Lo sciatore alla conquista del pianeta senza neve

Una volta raggiunta la parete quasi verticale che separa la città di Uchisar, in Cappadocia, dalle oscure sale del suo antico castello, sembrava che niente potesse più causarvi un senso repentino di stupore. Lassù, con sguardo che si estende oltre quella terra che era appartenuta al patriarca biblico Meshech, molto prima d’intrattenere relazioni commerciali con i greci e in seguito, venire trasformata in satrapia persiana. Tra pietre rese sdrucciolevoli dal tempo, e trasformate in elementi conici protesi verso il cielo, i cui spazi cavi all’interno, interconnessi tra di loro da gallerie ormai crollate, vivevano da tempo immemore molte famiglie di uccelli adattati alla vita urbana. Ma è allora che sentite, all’improvviso, un sordo e reiterato suono: “Deve trattarsi di un piccione molto grande” sussurrate tra voi e voi, mentre il tonfo si trasforma in un fruscio, quindi una sorta di sibilo insistente. Ed infine quella nota che risuona seccamente, di un qualcosa che si stacca da terra, librandosi nell’aria tersa del mattino. Ed è allora che vi voltate, per guardare la singola cosa più incredibile del vostro intero viaggio in Turchia: è un uomo in abiti invernali, nonostante la temperatura di oltre 25 gradi, il cappello nero, il giaccone bianco, sollevato ad almeno due metri da terra, con ai piedi un paio di sci dall’aspetto più che mai resistente. Non fate in tempo ad interrogarvi sul motivo della sua esistenza, prima che vi superi ad un ritmo estremamente sostenuto, per toccare nuovamente terra sul pendio sabbioso, diretto con certezza verso il centro cittadino. Un uomo anziano in fondo alla valle, col suo mulo contrassegnato dalla dicitura “libreria mobile” si volta nella vostra direzione, indicando all’animale un tale fulmine fuori controllo. Se non fosse troppo distante per capirlo, sareste pronti a giurare che stia sorridendo.
È l’esecuzione di un maestro ormai acclarato, l’ensemble finale di un concerto che ormai dura da (almeno) cinque anni. Il capolavoro di un uomo, ormai più che trentenne, che ha diviso la sua carriera tra le piste ufficiali dei tornei e quelle digitalizzate del mondo dell’intrattenimento, diventando famoso per i suoi film sul tema degli sport estremi realizzati con la massima attenzione ai più minuziosi dei particolari. Stiamo parlando, ovviamente, di Candide Thovex, l’atleta francese originario del piccolo paese di La Clusaz, dal quale era solito aprire la porta di casa, per lanciarsi direttamente sui pendii coperti di neve col suo fidato paio di sci. Colui che, in questi particolari giorni, si è preparato a rilasciare assieme al suo sponsor Audi un video che prende d’assalto i confini stessi della fantasia. Il titolo: Quattro 2, con riferimento al nome della storica serie delle auto con trazione integrale del marchio tedesco, seguito dal numerale dell’episodio qui rappresentato, in una bilogia che ebbe la sua prima espressione nel 2015, quando il protagonista si dimostrò in grado di percorrere con sci ai piedi un erboso pendio estivo di una non meglio definita località alpina. È fin da subito chiaro, tuttavia, che qui l’artista ha superato se stesso, in un vero tour de force visuale che lo porta, e noi spettatori assieme a lui con la fantasia, in tre distinti continenti, per esplorare fin dove possa spingersi questa sua affinità con l’esplorare i limiti più estremi dello sci. Vediamo di identificare quindi, benché una lista di locations ufficiale non sia stata effettivamente rilasciata (forse non tutti i permessi erano in regola?) alcuni dei luoghi più inconfondibili visitati in questo strabiliante tour…

