati, disposti l’uno accanto all’altro nell’attesa di scatenare il proverbiale inferno. È una strana formazione di battaglia: il primo e l’ultimo della fila sostanzialmente sono uguali. Fra di loro innumerevoli messaggeri, ciascuno privo di mobilità, eppur perfettamente in grado di raggiungere i suoi due vicini, avanti e dietro. Per trasmettere…. Vestito nell’uniforme classica del suo mestiere, l’enorme generale osserva dalla cima dell’imponderabile montagna. Fra le sue dita, almeno tre unità quadrangolari: rossa, gialla e blu. Sono gli svincoli, i grilletti della situazione. Le tre scintille che conducono allo scoppio di un conflitto di risoluzione. Vivide e vitali, per lo meno nella mente degli spettatori. Il primo di questi minuti uomini lui lo mette davanti ad una curva, dove termina la fila indiana degli arcieri. Il secondo in mezzo al mare dei lancieri, fanteria schierata per fermar la carica dei barbari invasori. Il terzo è un portafortuna; sia dunque posto nella tasca come un pegno del comando, prima del momento e di quel movimento. L’ora insomma, della verità.
Benedicamus Domino, col suo mantello ed il tricorno nero, vagamente ecclesiastico e inquietante al tempo stesso, Sssassino potenziale degli incauti conviviali. Ovvero la bauta di Venezia, maschera carnevalesca che ha lo scopo dichiarato di annientare temporaneamente ogni disuguaglianza tra le classi, convenzionalmente identificata con il termine di origine latina, la cui applicazione specifica fu pensata dai francesi. Strano, come certe prassi non conoscano confini culturali…. Cupo abbigliamento che darebbe, secondo la leggenda, il nome pure a un gioco. Il primo e l’ultimo dei passatempi, tra quelli che la potente Serenissima aveva importato nell’Europa del ‘700, assieme a tante spezie e le altre merci provenienti dalla Cina. Tutti lo conoscono eppur quasi nessuno, in questi tempi di elettronica preponderanza, ci ha davvero poi giocato. Gli ossi grossi usati nel Gwat Pai (骨牌 – termine dei cantonesi) l’antica via di mezzo tra divinazione ed intrattenimento, in cui due giocatori, a turno, disponevano le proprie truppe su di un tavolo, sperando che la pista s’interrompesse prima del finire della propria cosiddetta mano, radunata a margine dell’ardua arena di disfida…E chi, davvero, preferirebbe fare questo, che coltivare un Pokémon, innaffiare di proiettili i nemici online? Guarda: Bianco e nero come il mascherone da prelato, coi puntini che riprendono le facce di un comune dado. Ma il tuo tiro, vecchio gioco, è stato molto sfortunato. È un destino di progressiva trasformazione in passatempo solitario che il gioco in questione condivide con il mahjong,  l’altro tradizionale impiego per l’avorio, tanto gioiosamente intagliato nelle forme e nei colori di altrettante tesserine. Usate un tempo in quel Gin Rummy dell’Estremo Oriente, uno scontro in cui si scarta e poi si pesca, si pesca e così via da un gran quadrato multi-strato messo in centro. Finché, ridottasi i possibili partecipanti appassionati d’Occidente, non si è giunti al duro compromesso: niente più combattimenti. Ormai si usano quei 144 pezzi, possibilmente virtualizzati, soprattutto per una sorta di memory a carte scoperte, in cui il colpo d’occhio conta per trovare qualche coppia e poi gettarla via nel mucchio, come nulla fosse. Mentre il domino, dal canto suo… C’è pur sempre un limite a quello che puoi fare, dal punto di vista computazionale, con 28 o 32 tessere diverse tra di loro, non importa quante volte ripetute. A meno di metterle spietatamente in fila…

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