Guide scanalate o rampe di lancio? Approccio alternativo all’arceria grazie all’impiego del solenarion

Giunte presso la fertile confluenza tra i fiumi Tigri e Khosr, le potenti armate bizantine di Eraclio si schierarono in maniera ordinata di fronte alle porte dell’antica capitale assira, Ninive. Diversamente dall’assedio subìto l’anno prima dalle spesse mura di Costantinopoli, il tipo di conflitto che ci aspettava in questo caso sarebbe stato dinamico, violento e considerevolmente più breve. Nessuno tra i membri della classe al comando dei Sasanidi, meno che mai lo Scià Cosroe II, soprannominato “il Vittorioso” si era mai aspettato che la guerra raggiungesse queste sacre sponde. Ed in effetti già giravano le voci, piene di astio e reticenza, in merito al presunto assassinio del sovrano per una cospirazione della sua corte. Già l’ultimo e più agguerrito dei contingenti persiani osservava i Romani d’Oriente, mentre assumevano la tipica disposizione a scacchiera, con gli arcieri pronti a bersagliare le svettanti merlature con i propri dardi appuntiti. Ma prima ancora che la guardia cittadina con limitati rifornimenti e munizioni potesse alzare i propri scudi, qualcosa di terribile si abbatté su di loro. Decine di soldati caddero trafitti da proiettili non visti e non uditi. I pochi fortunati in grado di sopravvivere, chinandosi a raccogliere le strane armi che li avevano raggiunti, non poterono far altro che restare basiti. Tra le loro mani, frecce lunghe circa un terzo di quelle normali. Che nessuno, in alcun modo, avrebbe mai potuto immaginare di lanciare nuovamente al nemico.
Più e più volte una simile scena si era ripetuta dall’inizio del VII secolo, con ben pochi superstiti a narrare la vicenda, nel corso dell’ultimo ventennio di sanguinose campagne militari tra i due vasti Imperi. Grazie all’uso di quella che divenne largamente nota come “l’arma segreta” delle ormai vetuste ed accerchiate legioni, pur essendo in senso concreto un mero ausilio all’utilizzo di uno degli implementi bellici più lungamente noti all’umanità. Il cui nome, solenarion dal greco σωλήν (tubo) e -άριον (piccolo) permetteva d’iniziare a sospettarne l’utilizzo. Per un’ipotesi immediatamente confermata, non appena si scorgeva in mano ai suoi effettivi utilizzatori. Coloro che agendo di concerto con la fanteria d’assalto, restavano in disparte, trasformando le truppe avversarie in un porcospino. Ecco dunque il tipico cecchino di quell’Alto Medioevo, con preparazione ed addestramento specifico, non incoccare più direttamente il proprio strale piumato, bensì disporlo in modo tattico all’interno di una mensola scanalata. Oggetto oblungo e attentamente preparato, da tenere con la mano destra tra l’indice ed il pollice mentre si tende la corda, come se l’intento fosse quello di scagliarlo all’indirizzo del bersaglio elettivo. Se non che al momento del rilascio, un apposito cordino avvolto alla mano possa permettergli di separarsi dalla propria anima sottodimensionata di cedro, pino o abete. Un po’ come l’involucro sabot degli odierni proiettili d’uranio impoverito impiegati nei carri armati. Con finalità molteplici ed in molti modi convergenti, che potremmo ritenere utili a qualificare tale approccio come antesignano e al tempo stesso erede del concetto prototipico di balestra. Da una direzione contrapposta a quella dell’inventore greco del mondo antico Ctesibio di Alessandria (III sec. a.C.) che aveva dato i natali al gastraphetes o “arco dello stomaco” macchina da guerra individuale caricata con una sorta di leva, il cui utilizzo richiedeva un posizionamento fisso e assai probabilmente, un qualche tipo di supporto per il grande peso. Ma in assenza dell’armonica plasticità del ferro purificato e modificato tramite l’impiego del carbonio, da usare come motore per il lancio del proiettili, simili implementi avevano più lati negativi che positivi. Dal che l’idea di separare gli immediati vantaggi dai problemi, arrivando ad un sistema che fosse al tempo stesso versatile, portatile e diabolicamente efficace nel proiettare minuscoli messaggi di morte verso coloro che gremivano la parte contrapposta della barricata…