Leggi tutto

Assalto motociclistico al vecchio gigante di ferro

L’atmosfera, per i non iniziati, potrebbe ricordare quella di un festival musicale, stranamente organizzato tra i monti della Stiria, in mezzo alle Alpi austriache di Eisenerz. Lo scenario, volendo essere più specifici, è lo svettante (1466 metri) monte di Erzberg, riconoscibile per la grande apertura che si trova in corrispondenza della sua sommità. Che non è, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la caldera di un vulcano, bensì qualcosa di molto più utile e creato rigorosamente dalla mano dell’uomo: un’enorme miniera a cielo aperto. E può sembrare effettivamente strano che per quattro giorni ogni anno, il più grande ed antico deposito di carbonato ferroso al mondo possa cessare del tutto le sue operazioni, affinché oltre 30.000 spettatori, attorno ai 2.000 partecipanti propriamente detti ed un altro migliaio tra ospiti speciali e giornalisti, possano ritrovarsi in prossimità dei caratteristici gradoni faticosamente scavati nella calcite, tra camion giganteschi e il resto dell’equipaggiamento da estrazione mineraria, affinché risuoni tra le valli antistanti l’epico suono del motocross. Eppure così importante, è diventata una simile ricorrenza, per l’economia della regione. Nulla da eccepire su tutto questo: stiamo in effetti parlando di niente meno che l’Erzberg Rodeo, uno delle venues più prestigiose per lo sport un po’ folle dell’hard enduro, concepito per mettere duramente alla prova concorrenti, veicoli a due ruote ed ogni singolo spettatore dotato di un benché minimo senso d’empatia. Il cui momento culmine, fin dall’anno della sua fondazione nel 1995 ad opera di Andreas Werth e Karl Katoch, è sempre stata la gara della Red Bull Hare Scramble, un’incredibile carica dei primi 500 motociclisti classificati nella prima giornata, che partono a scaglioni distanziati tra loro di pochi secondi appena per affrontare tutti assieme uno dei percorsi più difficili mai utilizzati in una competizione motoristica ufficiale. Talmente ardua che, la maggior parte degli anni, la classifica finale non arriva neppure ai 10 nomi, semplicemente perché non ne sono arrivati così tanti alla fine.
Immaginare cosa significa vivere un evento talmente estremo non sarebbe affatto facile, se non fosse per l’ampia documentazione disponibile online, come questo fenomenale video in prima persona di Graham Jarvis, il motociclista inglese di Husqvarna Motorcycles famoso soprattutto per i suoi successi nella specialità dei trials, finché nel 2016, sorprendendo praticamente tutti, non è riuscito a vincere questa leggendaria battaglia del fango e dei percorsi scoscesi. Mentre qui siamo all’estate del 2017, nell’ultima edizione dell’evento, in cui gli è comunque riuscito di arrivare secondo, appena 3 minuti e 12 secondi dopo il tempo dello spagnolo Alfredo Gòmez di KTM, che gli ha soffiato il titolo almeno fino al prossimo anno. Il tempo complessivo concesso ai partecipanti per raggiungere l’arco del traguardo viene comunque fissato sulle 4 ore, per dare almeno una chance a tutti i più preparati tra loro di condividere questa emozione più che mai rara, una volta attraversate le sezioni più difficili della gara sulle pendici della montagna, con nomi accattivanti come Machine, Elevator, il Pranzo di Carl, Dynamite e la temutissima Downtown, aggiunta dall’organizzatore Katoch proprio nella scorsa edizione, affinché non si potesse dire che si era ammorbidito con il trascorrere degli anni. Il fatto stesso che si tratti di un percorso a tappe, piuttosto che un ampio circuito, rende la Redbull Hare Scramble una gara atipica nella sua categoria. Tale denominazione in lingua inglese in effetti, significante “la fuga della lepre” si riferisce tradizionalmente a delle gare su circuiti chiusi della lunghezza di fino a 60-70 Km, dei quali possono essere effettuati più giri. Proiprio questo dovrebbe differenziare la qui presente specialità da quell’altra creazione negli Stati Uniti, la Baja o rally raid della Baja California, per la quale è prevista invece una tratta di oltre 1.000 Km. Sarà evidente, a questo punto, che la gara del monte Erberg è sotto molti punti di vista la sua propria cosa, completamente diversa da ogni altra, benché sia stato scelto un nome evocativo se non altro dell’atmosfera e l’impegno richiesto ai suoi eccezionali concorrenti. L’edizione del 2017, poi, è stata particolarmente significativa almeno per un ulteriore aspetto: il suo aver aperto la strada, indirettamente, a una nuova stagione del motociclismo off-road

