E se ora vi dicessi che la fama di un antico luogo, inteso come posizionamento dello stesso nel ricco sistema della conoscenza post-globalizzata, non ha invero niente a che vedere con la sua importanza, antichità e portata proto-storica immanente? E che a 53 chilometri da Dublino esiste un sito del 3200 a.C, antecedente di svariati secoli al famoso cerchio inglese di Stonehenge o per lo meno la versione giunta relativamente intatta fino ai nostri giorni, e che compete alla lontana per ingombro del paesaggio e portata dei misteri contenuti con le coéve piramidi della piana di Giza, visto il diametro di 76 metri e un approccio archeologico che possa dirsi rigoroso, non antecedente all’ultimo secolo a questa parte. In qualità di “monumento barbarico” non degno di approfondimento, com’era giunto a chiamarlo l’antiquario gallese Edward Lhwyd, tra i primi a visitare il grande tumulo scovato e messo a nudo dai lavoratori della fattoria oggi omonima di Charles Campbell, poco prima che un gran numero di suo colleghi accorressero da tutte le isole inglesi, per catalogare, studiare e disegnare le caratteristiche di una tale meraviglia ancestrale. Tra cui il professore dell’Università di Dublino, Sir Thomas Molyneaux, che scovò all’interno i consumati resti di almeno due corpi umani, qualificando in via preliminare l’arcana struttura di Newgrange come un esempio sovradimensionato di tomba a corridoio, tipicamente rappresentativa delle tradizioni funerarie antecedenti alla lavorazione del metallo tra i popoli dell’Isola Verde. Non che ciò sarebbe stato sufficiente, purtroppo, a salvarla entro 101 anni dal prelievo, verso l’inizio del XIX secolo, di una significativa quantità di pietre per la costruzione di una vicina folly, o struttura architettonica simile a un piccolo castello da giardino con probabile funzione di attirare l’attenzione dei turisti, gesto che avrebbe portato, nel decennio successivo, all’acquisizione e la tutela statale di questo importante luogo. Ci sarebbero voluti tuttavia altri 150-160 anni, prima che un rigoroso studioso dei reperti storici, l’archeologo dell’università di Cork Michael J. O’Kelly, conducesse degli scavi degni di essere chiamati tali tentando di giungere al nocciolo e la reale portata della questione. Determinando come l’edificio più imponente della piana di Brú na Bóinne (letterealmente: la dimora dei Boyne), ricca di altri tumuli quasi altrettanto interessanti, oltre ad avere la probabile funzione connessa alla sepoltura dei potenti fosse assai probabilmente rimasto in uso per svariati secoli o millenni, con una probabile funzione religiosa e sociale di primaria importanza. Proprio negli studi di questo scienziato si passò quindi alla teoria secondo cui l’edificio, allora poco più che un cumulo di terra circondato da pietre malmesse provenienti dai più remoti recessi d’Irlanda, avesse un tempo avuto un aspetto molto più impressionante, riuscendo ad ottenere il permesso di restaurarne completamente l’involucro esterno, attraverso l’impiego di una lunga serie d’espedienti appartenenti all’epoca odierna. Nasce in questo modo, l’attuale straordinario complesso, con una cinta muraria di contenimento costituita in larga parte da pietra di grovacca, ma anche ciottoli di gabbro nero dei monti Cooley, siltiti del lago Carlingford e soprattutto pietre di quarzo bianco provenienti da dalla regione di Wicklow. Per l’ottenimento di un effetto complessivo più volte criticato attraverso il corso dell’archeologia moderna, tanto che il collega P. R. Griot giunse a definirlo simile a “Un cheese cake alla crema ricoperto d’uvetta” e Neil Oliver “Un’influenza proto-stalinista trasferita all’epoca della pietra.” Tutto ciò conservando intatto, per fortuna, l’importante struttura interna del monumento…
L’odierno visitatore del sito, che può accedere unicamente previo pagamento del biglietto presso il centro visitatori e partecipazione ad uno dei gruppi rigorosamente accompagnati, anche vista la quantità di graffiti abusivamente tracciati sulle antiche pietre in epoca tutt’altro che remota, viene dunque chiamato ad entrare mediante l’attraversamento del cerchio di pietre esterne, una probabile aggiunta successiva ed aggirando il poderoso menhir sdraiato, posto innanzi all’unico passaggio che permette l’ingresso nell’antico edificio. Oggetto spesso definito come il megalito più importante di tute le isole inglesi, data la ricchezza delle decorazioni incise sulla sua superficie, inclusive di una grande quantità di triskeli, le spirali interconnesse spesso attribuite alla cultura dei Celti. Un simbolo che ricorre in altre steli poste attorno al tumulo e sulle pareti interne dello stesso, benché i costruttori di un tale complesso fossero di molto antecedenti ad ogni popolo venuto dal continente, inclusa la cultura del vaso campaniforme che si sarebbe stabilita in queste terre verso la fine dell’epoca Neolitica, decretando il progressivo abbandono di Newgrange. Scacciando, o forse integrando un popolo che oggi viene chiamato cultura di Boyne proprio per la natura monumentale dei suoi lasciti, ancora oggi ammirabili negli immediati dintorni del sito fin qui descritto.
