Cercando la civiltà preistorica che costruì rettangoli nel deserto dell’Arabia settentrionale

Il primo Ascoltatore affrettò dunque la sua marcia, per porsi in capo alla processione dei pastori del suo villaggio. Il gruppo appariva infatti numeroso e forte, ma pur sempre titubante di fronte al rischio d’incorrere nell’ira degli Dei. La notte era perfetta: infusa di un potente lucore, fornito dalla forma piena di Alezh, l’astro notturno che rincorreva perennemente le isole celesti mentre nessun accenno di nube tentava di nascondere un quadrante del tessuto stellare di orientamento. Raggiunta la frastagliata formazione rocciosa che marcava i confini del loro territorio, gli uomini, le donne e i loro armenti sconfinarono all’interno della zona di nessuno, dove i giovani combattevano e loro guerre infinte a colpi di fionde, lance ed archi. Era imperativo infatti che il grande sacrificio, in quel particolare frangente, giungesse a compiersi all’interno di un merpam costruito da qualcuno di appartenente a una diversa sozh, comunità o collettività indivisa. A questo punto l’Ascoltatore si bloccò di scatto, e con un gesto solenne della lunga verga del comando indicò la direzione del loro obiettivo principale, un punto pienamente riconoscibile nel territorio ricoperto di pietre laviche, marcato da un muro capace di raggiungere all’incirca il ginocchio di una persona, pur essendo lungo molte volte lo spazio tra una capanna comunitaria ed il pozzo del villaggio. Con turbamenti progressivamente più intensi, simili alle onde di un vasto lago o mare, le svariate dozzine di persone si apprestarono quindi a far sostare e suddividere gli armenti, affinché uomini e animali fossero pronti a fare il loro ingresso all’interno del merpam. Senza una singola parola, per contenere al minimo il rumore, colui che li aveva guidati fino a quel momento si fece allora da parte, affinché la fase successiva del rituale potesse venire portata a termine da coloro che ne avevano la prerogativa. Una a alla volta, ordinatamente, le vacche e capre varcarono l’evidente portale all’interno della bassa struttura rettangolare, venendo instradate a seconda del valore loro attribuito nelle diverse “stanze” prive di alcun soffitto, affinché gli astri potessero assistere al momento fatidico della loro offerta. Completato il fondamentale passaggio, l’Ascoltatore prese posto all’interno della cella centrale dalla forma perfettamente tonda, sollevando il pastorale come segnale nei confronti dei 24 guerrieri armati di asce di selce, il cui compito sarebbe stato far scorrere il sangue degli animali, affinché i loro padroni potessero continuare a prosperare. Con un gesto imperioso, l’uomo puntò ancora una volta il suo braccio destro e lo sguardò verso il cielo, mentre il destro restava saldamente piantato sull’altare con la forma dell’ortostato di una meridiana. “Che l’eccidio abbia inizio!” Gridò silenziosamente rivolgendosi ad Alezh. “Che la tua voce, ora e sempre, continui ad illuminare la tortuosa strada del nostro cammino.”
Molte poche sono, in realtà, le effettive nozioni di cui siamo possesso in merito ai popoli e le culture dell’area circostante la città di Medina, molti secoli che qui sorgesse la prima Umma, o comunità musulmana del Profeta, ed in effetti in un’Era perfino antecedente all’edificazione delle piramidi egizie. Periodo talmente antico da far pensare agli studiosi ed archeologi, almeno fino a poco tempo a questa parte, che assolutamente nessuno avesse occupato quest’area almeno fino al sopraggiungere dell’Età del Ferro, quando comunità nomadiche impararono a muoversi e percorrere le aspre dune di sabbia di uno dei luoghi più secchi ed inospitali del pianeta. Una visione accettabile, persino probabile, finché non si prende in considerazione la costante deriva climatica di questo pianeta, e la conseguente maniera in cui, coerentemente a contesti ecologici di tutt’altra natura e tipo, qui potevano sorgere campi fertili e pascoli verdeggianti, tali da poter accogliere intere comunità stanziali. E allora perché, verrebbe da chiedersi a questo punto, nessun tipo di resto archeologico è mai stato rintracciato? Forse non sapevamo, nell’effettiva realtà dei fatti, cosa dovessimo effettivamente cercare. Come giunse sapientemente a dimostrarci il Dr. David Kennedy dell’Università di Perth nel 2017 (vedi precedente articolo) con le sue osservazioni sia aeree che in fotografia satellitare dei molti vasti geoglifi, o veri e propri rudimentali macro-edifici, che punteggiavano la vasta piana vulcanica dello Harrat Khaybar. Un luogo i cui molti misteri parevano espressi dai molti residui osservabili di monumentali figure a forma di buchi della chiave o aquiloni, all’interno dei quali venivano probabilmente messi a frutto antichissimi riti propiziatori o un qualche tipo di arcana metodologia di caccia. Ci sarebbero tuttavia voluti ulteriori quattro anni e fino ad aprile del 2021, per la pubblicazione di un secondo studio capace di andare, letteralmente, più a fondo nella questione, scoprendo semi-sepolti negli immediati dintorni di tali piazze un diverso tipo di figure, concettualmente ancor più semplici e come si sarebbe scoperto in seguito, ancor più antichi. Passando dai circa 4.000-5.000 anni dei precedenti ritrovamenti fino a 7.000-9.000, come esemplificato grazie all’impiego di accurate datazioni al carbonio…