Leggi tutto

La macchina pensata per accoltellare il prato

Così il cemento, come l’asfalto, la plastica ed il vetro: sostanze solide che possono costituire SUPERFICI. Ciascuna delle quali è utile a uno scopo, piuttosto che ad un altro, suscitando inevitabilmente un vago sentimento: lieta soddisfazione. Un senso silenzioso di gratitudine, per la loro semplice esistenza. Perché…Sono artificiali? “L’ho creato, mi ubbidisce, lo rispetto. Reciprocità.” La natura non funziona in questo modo. Poiché pietra, suolo, addirittura una torbiera, contengono in se stessi il mistico principio della vita. La cosiddetta singolarità. Si può amare l’erba, mangiandola pensando di essere una capra. Non puoi rimanere indifferente. La si può anche, odiare. Ad esempio, se calpesti questi fili con un fine ben preciso: mettere la palla in buca, come gesto culmine di una partita a golf. Già, stiamo parlando di quel tipo di situazione, agonistico-procedurale. Il fairway, il green. Eagle, birdie, bogey. Senza passare per il rough. Mi raccomando (sarebbe un grave errore). Per non evocare quel grido silenzioso dal profondo dell’anima, che porta i praticanti di altri sport ad espletare con trasporto, ma che nell’ambiente, fine ed elegante, di un passatempo signorile degno di amministratori e presidenti, costringe a incamerare tutto dentro fino a che… Un giorno, per un apparente errore, si colpisce un po’ più un basso di quella pallina. Sradicando quella zolla con radici, erba e tutto il resto. Una vera e propria decapitazione. “Per Zeus, che scena orribilmente truculenta.” Fortuna che, una volta o più l’anno, il proprietario stanco di dover cercare i pezzi per rimettere in sesto l’autostrada per palline, affronta un simile problema in modo assai diretto. Mettendo in scena il più crudele, ed impensabile dei riti.
O almeno, così sembra. Vedere un aeratore per i prati all’opera, ricorda una scena di un film horror, in cui la vittima dell’assassino è stata assicurata al pavimento, prima di essere scacciata da questa valle di lacrime nel modo più lento truce immaginabile. I cinesi la chiamavano Lingchi, la tortura dei mille tagli, o in questo caso buchi. Realizzati grazie all’uso di una serie di sistemi, tra cui il più popolare è un semplice rimorchio da trattore, in cui la rotazione delle ruote mette in moto un meccanismo sussultorio, replicato in una moltitudine d’artigli, simili alle mani di un robot. Mentre il veicolo procede, quindi, il dispositivo infila tali punte dentro al prato, ricavando un buco dopo l’altro in serie pressoché ordinata, parallelamente l’uno all’altro. Per l’amante disinformato delle cose vegetali, è una scena niente meno che agghiacciante. Ecco a voi il perfetto prato, uniforme e splendido neanche fosse una trapunta, rovinato in modo sistematico, trafitto come San Sebastiano da infinite staffilate. Se fosse una creatura deambulante, il suo sangue ricadrebbe sulle mani del giardiniere. Se stessimo parlando del pianeta natio della principessa, pardon ammiraglio Leia, avremmo sentito “Milioni di voci che gridano terrorizzate e ad un tratto tacciono per sempre.” Vuole il caso tuttavia, che se gli ingegneri li progettano, le aziende specialistiche li  acquistano, e i gestori di country club li noleggiano, simili dispositivi abbiano uno scopo ben preciso e per così dire, fecondo.
Non è certo un mistero: l’erba dei campi da golf, in situazioni di gestioni ideali, ha sempre un aspetto che sarebbe riduttivo definire eccelso. Quel particolare colore, quella compattezza, la precisione dei contorni e dei confini definiti. Il che a pensarci non è poi così scontato, visto come ci siano sezioni, in modo particolare in prossimità della del punto di partenza e della buca, che vengono calpestate da molte dozzine di persone ogni giorno. E a scanso di equivoci, vi assicuro che i semi piantati all’origine della questione non erano certo appartenenti a una speciale varietà immortale. Nossignore, qui il segreto è un altro. Come nel caso di particolari tipi di foresta, che l’evoluzione ha preparato a ritornare uguale a prima dopo gli occasionali e devastanti incendi, l’accoltellamento sistematico del prato apre la strada a nuove geometrie di potenza. Quello che non ti uccide, può soltanto renderti più forte…

