Il segreto super-predatore che si annida sotto i ghiacci più profondi della Patagonia

La natura del tardigrado ha per lungo tempo messo in discussione ogni acquisito punto fermo in merito alle limitazioni della vita e quello che può essere, idealmente, sopportato da esseri creati con l’esplicito mandato di riuscire a prosperare pressoché ovunque. Il che costituisce un significativo tratto di distinzione, laddove la maggior parte degli estremofili sono creature dall’alto grado di specializzazione, adattate unicamente a una particolare tipologia di ambiente convenzionalmente molto inospitale, al di fuori del quale perdono ogni ereditata prerogativa e inclinazione alla presunta invulnerabilità. Questione largamente esemplificata, per dire, dall’areale assai specifico di determinati artropodi, esseri derivati dal più vasto e variegato phylum della Terra, che cionondimeno sembrano essersi evoluti all’interno di un vuoto, inteso come isolamento tassonomico e territoriale da ogni possibile ascendenza evolutiva adiacente. Ed è soprattutto per questo che l’altisonante soprannome del principale plecottero sub-glaciale sudamericano, il cosiddetto Drago della Patagonia, appare tanto appropriato nonché pregno di significato, nonostante la misura massima capace di aggirarsi attorno al centimetro e mezzo. Nonché l’aspetto generalmente riconducibile, in senso lato, a una piccola aragosta del tutto priva di chele, grosse mandibole o agli artigli sul finire delle zampe tipici delle altre stonefly o “mosche della pietra”, come viene chiamata dagli anglofoni questa intera famiglia d’insetti. Che non è l’unico né più significativo tratto di distinzione, sebbene sia tutt’altro che inaudita la sua seconda e più importante privazione, quella di un paio d’ali conduttivi al sopracitato inserimento tassonomico nella macro-categoria delle “mosche”. Ma l’Andiperla willinki, con il suo nome scientifico riferito al presunto scopritore nel 1956, l’entomologo ed esploratore olandese Abraham Willink (1920-1998) non parrebbe possedere alcuna percezione della propria unicità, nel modo in cui semplicemente pascola e si riproduce, laddove ben pochi altri esseri a questo mondo potrebbero immaginare di riuscire idealmente ad adattarsi. Nelle profondità di ghiacciai come quello di Uppsala, dove furono trovati i primi esemplari descritti scientificamente, sotto uno spesso strato di ghiaccio e nell’oscurità dove riescono a vedere grazie agli occhi estremamente ben sviluppati, per emergere soltanto temporaneamente nel corso delle ore notturne, al fine di procacciarsi agevolmente il cibo. Costituito in parti pressoché uguali, in base a quanto è stato determinato, da strati di alghe microscopiche presenti all’interno della crioconite, la polvere biologica trasportata dal vento, e sfortunati collemboli che sono giunti fino a simili recessi inospitali del territorio. Il che fa effettivamente del piccolo predatore il più aggressivo e vorace essere nel suo territorio d’elezione, ove ben pochi altri potrebbero riuscire ad adattarsi efficacemente. Eppure come dicevamo, il drago della Patagonia è una creatura estremamente selettiva, capace di raggiungere l’età della riproduzione soltanto se la temperatura si trova tra i -10 e zero gradi, al di sopra dei quali inizia ad avere difficoltà a nutrirsi, quindi deperisce ed infine va incontro ad un’irrimediabile dipartita. Così come si riteneva fosse capitato alla stragrande maggioranza della sua specie, causa il mutamento climatico e conseguente ridursi del territorio utile di Uppsala soprattutto a partire dall’ultimo ventennio, finché popolazioni numerose del nostro amico non furono scovate coerentemente in altri luoghi elevati e gelidi in territorio cileno, tra cui la formazione glaciale di 250 Km quadrati del ghiacciaio Perito Moreno, una delle poche riserve di ghiaccio capaci di mantenere la propria estensione attraverso il turbolento e mutevole progredire delle decadi odierne. Essendo destinati a diventare, molto inaspettatamente, un’importante attrazione turistica locale…

L’orrore, come sappiamo, è meramente una questione di proporzioni. È non è difficile capire l’origine del nome comune di questo insetto se lo si immagina alle proporzioni di un originale sovrano sputafuoco dei ponderosi bestiari medievali.

