L’eccellente altopiano di Roraima, mondo perduto sopra il tetto del Venezuela

Non è frequente ritrovarsi a ponderare, dall’altezza delle cognizioni acquisite, quale potesse essere l’aspetto delle montagne all’epoca dei dinosauri. In altri termini da che trespolo, di pietre, roccia e ghiaione, gli antichi pterodattili potessero spiccare il volo, per andare in caccia di possibili vittime del loro becco straziante e gli artigli curvi come scimitarre del Medioevo persiano. Rilievi pronunciati frutto dell’urto tra i continenti, ancora prima che questi ultimi potessero iniziare a separarsi, nella Terra arcaica formata da un singolo continente. Pangea la quale, d’altra parte, risultava essere tutt’altro che pianeggiante, con un luogo in particolare a dimostrare l’ineguale elevazione dei futuri processi topografici d’adeguamento alle aspettative. Una montagna, se così possiamo chiamarla, che assunse l’attuale aspetto esattamente 1,7-2 miliardi di anni fa, ovvero a metà strada tra il raffreddamento iniziale di questa sfera magmatica planetaria e la sua condizione ormai compromessa nel bel mezzo dell’Antropocene, precipitoso declino geologico causato dall’attività umana. Sebbene occorrerà ben altro, che lo sfruttamento minerario e qualche aspirazione per costruire ipotetici resort turistici, per togliere maestosità a questo conglomerato straordinario d’arenaria, quarzo e diorite, che si solleva per 2.810 metri con pareti perfettamente verticali sulla densità vegetativa della foresta pluviale, presentando una sagoma particolarmente riconoscibile nonché rappresentativo di questa particolare area geografica sudamericana: largo, scosceso e piatto sulla sommità, quasi a ricordare l’ideale forma di una scatola di proporzione prossime al divino, da cui il nome in lingua dei Pemon locali di Roraima Tepui, ovvero letteralmente “Casa degli Dei del grande Azzurro-Verde”. Dell’acqua che ruscella ininterrottamente, in modo indifferente attraverso l’incedere delle stagioni, tutto attorno alla sua forma priva di flessioni con dozzine di cascate e cascatelle, quasi come se fosse del tutto incapace di esaurire il proprio accumulo sulla spaziosa sommità coperta da uno strato generoso e impenetrabile di condensazione. Vera e propria fabbrica di nubi e precipitazioni atmosferiche dunque, piuttosto che un mero punto di accumulo per esse, il monte rimase lungamente sconosciuto all’ambiente accademico europeo, finché nel 1595 il poeta, ufficiale militare ed esploratore inglese Walter Reilly né parlò elegantemente nei propri diari di viaggio, arrivando a definirla “mistica montagna di cristallo”. Ma la prima spedizione ufficialmente organizzata non sarebbe giunta che due secoli e mezzo dopo, sotto la guida dello scienziato di origini tedesche ma nazionalità britannica Robert Hermann Schomburgk che ne fece un resoconto dettagliato nel 1838 essendo stato incaricato di stimare i confini tra Guyana e Venezuale, pur non riuscendo a immaginare alcun modo in cui fosse possibile raggiungere la sommità remota di questo luogo che sarebbe diventato il limite tra i due diversi paesi (ed il Brasile) come esemplificato ancora dall’apposito monumento tripartito. Soltanto dopo il trascorrere di ulteriori due decadi e mezzo, quindi, all’ulteriore spedizione di Appun e Brown sarebbe venuto in mente di girare tutto attorno al pietrone, scoprendo l’antica frana capace di costituire un’inaspettata rampa sul versante di sud-est, che avrebbe permesso di salire finalmente in cima a questo luogo totalmente unico al mondo, come ancora oggi viene fatto da decine di migliaia di turisti ogni anno…

Il punto più alto del Roraima è la roccia Maverick, così chiamata per la sua notevole somiglianza ad un’automobile Ford dell’eponimo modello. Contrariamente a quanto si era anticamente pensato, essa non detiene tuttavia il primato venezuelano, spettante ai 4.978 metri del Pico Bolívar.