Caratteristica dominante del passaggio interno, a tal proposito, resta indubbiamente la finestra o roofbox posta in alto sopra l’unico portale, concepita in modo specifico per raccogliere la luce per alcuni giorni ogni anno, corrispondenti esattamente alla ricorrenza del solstizio d’inverno. Tanto che l’intero spazio dell’anticamera principale circondata dagli spazi funebri, sovrastata da un notevole arco a mensola, diventava il punto focale di un possente raggio astrale, in maniera ancor più precisa 5 millenni a questa parte data l’inclinazione lievemente diversa dell’asse di rotazione terrestre. Permettendo agli utilizzatori del tumulo di conoscere, senza nessun tipo d’incertezza, i tempi utili a dare l’inizio a un nuovo ciclo dell’agricoltura. Immaginate, a questo punto, il prestigio ed il potere che una simile precisa cognizione poteva dare alla classe dinastica o religiosa dei Boyne, detentori di un punto di contatto privilegiato con il mondo remoto degli spiriti e Dei. E quanto facile, all’epoca, dovesse risultare giustificare un simile impianto architettonico per onorarli, che l’archeologo O’Kelly richiede possa aver richiesto oltre 30 anni d’intenso lavoro da parte di quelle che sarebbero state, all’epoca della Preistoria, almeno un paio di generazioni l’una di seguito all’altra. Con il trascorrere dei secoli, quindi, le leggende relative al sito di Newgrange avrebbero raggiunto una sorta di consenso, fino all’Alto Medioevo in cui una certa quantità di fonti filologiche sono riuscite a collocare la diffusa credenza, delle genti limitrofe d’Irlanda, secondo cui l’antico e dimenticato tumulo avrebbe potuto costituire una vita d’accesso al mondo sotterraneo abitato dalla razza semi-divina dei Tuatha De Danann. Facendone in modo particolare un luogo sacro a Dagda, il “dio benevolo” o Mercurio gallico descritto da Giulio Cesare durante le sue spedizioni militari tra i celti, nonché la moglie Boann, dea dei fiumi e Oengus, l’orgoglioso poeta e guerriero che montava un gigantesco cavallo bianco. Un appiglio mitologico comunque molto successivo, che ha ben poco a che vedere con l’originale funzione e sistema di credenze interconnesso all’intera piana di Brú na Bóinne. Così come le inevitabili teorie para-scientifiche che hanno visto nella forma circolare di Newgrange la ragionevole approssimazione del concetto di un disco volante, ritracciando letterali dozzine di accurate osservazioni e annotazioni sull’universo nell’arbitraria disposizione delle antiche pietre, tra cui la struttura delle Pleiadi, le stelle pulsar e i buchi neri. Poiché non c’è archeologo di maggior “successo” di colui che ha scelto di trovare uno schema logico dove potrebbe non esisterne alcuno. O i dati mancano, purtroppo, per accedere all’effettivo processo di ragionamento di coloro che sono venuti prima.
Il mondo degli antichi resta quindi ancora oggi, remoto ed inviolabile custode di un certo numero di arcani segreti. Tanto più significativi ed affascinanti, proprio in funzione della loro apparenza non del tutto trascurabile al fine d’interpretare il nostro attuale posto nello spazio dei secoli e l’universo. I potenziali errori commessi dalle generazioni pregresse, fin troppo rapide ad abbandonare i vecchi sentieri per le transitorie correnti culturali e mode provenienti da Oltremare, non dovrebbero tuttavia scoraggiarci.
Poiché abbiamo tutti gli strumenti logici, e materiali, per raggiungere la stanza al centro dell’arcana piramide di terra. Dopo tutto, la mente umana non è mai cambiata dal punto di vista fisiologico: siamo sempre le stesse persone, con desideri paragonabili e una simile auto-percezione dell’Ego. Ma modi forse ancor meno poetici, o immanenti, per trasferire il nostro sacro nettare all’ansiosa posterità futura.