Rassicurante può essere tentare di attribuire alle maggiori religioni del mondo una serie di caratteristiche esteriori e implicazioni contestuali capaci di esulare dai reciproci contesti d’appartenenza. Determinati stili, connessioni pratiche nelle meccaniche visuali da evocare nei fedeli, mediante lo strumento sempre utile dell’arte umana. In tal senso costituendo il tipo di enti che trascendono i confini di regni, repubbliche o tribù, i diversi modi di approcciarsi alla divinità diventerebbero una mera conseguenza, dell’uno o l’altro canone letteralmente imposto dagli imprescindibili predecessori di un Credo. Al punto che persino l’eccezione, nell’attenta salvaguardia di quell’utile concetto, diviene per il senso comune uno strumento avversativo utile a confermare la presunta regola. Pur essendo, nel contempo, l’evidente promemoria che ogni tipo di realizzazione può riuscire a giustificare la propria stessa esistenza, a patto che sia sufficientemente memorabile in una quantità rilevante dei propri fondamentali aspetti. Nello stesso modo in cui a Divriği, insediamento di circa 11.000 abitanti nel distretto turco di Sivas, sorge un edificio che avendo incorporato a partire dal XIII secolo la duplice funzione di luogo di culto islamico e dār al-shifā’ (casa di guarigione) oggi ci ricorda come i preconcetti fondati sulle conoscenze pregresse non sempre corrispondano a fattori geometricamente prevedibili, né sostanziali limiti creativi imposti ai costruttori originali di una simile tipologia di edifici. Con dimensioni imponenti di 64 per 32 metri e facciate in media capaci di elevarsi fino a 12 metri fatta eccezione per il minareto, che ne raggiunge 24, la Grande Moschea e Ospedale (Ulu Cami ve Darüşşifası) della città risulta dominata per chi l’osserva da lontano da un’iconica caratteristica particolarmente distintiva nel suo contesto culturale d’appartenenza: tre portali monumentali finemente ornati, mediante l’utilizzo di bassorilievi ed elementi a sbalzo, tanto elaborati da giungere a ricordare superficialmente l’aspetto delle cattedrali gotiche della stessa epoca appartenente a un contesto europeo. Almeno finché non ci si avvicina ulteriormente, giungendo a intuire almeno in parte il complesso iconografico degli elementi rappresentati per ciascuna di esse, che in aggiunta alle iscrizioni a rilievo del nome del sultano nella distante capitale, dei committenti diretti e la duplice funzione della struttura, di per se non rara all’epoca, includono reticoli decorativi a nido d’ape, dotati di elementi vegetali e diverse creature fantastiche dal significativo simbolico relativamente occulto. Ragion per cui sarà opportuno, a questo punto della trattazione, rivolgere temporaneamente la nostra attenzione al quadro storico che avrebbe permesso ad un simile capolavoro di palesarsi…
storia
L’inviolabile fortezza che divenne un avamposto d’Africa sulla costa del subcontinente indiano
Doveva essere un personaggio dal contegno molto affascinante. Quando Piram Khan, nella sua migliore interpretazione di un mercante proveniente dalle terre dell’Africa Orientale, giunse in Deccam alle porte del forte in legno di Jazira, “l’Isola” verso la fine del XV secolo, si trovava alla testa di una flottiglia commerciale carica di merci e beni di natura estremamente preziosa. Così che il comandante della guarnigione, un rappresentante della casta agricola dei Koli di nome Raja Ram Rao Patil, non ebbe particolari esitazioni nell’accoglierlo ed acconsentire, come da risaputa usanza locale, a custodire i suoi moltissimi barili di vino entro le mura del castello, costruito in origine dai pescatori locali come formidabile contromisura contro i pirati della regione. In alcun modo egli avrebbe potuto intuire che il Siddi, un termine ad ombrello utilizzato per riferirsi all’epoca all’intera varietà di popoli provenienti dal continente bagnato dalla parte meridionale dell’Oceano Indiano, era in realtà giunto alle sue porte su mandato del sultano di Ahmednagar, sovrano nominale di queste terre, indispettito per il modo in cui la gente del distretto di Raigad aveva scelto d’ignorare la sua autorità suprema, dopo aver raggiunto un grado superiore di prosperità. Così al calare della sera, dopo il trascorrere di un tempo attentamente concordato, nei magazzini di Jazira gli uomini pesantemente armati di Piram Khan fecero la propria uscita silenziosa dai barili. E diffondendosi a macchia d’olio entro le mura del cruciale punto fortificato, sorpresero ed uccisero, o fecero prigionieri, l’intera moltitudine dei soldati momentaneamente ubriachi al servizio di Raja Ram Rao Patil. Questo fu l’inizio di una leggenda, sostanzialmente, nonché la genesi di una fortezza catturata per la prima ed ultima volta nel corso della propria lunga storia, essendo destinata da quel momento a rimanere del tutto invincibile nel corso dei successivi cinquecento anni di frequenti, agguerrite battaglie. Mentre quella che sarebbe diventata Murud-Janjira, letteralmente “l’Isola-Isola” con l’uso di una doppia terminologia dalla storpiatura del termine arabo e la parola equivalente in lingua Konkani si riconfermava, un secolo dopo l’altro di pari rilevanza strategica e perizia costruttiva inviolabile ai metodi d’assedio dell’Asia meridionale. Grazie anche ai metodi architettonici importati principalmente dall’Etiopia, per il tramite di schiavi liberati ed altre vittime dell’immigrazione forzata fino alle sponde del gremito, burrascoso subcontinente indiano.