Pur non potendo sottovalutare l’importanza dell’angolazione romana, è d’altra parte chiaro agli storici come il sistema dell’arco overdrawn/”sovra-teso” avrebbe raggiunto il proprio apice soltanto in un’epoca tarda, quando anche i Persiani lo iniziarono ad usare per osmosi identificandolo con il termine navak, ma soprattutto i popoli turchi delle steppe, destinati a fornire la cavalleria del successivo Impero Ottomano inventarono anch’essi la propria versione, chiamata majra. Si è lungamente parlato in modo retroattivo, effettivamente, della ben nota perizia dei molti sudditi del Sultano nel lancio delle frecce a notevole distanza, durante i lunghi conflitti che avevano portato alla conquista dell’Anatolia, dei Balcani ed infine della stessa Costantinopoli nel 1453, usata come base per le successive campagne di espansione nel cuore d’Europa. Guardando addietro dal celebre caso del 1794 quando l’ambasciatore turco, in una dimostrazione di abilità poco fuori la città di Londra, scagliò una freccia a 482 yarde di distanza (440 metri) mediante l’uso di un arco tradizionale del suo paese. E pensare che egli non aveva con se neppure, a quanto è stato riportato, il perfezionato tubo di lancio dei suoi insigni predecessori! Il cui contesto d’utilizzo ideale, nella cultura di quel popolo, era per l’appunto la disciplina del tiro sulla distanza (flight archery) tipicamente praticata nelle vaste pianure fuori l’antica ed ancora una volta rinominata Bisanzio, dove ancora oggi si trovano i pilastri commemorativi dei migliori lanci effettuati dalla remota epoca di Mehmed II il Conquistatore. Contesto nel quale l’utilizzo di frecce piccole e più veloci, grazie all’impiego dello scanalato majra, permetteva di frequente l’ottenimento di risultati persino migliori. E ciò senza considerare neppure gli ulteriori punti di forza, relativi soprattutto alla compattezza delle frecce utilizzate, più facili da trasportare a cavallo e perfette da incoccare con movenze rapide e ben collaudate. Tanto che la rapidità nel far seguire un dardo da un altro aumentava in modo esponenziale nelle mani di un tiratore esperto. Altro aspetto da considerare era la versatilità, dato che diversamente dalla balestra, un arco fornito di attrezzo per iper-tensione poteva facilmente essere impiegato direttamente con le mani. Il che permetteva alle truppe a distanza d’impiegare il metodo preferito in una vasta serie di circostanze, come durante gli assedi o ogni altro caso in cui ritenessero vantaggioso il peso maggiore e conseguente potere d’arresto di una freccia tradizionale.

Sviluppato a partire da considerazioni simili sebbene un contesto di guerra radicalmente diverso, un attrezzo appartenente allo stesso genere di armi ebbe comprovata diffusione in Estremo Oriente a partire dall’epoca del Grande Impero dei Ming (1368 – 1644) quando un perfezionamento del sistema preliminare noto come Tong Jian (筒箭 “freccia nel tubo”) fu standardizzato con l’invenzione del Bian Jian (邊箭 “freccia di confine”). Un utile strumento nel respingere i popoli settentrionali che avrebbero in seguito conquistato il Celeste Impero, i quali non essendone dotati a loro volta, diventavano frequentemente incapaci di rispondere al fuoco dei difensori. Ma fu soprattutto la Corea all’epoca dei tre Regni, e con la successiva unificazione da parte della dinastia Joseon del 1392, a fare un ampio uso dell’implemento di sovratensione realizzato tradizionalmente in bambù, chiamato direttamente tong-ah (통아) o in modo maggiormente descrittivo, come della aegisal (애기살 – “piccola freccia”) destinato ad essere impiegato con notevole e comprovato successo ancora durante il corso delle guerre Imjin (1592-1598) contribuendo al sanguinoso respingimento dei samurai giapponesi.
Ricordandoci come il consorzio metaforico delle molte civiltà indivise mai abbia potuto risentire di particolari ostacoli o ritardi situazionali, per quanto concerne l’implementazione di sistemi collaudati utili all’eliminazione sistematica dei propri avversari. Soprattutto quando ciò poteva essere fatto ad una ragionevole e rassicurante distanza di sicurezza. In grado di accrescere se stessa in modo esponenziale, tanto più leggiadra e aerodinamica era la freccia fatta decollare dall’accumulo meccanico delle forze muscolari di ciascun individuo. Un’applicazione di certo lodevole, se non proprio costruttiva, del proverbiale ingegno umano.

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