La trasformazione robo-iconica di un androide nell’incubo notturno della donna ragno

All’incirca 7 milioni di anni fa, nella fascia di territorio africana nota come piana del Sahel, alcuni esemplari di ominide iniziarono a mettere in pratica una strana metodologia di deambulazione. Eretti sulle gambe posteriori, alti e instabili, essi guadagnarono immediatamente alcuni importanti vantaggi, tra cui la predisposizione ad osservare in lontananza, scorgendo in anticipo il pericolo di tigri dai denti a sciabola ed immensi orsi primitivi. Per non parlare della liberazione degli arti anteriori dal bisogno di sostenere costantemente il peso della testa, dedicandoli primariamente alla sistematica manipolazione di oggetti e strumenti. Approccio modale non costante, almeno all’inizio, la postura eretta implicò profonde modificazioni muscolo-scheletriche, diventando totalmente obbligatorio entro una manciata di generazioni. Ciò cambiò essenzialmente, cosa volesse dire essere dei proto-umani comportando nel contempo una significativa perdita di velocità, agilità e versatilità nell’arrampicarsi attraverso un certo tipo di territori. Tanto oggi ora la più funzionale via creativa in grado di condurre alla riproduzione di quell’asse dell’evoluzione, il campo della robotica, sembra soprattutto incline a imporre ai propri figli di metallo & cavi la stessa serie di punti forti accompagnati dalle debolezze intrinseche, sebbene tali esseri del mondo attuale non abbiano il bisogno di scrutare innanzi la savana, né alcun bisogno di essere simmetrici nella disposizione di una quantità e tipologia di arti che risulta più che mai arbitraria. Eppure con l’imposizione pressoché automatica delle logiche dell’economia di scala, i primi automi veramente indipendenti che hanno popolato l’interscambio del mercato globale sembrerebbero effettivamente appartenere a due categorie: un quadrupede chiamato convenzionalmente “cane” ed il cosiddetto androide, a noi simile in qualsiasi aspetto tranne volto, pelle, ossa, muscoli ed organi assembrati attorno al vivente marchingegno del sistema nervoso centrale. L’ultima e forse maggiormente iterazione del quale, può essere individuata nel prodotto largamente programmabile della compagnia cinese di Wang Xingxing, la Unitree Robotics, dal costo unitario di 13.000 dollari ed il nome commerciale alquanto descrittivo di G1 – Humanoid Agent Avatar. Un cui esemplare oggi sappiamo essere stato acquistato, nella primavera del 2025, dall’appassionato del settore nonché possessore di un curriculum pregresso nel campo della programmazione Logan Olson, proprietario di un profilo su X dove appaiono periodicamente i risultati dei suoi esperimenti non del tutto privi di una chiara ed evidente verve creativa. Tra cui l’ultimo e di gran lunga più apprezzato dal pubblico di Internet, che aveva preso come pretesto la ricorrenza di Halloween per fare un qualcosa che nessuno aveva mai tentato fino ad ora: insegnare al suo fedele servitore cibernetico una particolare mossa egualmente familiare ai cinefili e gli amanti dei videogames. Quella consistente, in parole povere, nel chinarsi in modo innaturale a terra, per incedere mediante l’uso di gambe e braccia piegate ad angolo, in un modo che ricorda sottilmente alcune categorie d’insetti o aracnidi, passando per la bambina posseduta ne “L’Esorcista” o il perverso combattente Voldo nella serie di picchiaduro Soul Calibur. O ancora e in modo più calzante, le guardie artificiali diventate ostili all’umanità nella stratificata arcologia decaduta dell’opera di animazione dal manga di Tsutomu Nihei, Blame…

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Viaggio nella fabbrica olandese dei cetrioli che ascendono verticalmente alla ricerca del Paradiso