Passata nella prima metà del XVI secolo sotto il comando del rinomato generale di origini Siddi e ministro dei sovrani islamici del Deccam, Malik Ambar, la fortezza venne dunque sottoposta ad un’ingente opera di rinnovamento e costruzione ulteriore, destinata a durare il periodo dei successivi 12 anni, da cui sarebbe uscita come un complesso dalle mura in pietra tra i più solidi mai visti dalle forze militari dell’intera regione. Dislocata in modo tale da colmare l’intera isola antistante a quello che sarebbe diventato il porto commerciale della piccola città di Murud, Janjira avrebbe in seguito ospitato l’intera discendenza dei sovrani della dinastia dei Siddi, poi ribattezzati Sarkhel o Nawab. Comandanti di una stirpe indomita, capace di respingere i ripetuti assalti delle fazioni Maratha, dei Portoghesi, gli Olandesi e i Britannici, potendo contare attraverso i risvolti della Storia unicamente sul supporto dei sultanati Mughal fautori della loro stessa religione islamica. Disposti, nell’imprescindibile realtà dei fatti, a lasciare ai Siddi l’indipendenza politica di cui si erano dimostrati dei guardiani tanto straordinariamente efficienti…
Se soltanto fossimo a Fordlandia, dove i soldi crescono sugli alberi e la gomma scorre come il vino
Vi sono prove pratiche del fatto che il superamento delle aspettative sia la fondamentale aspirazione del perfetto uomo d’affari, universalmente dedito al raggiungimento di uno stato di eccellenza, vicendevolmente favorevole a se stesso e la contemporanea società indivisa. La domanda che occorrerebbe tuttavia porsi, se possibile, è: “Le aspettative di Chi?” Forse del cliente finale, che contava sull’ottenimento di un prodotto conforme… Oppure dei suoi stessi familiari, abituati ad una vita di fondamentali privilegi… O ancora, perché no, i propri preziosi dipendenti. Uomini e donne la cui vita è stata resa valida ed interessante, dall’appartenenza professionale ad una grande organizzazione e l’adorazione possibile di un marchio, più grande delle singole parti che hanno avuto l’iniziativa di renderlo importante. Henry Ford, padre dell’automobile moderna nonché famoso ideologo, eclettico filosofo della società ed agguerrito antisemita, credeva fermamente nell’inesistente distinzione tra questi tre sentieri. Giacché ogni singola mansione all’interno dei suoi stabilimenti aziendali veniva remunerata generosamente, grazie alla creazione de facto del sistema di un salario minimo antecedente di oltre mezzo secolo all’introduzione normativa di quel concetto. Così che anche il più umile operaio sotto l’egida del grande Padre capitalista potesse permettersi di acquistare, volendo, le automobili che contribuiva a costruire.
