Difficile trovare un senso spirituale nella guida. I veicoli a motore e le strade asfaltate sono, il più delle volte, quanto di più lontano possa esistere dalla meditazione e la poesia. Ci si mette al volante per raggiungere un luogo, trasportare cose, trionfare su pista in gare di natura sportiva. Eppure in uno dei luoghi più sacri della terra, nel pieno svolgersi di un importante momento collettivo dedicato all’arricchimento religioso e alla celebrazione induista, il Mauta kā Ku’ām (Pozzo della Morte) sembra assumere un valore nuovo. Sarà l’estetica rimediata ma entusiastica dell’arena in cui si svolge, quasi una reinterpretazione orientale della Sfera del Tuono del cinema post-apocalittico Mel Gibsoniano. Sarà l’approccio spericolato di ogni parte coinvolta, dai folli guidatori di vecchie utilitarie ai centauri dotati di moto e motorini potenziati in casa, con parti improvvisate o prese in prestito da qualche amico. Da un certo punto di vista questa peculiare forma d’intrattenimento, molto amata nel sub-continente indiano, è anche il più perfetto incontro tra la cultura americana degli sport estremi e la trascendenza tipica di alcune filosofie orientali, capaci di reinterpretare a modo loro i concetti stessi del rischio e del pericolo. Fermata per un attimo la strana giostra, uno di loro declama solenne “Non sono un eroe, è solo il pubblico che mi ritiene tale” Poi ricomincia a girare.
La Maha Kumbh Mela è una festa che si tiene ogni tre anni, a rotazione fra le città indiane di Haridwar, Allahabad, Nasik e Ujjain. Ha una durata di un mese e mezzo circa. Si tratta del più grande pellegrinaggio religioso al mondo, tenuto nei quattro luoghi in cui secondo la leggenda era stato accidentalmente versato l’Amrita, ovvero il nettare dell’immortalità, a seguito di un’epica battaglia tra i Deva e gli Asura (antiche divinità). Viene stimato che nel 2013, tra gennaio e marzo, vi abbiano partecipato 80 milioni di persone circa, con il fine principale di bagnarsi nelle acque di uno dei molti corsi d’acqua sacri alla religione Indù, tutti collegati in qualche modo all’eterno fiume Gange. Stavolta però, oltre ai metodi più convenzionali e consoni per la ricerca del volto delle divinità, c’erano anche questi singolari circhi-centrifuga motoristici, simbolo in un certo senso della modernità e dell’occidentalizzazione.
Tuttavia a mio parere, grazie all’ultimo video dei Django Django, il gruppo rock londinese, si riesce quasi a intravedere un significato di fondo, trascendente e universale, in questa pratica così apparentemente fine a se stessa: la metafora stessa del calice dell’immortalità, ripresentato per esigenze contingenti come un moderno giga-calderone in legno e ferro… Con la gente, perché no, che ci corre dentro. Peccato solo che agli inglesi in visita, mentre facevano riprese dal centro dell’arena, gli abbiano rubato le scarpe.