Leggi tutto

Gara in Slovacchia per lo scava-tombe più veloce dell’Est Europa

La cosa più strana in assoluto, tra Cielo e Terra, è che si parli di un concetto che risponde all’appellativo di “mondo dello spettacolo” quando è totalmente palese, per chi ha tempo di farci che caso, che non c’è nulla, a questo mondo, che non costituisca spettacolo di qualche tipo. La gioia della nascita, la consapevolezza del matrimonio. La cupa realizzazione del funerale. Chi siamo, che cosa vogliamo, che cosa importa? Dove andiamo lo sappiamo fin troppo bene. Ma questo non significa che il nostro destino sia fare a meno delle piccole soddisfazioni della vita. E la morte. Come una coppa d’oro (o dorata) su chi è più bravo a mandare altrove, coloro che ci hanno lasciato. Il che significa nel mondo moderno, sempre più spesso, rispondere alle esigenze di un’orientalistica cremazione….Eppure non sempre. C’è ancora chi adesso, come da tempo immemore, brama discendere nella profondità della tomba, affinché il suo decesso vada a corroborare un luogo dove i parenti in lacrime (si presume) portino fiori e copiose lacrime del ricordo. Almeno per un’altra mezza generazione o due. Il che necessita, intrinsecamente, di un certo dispendio d’energia. Pura analisi meccanica della questione: se sei vissuto in superficie, ma vuoi trasferire le tue spoglie da trapassato al di sotto di tale membrana fisicamente impenetrabile, sarà necessario s-postare, al minimo, una quantità di terra equivalente alla tua massa corporea. Aggiungiamo all’equazione lo spazio occupato dalla magnifica cassa in mogano, oltre al margine necessario affinché la prima pioggia intensa, a sorpresa, porti quei resti all’affioramento, e sarà facile rendersi conto di come il mestiere del becchino/sagrestano/custode di cimitero preveda, talvolta, uno sforzo fisico non del tutto indifferente. A meno di voler impiegare una ruspa ma si sa, simili macchine costano, ingombrano, fanno rumore. Non propriamente qualità ricercate in un luogo di contemplazione tra gli alti cipressi che puntano verso l’infinito. Ciò che occorre fare dunque, è pur sempre quello: rimboccarsi le maniche, stringere i denti (se sono presenti) e scavare. A una profondità di due metri almeno, per una larghezza di 70 cm e un’altezza ovviamente variabile, a seconda di chi sta lasciando quest’esistenza terrena. Sapete quanto tempo occorre, normalmente, per portare a termine una simile impresa? Fino a sei ore, benché il cimitero di Green-Wood a Brooklyn, notoriamente, richieda ai suoi impiegati di dimostrarsi capaci di farcela in un massimo di quattro. Ma adesso sentite qual’è il record del mondo conclamato su Internet, stabilito con grande fanfara mediatica lo scorso anno di questi tempi? Appena 54 minuti. Una tale differenza, nata dall’allenamento costante e una certe verve di competizione, può lasciar intendere solamente un fattore: qualcuno, da qualche parte, ne ha fatto uno sport.
E quel qualcuno è Ladislav Striz, proprietario di un’azienda di pompe funebri della città industriale di Trenčín, sita non troppo distante dal confine della Slovacchia con la Repubblica Ceca. Un luogo generalmente privo di grandi eventi, a giudicare dalla sua assenza dalle cronache internazionali, tranne che per un singolo evento biennale: lo Slovak Funeral, importante convegno per l’esposizione dei maggiori fornitori di materiali utili a rendere in qualche modo memorabile (si spera persino “un successo”) l’epoca del proprio passaggio ulteriore nell’aldilà. Occasione nella quale, l’anno scorso, il veterano del settore ha avuto un’idea: perché non richiamare qui tutti i migliori, o sedicenti tali, scavatori di fosse, per farli competere al fine di determinare, finalmente, chi fosse eternamente il migliore… Eternamente, s’intende, fino all’occasione di rimettersi in gioco l’anno successivo. Ed è così che è nata la Competizione Internazionale Scavamento Fosse (CISF?) importante olimpiade giunta quest’anno alla seconda edizione, durante la quale per qualche attimo viene accantonata la costante serietà e reverenza verso una questione gravosa come la morte, per mettersi allegramente in gioco tra squilli di trombe (un po’ anemiche) da stadio ed almeno un tocco di surrealismo un po’ kitsch: Christian, il figlio del capo, vestito nella sua migliore approssimazione del Tristo Mietitore, teschio e cassa toracica esposti per meglio rendere l’idea, accompagnato da due conturbanti girls in tenuta da vampire. Che poi cosa c’entri, in effetti, non è chiarissimo: se succhi il sangue per non morire mai, e metti la cassa nel tuo soggiorno, perché mai dovresti presenziare una gara di addetti allo scavo di tombe? I misteri continuano ad accumularsi attorno alla singolare kermesse.

Leggi tutto