Forse il più notevole traguardo dell’ultima ora, nei termini secolari in cui può essere studiato il progresso umano, è il dominio e la liberazione della naturale progressione del tempo. L’accelerazione dei processi, l’ottimizzazione dei momenti, la fusione ed il rimpasto dei segmenti successivi del ciclo delle stagioni. Che un tempo influenzavano e determinavano infiniti aspetti dello stile di vita, dalla frequenza e la necessità del quotidiano al tipo di pietanze che risultava possibile disporre sulla tavola comunitaria delle persone. Con riferimento particolare a tutto quello che deriva dall’addomesticazione del mondo vegetale, invero il punto di partenza in un ampio ventaglio di culture per l’elaborazione del concetto stesso di calendario. Non che gli antichi fossero del tutto indifferenti, in linea di principio, al pregio che sarebbe derivato dal poter disporre di determinata frutta e verdura indifferentemente dal periodo climatico vigente. Come nella celebre leggenda riferita dallo storico Plinio il Vecchio, relativa al modo in cui l’Imperatore Tiberio potesse disporre per i propri pranzi e cene di avveniristiche serre funzionanti senza interruzioni nel territorio dell’Urbe, le cui pareti non del tutto opache erano costruite tramite l’impiego di sottili lastre di mica, un minerale proveniente dalla Toscana, dal Veneto e la Lombardia. Entro cui crescevano libere da ogni influenza negativa copiose quantità del vegetale cucumis, una sorta di piccolo cetriolo antecedente alla creazione di qualsiasi altra varietà di questo peponide dalla polpa carnosa, il cui sapore fresco è ancora oggi al centro di moltissime ricette e preparazioni gastronomiche capaci di contribuire ad una dieta equilibrata. Del metodo effettivo di coltivazione della pianta, l’autore non fa menzione, sebbene indicazioni di contesto di permettano di determinare come la primizia fosse stata già in quell’epoca “addestrata” a crescere in una configurazione particolare, profondamente diversa dalla modalità strisciante e soltanto in parte arrampicatoria dimostrata da questa specie vegetale in natura. Questo in forza della logica, per ragioni di spazio ma soprattutto perché ad oggi conosciamo troppo bene le antiche radici di quel sistema, necessario punto di partenza per quanto concerne l’implementazione di qualsiasi logica proficua nell’impiego su ampia scala della cucurbitacea più versatile, proprio perché valorizza e perfezione il sapore degli altri ingredienti di qualsiasi tipo di ricetta in cui trovi l’effettivo impiego. Messo in opera tradizionalmente mediante l’utilizzo della cosiddetta espalier, una struttura verticale reticolata, ove ciascuna pianta veniva incoraggiata a crescere pena la spietata potatura di ogni eventuale diramazione collaterale. In uso dentro e fuori dall’Europa, con diverse modifiche e perfezionamenti, fino all’inizio dell’Era Moderna, quando la nascita d’ingiustificati pregiudizi nei confronti del cetriolo, soprattutto all’interno del mondo anglosassone dove venne soprannominato cow-cumber ovvero adatto unicamente all’alimentazione dei bovini (cows) condussero ad un sistematico allontanamento di tale coltivazione dai nascenti processi dell’economia di scala. Ponendo le basi necessarie alla sua gloriosa rinascita, conseguenza dell’ingegno tecnologico di un’intera generazione…

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Il falò delle ambizioni elettriche ad Ivanpah, rinnovabile bastione circondato dagli specchi rotanti

Potente è la catena trofica quanto qualsiasi forza posta in essere dalla natura. Un’attrazione cui è tanto più difficile resistere, quanto maggiormente una determinata specie è situata ai vertici della piramide ecologica alimentare. Così il falco della prateria americana (F. mexicanus) spingendosi oltre i margini del secco, eppur vivido deserto del Mojave, scorse il più perfetto dei territori di caccia: un appezzamento limpido e del tutto privo di alberi utili a nascondersi, dominato unicamente da tre alte torri costruite dagli umani. Sopra la cui luce innaturale, innumerevoli passeriformi erano intenti a foraggiare nugoli d’insetti alla ricerca, come di consueto, di un punto ove beneficiare al massimo della concentrazione termica fornita dall’energia solare. Con l’unico campanello d’allarme di una crescita esponenziale della temperatura mentre completava l’avvicinamento, purtroppo incomprensibile al suo cervello di rapace, agilmente preparò la traiettoria necessaria per colpire la preda. Quando a un tratto, le sue piume s’incendiarono come nella punizione del superbo Icaro in fuga dall’arcano Labirinto. Trasformato dunque in una sfera fiammeggiante, il nobile uccello disegnò una tragica parabola, priva d’impattare rovinosamente al suolo. 173.000 specchi non del tutto immobili scattarono, al volgere di un singolo minuto, di alcuni significativi gradi a sinistra.
Ci avevano detto di non lasciarci impietosire dalle circostanze: “Per ogni volatile annientato durante il suo passaggio, la Centrale ad Energia Solare di Ivanpah contribuisce salvarne milioni.” Per la riduzione dell’inquinamento, chiaramente, il contrasto dell’effetto serra, il superamento dell’impiego delle centrali a carbone, la cui capacità di avvelenare e danneggiare il pianeta è in un certo senso prospettata by design, contrariamente al caso del nucleare, i cui effetti deleteri sono conseguenza dei più rari, ed auspicabilmente evitabili disastri. Non soltanto per i 392 Megawatt dichiarati come producibili in condizioni ideali, sufficienti ad alimentare 140.000 abitazioni statunitensi all’epoca della sua inaugurazione nel 2014, bensì come dimostrazione di una nuova strada percorribile, l’innovazione di un processo che sembrava all’epoca una potenziale svolta in grado di cambiare veramente le cose. Giacché il sito in questione, come potenzialmente desumibile dal suo singolare aspetto, non rientra ad oggi nella più diffusa categoria di centrali solari basati sul processo fotovoltaico. Quanto nella tipologia di approccio, molto diretto ed intuitivo, realizzato per la priva volta a Genova nel 1886 dall’ingegnere Alessandro Battaglia. Un impianto a concentrazione solare, in altri termini, concettualmente non dissimile dal terrificante specchio ustorio di Archimede, in base alla leggenda utilizzato per spezzare l’assedio navale di Siracusa. Con i numerosi e coordinati specchi indirizzati in questo caso, piuttosto che contro le vele di una flotta romana, in direzione di appropriati e funzionali torri sopraelevate. Capaci di trasformare tale accumulo d’energia termica, in elettricità. Con qualche fumante, inevitabile incidente pennuto sul percorso…