Il terreno lavico del regno di Khaybar, con le sue pietre erose fin dall’epoca dell’Olocene, costituisce lo spazio pianeggiante ideale per la costruzione di un alto numero di geoglifi. Un invito implicito, che sembrerebbe esser stato colto a pieno titolo dagli abitanti preistorici della regione.

Già perché all’interno di quelli che la Commissione Archeologica della provincia di Al-‘Ula sembrerebbe aver scelto di chiamare mustatil (termine arabo che significa semplicemente “rettangolo”) pur senza l’auspicato ritrovamento di resti umani tali da confermare l’impiego come luoghi di sepoltura, possibilmente ricchi d’importanti reperti, gli archeologi avrebbero trovato qualcosa di comunque piuttosto notevole: copiose quantità di ossa e pezzi di corna, confermando ancora una volta l’uso possibile da parte di una civiltà fondata principalmente sull’allevamento di bovini, i quali sembravano possedere un qualche tipo di valore trascendentale secondo le usanze religiose del tempo. Ne parlano estensivamente Hugh Thomas e Melissa A. Kennedy assieme ai colleghi dell’Università di Cambridge, nel nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity, in cui un’ampia serie di conclusioni vengono tratte sull’effettivo aspetto, e probabile funzionamento dei mustatil. Con mura eccessivamente basse, a differenza dalle formazioni ad aquilone scoperte dallo studioso omonimo (non è chiaro se ci sia un qualche tipo di parentela) per servire con la funzione di recinzione o canali d’instradamento, finalizzati a procedere all’uccisione di un intero branco di animali selvatici d’incerta natura. Così come una funzione più elaborata viene ulteriormente resa probabile dall’esistenza delle numerose suddivisioni interne, in cellette e stanze dal significato presumibilmente rituale, inframezzate da blocchi emergenti e lastre poste a coltello nelle remote sabbie durante l’Età della Pietra e del Bronzo. E sono proprio queste particolari pietra disposte con estrema precisione dopo esser state tagliate direttamente dall’arenaria locale, chiamate in gergo archeologico ortostati, a lasciar sospettare un livello di tecnologia ed organizzazione sostanzialmente superiore a quello di molti popoli coévi. Anche e soprattutto in considerazione dello sforzo ritenuto necessario per portare a termine i mustatil dalle proporzioni maggiori, capaci di estendersi anche per mezzo chilometro di lunghezza ed oltre, con una quantità di materiali complessiva stimata attorno ai 7200 Kg di pietra e ghiaia. Abbastanza da dover richiedere al minimo, per una squadra di approssimativamente 50 persone, un periodo stimato attorno ai due mesi di lavoro, benché i rettangoli più piccoli potessero venire completati da gruppi ed entro tempistiche decisamente più immediate. Il che continuerebbe comunque a sottintendere una struttura sociale stabile e capace di fornire adeguate risorse e protezione agli incaricati, che altrimenti avrebbero avuto ben altri problemi di cui preoccuparsi che lasciare un segno indelebile del loro passaggio nei confronti della posterità futura. Un ulteriore aspetto degno di approfondita trattazione nello studio viene