Quando Sir Arthur Conan Doyle scrisse il suo presciente capolavoro fantascientifico del Mondo Perduto, parlando di un irraggiungibile altopiano ancora oggi abitato dai dinosauri, egli aveva dunque in mente un luogo estremamente preciso, e quel sito era il monte del Roraima Tepui. Creato da un processo geologico capace di collocarlo cronologicamente molto più addietro di qualsiasi formazione montagnosa ancora esistente, al punto da costituire nell’idea degli studiosi una vera e propria “isola sospesa” dei processi evolutivi, potenzialmente utile a comprendere l’aspetto che la vita poteva avere in tempi straordinariamente distanti nel lungo corso dei soggiacenti trascorsi del nostro personale angolo di Universo. O che almeno avrebbe potuto rispondere a tale mansione, se non fosse stato per l’ambiente alquanto inospitale di questo luogo relativamente freddo e battuto da continue raffiche di vento, con un’umidità costantemente fissa tra il 75 e l’85%. Abbastanza da favorire l’occorrenza di vegetazione altamente specializzata, vedi le Bromeliacee normalmente rappresentative dell’ambiente andino, costellato di piante parassitarie epifite e l’occasionale palude all’interno di vasche scavate dall’erosione nella dura roccia della montagna. Nonché un comparto faunistico notoriamente endemico, con piccoli animali quali la notevole rana ciottolo (gen. Oreophrynella vedi trattazione precedente) ben nota per le sue propensioni al mimetismo e la capacità di lasciarsi precipitare ogni qualvolta si ritrovi minacciata dall’incombente intento predatorio di un cacciatore. Letterale punta dell’iceberg, di una straordinaria biodiversità rappresentata primariamente da insetti, aracnidi e minuscoli rettili, occasionalmente accompagnati dall’occasionale nido d’uccelli tra cui falchi, gufi e pappagalli. Di lor conto concentrati, primariamente, nella densa foresta che si estende ai piedi del roccioso gigante. Formalmente in grado di costituire un massiccio esempio di monadnock o “collina solitaria” così come le innumerevoli altre che costituiscono ancora oggi l’insolita catena di Pakaraima, ritenuto secondo l’ipotesi più accreditata l’effettiva risultanza del prosciugarsi di un mare interno all’epoca della separazione dei continenti, seguito dal sollevarsi per affioramento geologico di tali e tante piattaforme rocciose, come dimostrato dalle loro gigantesche caverne per lo più inesplorate, capaci di ricordare un paesaggio carsico di tutt’altra situazione geografica e contesto. Il che pone il fatidico interrogativo di come, esattamente, le creature dei diversi massicci possano essere imparentate tra di loro fin da epoche altamente precedenti all’occorrenza della pratica rampa d’accesso di cui sopra, d’altra parte assente in molti luoghi simili al più famoso Roraima Tepui, comunque non il maggiormente vasto né svettante tra i suoi simili (primati spettanti entrambi all’Auyan Tepui, luogo caratterizzato dal Salto Angel di 807 metri, di gran lunga la cascata più alta al mondo). Una radiazione verso l’alto di creature idealmente incapaci di affrontare simili scalate, da lungo tempo fatta oggetto di studio tra gli altri dal biologo veterano Bruce Means, autore d’innumerevoli pubblicazioni accademiche sull’argomento. Paradossalmente diventato familiare al senso comune soltanto con l’articolo pubblicato in epoca recente sulla rivista National Geographic, ad opera dello scalatore e corrispondente Mark Synnott largamente responsabile di averlo accompagnato in prima persona lungo le pareti e i recessi più inaccessibili del Roraima, offrendogli l’opportunità di gettar luce sui numerosi microclimi e gruppi di creature contenute in essi, ancora largamente rimaste prive di una classificazione tassonomica definitiva. Tanto che non è del tutto irragionevole, percorrendo le vie più facilmente battute nel corso di una delle numerose escursioni organizzate mensilmente sul tepui, ritrovarsi al cospetto del respiro stesso delle epoche, così drammaticamente espresso dai suoi esseri più apparentemente insignificanti eppure proprio a causa di ciò, rappresentativi del grande corso tangibile degli eventi pregressi.

Gli spazi ed i pertugi tra la pietra dioritica degli antichi tepui ospitano un vero e proprio network di gallerie occupate da creature per lo più rimaste indisturbate da letterali miliardi di anni. Una lente d’ingrandimento relativamente accessibile, di come potrebbe essersi sviluppata la vita su altri pianeti.

Col che non possiamo certamente affermare che la visita alla sommità del Roraima sia semplice, né consigliata a chiunque. Con una ripida scalata, fortunatamente priva dell’impiego di attrezzatura d’alpinismo, tra rocce ineguali e una densa foschia dai forti presupposti di disorientamento, al punto che negli ultimi anni è stato implementato l’obbligo di assumere una guida locale, a causa d’incidenti costati in casi estremi anche la vita agli escursionisti. Verso il fondamento di una fiorente economia turistica per la regione, ed uno degli impieghi maggiormente redditizi per la popolazione dei paesi nelle zone limitrofe, specialmente considerato come una spedizione per 7-10 persone sulla sommità del tepui possa arrivare a costare anche 800 dollari a persona. Una cifra abbastanza ragionevole, per l’esperienza di una vita, ma una vera e propria piccola fortuna nel territorio economicamente disagiato del Venezuela.
In un tipo di turismo che potremmo definire, in ultima analisi, come benefico per l’ambiente. Poiché conduttivo ad un maggior grado di conservazione, di tutti quei patrimoni territoriali che altrimenti potrebbero essere instradati alla lesiva e apocalittica via “del Progresso”. L’interruzione inarrestabile, ed irreversibile, del lungo filo di collegamento tra l’attuale generazione di esseri viventi e tutto quello che c’è stato fino all’epoca corrente. Che sia un susseguirsi d’infinite mutazioni, oppure l’occorrenza stolida di un inamovibile grosso macigno.

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