Fermamente convinto nella sua visione, nella seconda metà degli anni ’20 l’uomo che avrebbe in seguito ispirato indirettamente, coi suoi scritti e il suo giornale, parte dei contenuti del Mein Kampf hitleriano decise quindi di dimostrare al mondo che un simile approccio metodologico avrebbe potuto condurre all’avanzamento della qualità della vita in “Qualsiasi paese illuminato dallo stesso Sole” potendo nel contempo perseguire un obiettivo in grado di accrescere la sua già notevole ricchezza terrena. Vuole il corso della Storia infatti, che nel periodo tra i due conflitti mondiali il vasto Impero Britannico potesse disporre di un quasi assoluto monopolio nella fornitura di gomma, utilizzata quotidianamente per la creazione di pneumatici, grazie alla celebre quanto proficua introduzione di alcuni semi dell’albero Hevea brasiliensis nei vasti territori d’Oriente da parte dell’esploratore Henry Wickham, dove il fondamentale materiale si era trasformato in un’esportazione primario di Ceylon, Sri Lanka, Malesia e Singapore. Per un percorso oggettivamente tortuoso che il potente e rispettato Ford pensò bene d’invertire ritornando alle origini, giacché se tale vegetale proveniva dall’America Meridionale, perché mai non avrebbe dovuto costituire un fondamentale appannaggio degli Stati Uniti territorialmente assai più prossimi alla fonte? Finalità che egli scelse di perseguire attraverso il metodo forse meno intuitivo, ed al tempo stesso più ambizioso a disposizione: la creazione di una company town, città creata in basi ai crismi di quel marchio e attorno agli stabilimenti necessari, nel bel mezzo della foresta amazzonica nello stato brasiliano di Parà, lungo il corso del fiume Tapajós. Un piano che sembrava estremamente valido nel giungere a fornire, ben presto, gli estensivi dividendi da lui auspicati…
Se “orecchie d’asino” ti sembra un complimento, il tuo totem potrebbe essere un Pega
Umile, mondano, accessibile, privo di caratteristiche inerentemente competitive. Eppure quando un predatore riesce a penetrare le barriere della fattoria, capre, cavalli e cavoli non hanno esitazioni: radunano le proprie forme attorno al burro, cercando in quegli zoccoli potenti l’ultima linea di protezione. Come un cane ma più grande, simile a un’oca per la voce roboante, scaltro quando serve nonché dotato della valida combinazione di spontaneità ed acume, l’asino è un sinonimo di molte cose. Soltanto non è “nobile” per quanto concerne i preconcetti frutto del rigido sguardo umano, essendo tale titolo generalmente riservato al suo fratello equino, usato come mezzo di trasporto affine a dame e cavalieri prima dell’odierna epoca vigente. Quando l’uso dei motori ha sovrascritto tutto quello che riguarda selle, zoccoli e le pertinenze relative agli stallaggi, inclusa l’ideale gerarchia esistente tra i diversi ceppi di queste creature. Che vedevano il fedele amico dell’agricoltore suddiviso in gerarchie altrettanto cadenzate negli spazi delle percezioni acquisite. Con determinate specie più preziose di altre, ed alcune, in modo particolare, degne di essere associate a investimenti relativamente significativi. Soprattutto all’epoca delle Colonie, nelle più remote regioni del Nuovo Mondo.
Esistono effettivamente, in base alla tassonomia creata da Linneo in persona, due principali discendenze d’asino tradizionalmente addomesticate dalla società rurale: l’Equus africanus e l’Equus hemionus europeo, tralasciando l’E. Kiang tibetano, frutto di caratteristiche e fattori di pressione ambientali radicalmente diversi. Una delle ragioni per cui Pero Vaz de Caminha, assistente del comandante di flotta Pedro Álvares Cabral, scrisse famosamente nel 1500 al Re del Portogallo: “Essi [i Nativi Sud Americani] non arano e non seminano. Non possiedono pecore, polli o qualsiasi altro animale. Mangiano soltanto un particolare tipo di tubero, e frutta e semi.” E poco importa che lo stesso Cristoforo Colombo, nella sua primissima spedizione, avesse già previsto spazi a bordo per alcuni asini da utilizzare come sostentamento dell’equipaggio, L’amico dagli zoccoli sarebbe quindi stato trapiantato in queste terre a svariati secoli di distanza, mediante un processo lungo e graduale di adattamento. Grazie all’opera ben collaudata di determinati allevatori, le cui storie corrispondono a creature iconiche, destinate ad essere inserite nei cataloghi di alcune delle razze più apprezzate al mondo. Così Padre Manoel Maria Torquato de Almeida, pastore di anime dell’arcivescovato di Mariana, si trovò nel 1810 ad acquisire la gestione della fattoria di Curtume, all’interno dello stato brasiliano sud-orientale di Minas Gerais. Da lì a intraprendere l’allevamento di una nuova varietà di ciuchi, il passo risultò essere sorprendentemente breve. Ed il risultato, in base al giudizio delle cronache coéve, semplicemente fuori dai canoni delle pregresse aspettative comunitarie…