quindi individuato nella questione assai rilevante dell’effettiva quantità di mustatil scoperti, con circa 350 individuati durante pattugliamenti aerei nel solo regno saudita di Khaybar ed ulteriori 641 grazie all’uso di strumenti per il rilevamento sotterraneo, benché si sospetti possano esisterne in quantità ancor superiore. Il che lascia intuire un qualche tipo d’utilizzo elettivo a seconda dei casi, oppure l’impossibilità di riutilizzare lo stesso rettangolo sacrificale al compiersi di un singolo rito, sebbene tutto ciò debba necessariamente restare allo stato dei fatti il frutto di una mera speculazione. Sebbene la conclusione più importante del gruppo di studiosi sembri centrare a pieno titolo il nesso principale dell’intera faccenda: i mustatil, come tanti altri monumenti della Preistoria, servivano soprattutto come simbolo di aggregazione collettiva ed offrivano una ragione, a tribù disparate, per unirsi sotto un singolo segno o credo, contribuendo in tal modo ai loro propositi di sopravvivenza in un mondo ancora pericoloso ed inospitale. Sebbene resti ancora un sostanziale mistero la ragione per cui tali gruppi, nel caso specifico dell’Arabia settentrionale e in maniera analoga a quella di tante altre civiltà coéve (i.e. i Minoici) si sarebbero in seguito sciolti lasciando spazio a gruppi etnici dalla provenienza ignota. Possibile che proprio questa debba per forza essere, attraverso il complesso trascorrere dei secoli, una delle più imprescindibili tendenze della storia?

Disegni semplici e piuttosto imprecisi, benché occorra ricordare che sono stati creati senza l’ausilio di una visione d’insieme e prima ancora che esistesse il concetto di “artista”. Difficilmente culture dell’Età della Pietra, d’altronde, si sarebbero potuti dimostrare capaci di tracciare i magnifici colibrì ed altri animali stilizzati dell’assai più recente piana di Nazca (300 a.C. circa).

Prive di una logica evidente ma dotate di forme estremamente chiare e riconoscibili, le strutture di tali genti perdute continuano tuttavia a raccontare la loro inascoltata storia. Sebbene un fervido spirito di deduzione, possibilmente accompagnato dalla naturale fantasia della mente umana, occorra al fine di raggiungere un qualsivoglia tipo di applicabile consenso. Che potrà un giorno venire confutato soltanto in due casi: il ritrovamento d’improbabili fonti scritte, antecedenti a qualsivoglia tavoletta d’argilla o pergamena mai ritrovate fino ad oggi, oppure l’invenzione della macchina del tempo, per la prima volta teorizzata da H.G. Wells. Tecnologia il cui accesso potrebbe anche risultare più semplice di quanto abbiamo mai immaginato. Purché si scelga di abbandonare la via della deduzione logica, per tornare al tipo di conoscenza pratica dettata dalla voce cavernosa di esseri sovrannaturali, all’interno dell’approssimazione rocciosa e rettangolare di un purissimo pentagramma. Mentre lo sguardo contraccambiato delle stelle, solennemente ci guida e ci osserva… Continuando a rispondere a quel possente muggito dell’ora del trapasso, che tanto spesso costituisce il richiamo all’Eternità.

Lascia un commento