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L’inamovibile vascello antartico che si eleva dalla morsa stagionale del grande Inverno

Se potessimo puntare da una base stabile strumenti di misurazione laser contro la facciata dell’interessante parallelepipedo in metallo, la cui forma aerodinamica resiste ad ogni forza trasversale di quel luogo non propriamente accogliente, scopriremmo al volgere di un anno qualche cosa d’inaspettato. Relativa al modo in cui essa pare crescere, in altezza, tra gli 80 centimetri ed 1 metro, allungando l’ombra del suo tetto sostenuto da incombenti palafitte situazionali. Quasi come se quest’ultime fossero le appendici deambulatorie, di un gigantesco miriapode sopito in attesa di quell’impossibile scongelamento futuro…
Spesso utilizzate come termini di paragone d’ipotetiche strutture che verranno costruite un giorno sulla Luna o altri corpi del Sistema Solare, le stazioni dell’Antartico presentano effettivamente alcune sfide ingegneristiche tipiche soltanto della Terra e che difficilmente potranno, in proporzione, andare incontro ad alcun tipo di problema equivalente fuori dalla nostra atmosfera. Cominciando in modo particolarmente rilevante dagli inesauribili processi meteorologici e climatici che condizionano lo stato in divenire della candida calotta, il cui livello cresce in modo pressoché costante per l’accumulo di neve sopra il peso stratigrafico dei millenni trascorsi. Non sarà in tal senso un assottigliamento graduale, bensì il catastrofico collasso entro una generazione o due, a causare il devastante scioglimento di quei ghiacci e la devastazione lungamente anticipata dai processi del cambiamento. Particolarmente in zone come la Piattaforma di ghiaccio Ekström, dove la precipitazione di appena qualche decina di cm di neve nuova ogni anno causa l’innalzamento pressoché costante del livello del suolo che il gelo trasforma nel cosiddetto firn, mentre il trascinamento eolico di quel materiale non sempre egualmente compatto ridisegna il mutevole profilo dell’orizzonte. Ivi incluso, per massima sfortuna degli umani, ogni tipo di struttura posta in essere a serbare gli interessi di esplorazione o studio che potremmo avere nei confronti del più ostile dei continenti. Poiché d’altronde, questo luogo ha certe valide caratteristiche che lo eleggono a meta desiderabile rispetto alle adiacenti alternative: la relativa accessibilità dal mare, per la vicinanza alla baia di Atka, una delle poche regioni della costa dove il ghiaccio si apre stagionalmente; una superficie piatta e sgombra, utile a far atterrare gli aeroplani; collocazione strategica per l’invio e ricezione di comunicazioni tramite onde radio nei lunghi mesi del gelido inverno. Così come esemplificato per la prima volta dai tedeschi già nel 1981, con la costruzione della stazione di ricerca dedicata al geologo del XIX secolo Georg von Neumayer, tra i primi ricercatori a sostenere l’esigenza di una collaborazione della scienza internazionale…

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