L’importanza nell’analisi ecologica dei plecotteri non può d’altronde essere sopravvalutata, vista la loro abitudine a concentrarsi unicamente presso territori, spesse volte acquatici, ragionevolmente liberi dal giogo tragico dell’inquinamento. Una qualità ulteriormente valorizzata, nel caso specifico, dalla distanza di alcun insediamento umano, senz’altro rilevante nella conservazione immutata di questi veri e propri fossili viventi, estremamente caratteristici all’interno della propria zona geografica di provenienza. L’A. willinki dunque, e per estensione la specie cognata e meno diffusa dell’A. morenensis furono sospettati di aver seguito la stessa strada d’innumerevoli altri fossili viventi all’inizio del secolo, fin quando i racconti delle guide turistiche operative nel settore dei grandi ghiacciai della Patagonia non suscitarono l’interesse del mondo accademico, giustificando più di una spedizione utile a studiare più approfonditamente la scoperta originaria del collega Willink. Per la pubblicazione consequenziale di una serie di studi dal variabile livello di tecnicismi, tra cui i più accessibili e diffusi risultano essere senz’altro quelli prodotti a partire dal 2015 dallo studioso d’insetti messicano Isaí Madriz, diventato per la stampa internazionale l’unico vero portavoce e simbolo di questo mondo antico e lungamente dimenticato. Per aver non soltanto chiarito e riconfermato le caratteristiche già note del piccolo Drago, ma effettivamente scoperto nuovi tratti precedentemente soltanto sospettati di questa notevole creatura, tra cui l’abitudine a deporre uova con dentro dei piccoli già perfettamente formati, nelle parole utilizzati dallo studioso dei “letterali piccoli gamberi” che attendono ansiosamente il momento della loro schiusa. Immaginate inoltre la sorpresa di costui al momento in cui, procedendo a bollire in acqua calda per 10-15 minuti alcuni esemplari da preservare e consegnare a importanti istituzioni scientifiche, ne vide uno muoversi e tentare agilmente la fuga, lasciando sospettare una resistenza al calore estremo, per lo meno per tempistiche relativamente brevi, paragonabile a quella del sopracitato microrganismo attestato nello spazio esterno, l’invincibile tardigrado delle aliene circostanze. Il che posiziona, idealmente, questa tipologia d’insetti nello spazio intermedio tra creature più complesse ed invertebrati capaci di sopravvivere persino all’impatto di un meteorite, costituendo a tutti gli effetti una delle possibili origini della vita sulla Terra.
Per quanto concerne nel frattempo la più estensiva e duratura resistenza al freddo esibita da queste creature, Isaí Madriz si è fatto sostenitore con alcuni dei dati da lui raccolti della vecchia ipotesi secondo cui gli insetti del genere Andiperla potrebbero vantare all’interno della propria emolinfa (il “sangue” di creature tanto piccole) un generoso apporto di glicerolo, con funzioni naturali di antigelo non dissimile da quello usato nei veicoli costruiti dagli esseri umani. All’interno di un organismo niente affatto privo di eccezionali gradi di complessità, vedi il possesso di una vera e propria flora batterica del sistema digerente, capace di assisterlo nella digestione degli ostici polisaccaridi inclusi nella parte vegetale della sua dieta. Un altro mutualismo particolarmente ingegnoso, reso possibile dal notevole spirito d’iniziativa biologica dell’evoluzione.

La ricerca della mosca dei ghiacci è oggi una pratica largamente agevolata dalle guide turistiche della Patagonia, vista la relativa comunità di tale essere all’interno del suo areale di appartenenza (purché si sappia dove guardare). Ciononostante, vista la limitazione di quest’ultimo, entrambe le specie conosciute verrebbero considerate idealmente meritevoli di protezione legale.

Capace di respirare anche sott’acqua grazie alla presenza di vere e proprie branchie nella parte posteriore dell’addome, il draghetto della Patagonia si spinge tuttavia raramente lontano dai suoi ghiacciai d’origine, comparendo soltanto occasionalmente nell’ambiente di alcuni laghi pre-andini. Dove d’altra parte perde pressoché immediatamente il proprio diritto esistenziale al predominio, ritrovandosi all’interno di una nicchia dove abbondano creature più forti, imponenti e voraci di lui. Un’ampia giustificazione, se pure fosse necessaria, nei confronti della sua indole eremita e il desiderio a vivere in solitudine lassù, dove nessun vertebrato ha mai deciso di soggiornare.
L’oscura perdizione di qualcuno, come ben sapete, è spesso il tesoro di qualcun altro. E non vai mai esclusa l’ipotesi cupamente nota, secondo cui un giorno il nostro mondo potrebbe precipitare per un’ampia gamma di ragioni al di fuori della ristretta “zona Riccioli d’Oro” (non troppo calda, né troppo fredda) in cui è possibile la sopravvivenza senza meccanismi di sostentamento artificiali dell’intera genìa umana. Così che il mondo tornerà nelle sapienti mani dei tardigradi, che un tempo tanto saggiamente l’avevano dominato. Togliendo tutto, o quasi, ciò che resta è soltanto l’imperturbabile anelito alla sopravvivenza. Che raramente può permettere, per sua esplicita definizione, il ripetersi degli stessi errori.

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