Il mercato futuribile di una sgommata che perpetra se stessa

Seduto rigido sopra il sedile, il pilota creativo affronta il rally col tenore di una sola pennellata: al termine di ciascun tratto rettilineo, quando giunge l’attimo cruciale della svolta, gira il suo volante “appena il giusto” affidandosi all’intuito del momento. Egli può esser abile, se vanta un certo grado d’esperienza, ma ogni sfida può della sua carriera è inerentemente soggetta ad influenze esterne: sta piovendo? Quanto sono consumate le sue gomme? C’è uno spettatore sull’interno della problematica banchina? Gli imprevisti che persistono, possono portarlo ad un errore. Mentre la sua controparte, per così dire, scientifica, può essere considerata ben diversa. Perché giunge a un tale gesto sopra le ali di una precedente Conoscenza; il senso esatto, frutto di precisi calcoli, di quanto sia possibile spingersi oltre, piuttosto che frenare con un’enfasi frutto di calcoli profondi. Il pilota razionale: ciò che tutti aspirano a poter infine diventare, se riescono a durare sufficientemente a lungo nei recessi impegnativi di quel mondo. Che è poi anche il NOSTRO mondo, se soltanto ci pensi: poiché questo è quello che succede, specialmente in inverno, quando l’aderenza delle ruote si trasforma in un fattore ormai facoltativo. Per l’effetto di quel ghiaccio, oppur la pioggia assieme al vento, l’auto si trasforma in un proiettile fuori controllo destinato all’autodistruzione.
Attimi, momenti dal profondo dramma dell’introspezione. E non sono molti, tra gli autisti del comune quotidiano, a potersi dir capaci di restare calmi in tali circostanze, affidandosi a un principio di ragionamento. Il che potrebbe relativamente presto, d’altra parte, cambiare: già perché per quanto ne sappiamo, da qui a 20-30 anni, le strade potrebbero trovarsi popolate di una nuova stirpe di piloti. Senza volto e senza corpo, a meno che per “corpo” non s’intenda il mezzo stesso di metallo dentro cui si trovano gli umani stessi. Ed è questa, per l’appunto, la domanda che hanno scelto di porsi J. Christian Gerdes e i suoi studenti del Dipartimento di Progettazione Dinamica dell’Università di Stanford, con la creazione a partire dal 2015 di un nuovo tipo di veicolo, chiamato niente meno che Multiple Actuator Research Test bed for Yaw control (o MARTY) data la passione duplice di questo professore per gli acronimi e una certa serie di film iniziata negli anni ’80. I più attenti tra voi avranno infatti già notato come il mezzo in questione abbia l’aspetto esteriore di niente meno che una DMC DeLorean l’iconica (terribile) automobile frutto del desiderio d’innovazione dell’ex direttore del marketing di varie importanti compagnie motoristiche statunitensi John Zachary D, successivamente trasformatosi nel promotore del più disallineato parto della sua mente: un’auto dall’aspetto sportivo che era tutto, fuorché sportiva. A meno prima che scienziati più o meno sani di mente, provenienti dalle regioni maggiormente irriverenti del cinema di genere, riuscissero a trasformarla in una piattaforma straordinariamente solida del sogno umano di viaggiare nel tempo. E chi l’avrebbe mai detto, sul finire esatto del 2019, che un simile proposito potesse tornare nuovamente rilevante…

Nello stile comunicativo di Stanford a margine di quest’idea, possiamo chiaramente individuare anche un’intento collaterale di tipo pubblicitario e di marketing, come esemplificato tra gli altri aspetti dalla t-shirt a tema vintage qui portata orgogliosamente da Jonathan Goh.

La notizia, recentemente riportata da innumerevoli siti di web di tutto il mondo, trae l’origine dalla pubblicazione sul finire di novembre del secondo e più dettagliato studio frutto di questa ricerca, in realtà finalizzata a incrementare la sicurezza delle incipienti automobili a guida automatica che sempre più spesso vengono fatte circolare sulle strade ordinate della Silicon Valley. Veicoli i quali, se davvero riusciranno un giorno a prender piede, dovranno effettivamente affrontare un’ampio ventaglio di possibili imprevisti, incluso il successivo passaggio da uno stato di guida per così dire “normale” allo slittamento accidentale, che poi altro non sarebbe che l’occorrenza indesiderabile di un processo di drifting (slittamento). L’idea frutto del progetto di ricerca firmato da Chris Gerdes e il suo braccio destro Jonathan Y. Goh, studente PhD con lavori nel campo dell’automotive, la robotica, il controllo della traiettoria e la dinamica veicolare, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, vorrebbe dunque costituire un sincero tentativo d’incrementare la sicurezza di tali futuribili circostanze, importando direttamente dal mondo dei calcoli rallistici un certo tipo di razionale impiego del volante e i pedali di controllo, fino all’eliminazione di ogni fattore imprevisto, persino durante le situazioni d’emergenza. Il che avrebbe comportato, fin dalle primissime battute di quel proposito, la trasformazione dell’automobile in questione in qualcosa di sostanzialmente diverso, proprio perché la DeLorean in quanto tale può essere detta il veicolo più lontano immaginabile da un’auto capace di effettuare una valida serie di sgommate. Ecco dunque il primo capitolo di modifiche, basate tanto per cominciare sull’integrazione di un motore elettrico di potenza non specificata fornito dall’azienda collaboratrice Renovo, oltre ad una completa sostituzione del sistema di sospensioni al fine di garantire una migliore tenuta di strada, ed infine l’aggiunta di una rollbar integrata nella carrozzeria, non soltanto per proteggere i passeggeri ma anche al fine d’incrementare la rigidità veicolare dell’auto. Il tutto fino al raggiungimento, già un paio d’anni a questa parte, dello stato ideale per l’aggiunta del misterioso sistema di controllo in grado di permettere all’auto di fare drifting, a quanto pare basato su una coppia di antenne GPS estremamente precise e (possiamo presumere) una lunga serie di accelerometri ed altri sensori di movimento. Il che ci porta alla grande novità di queste scorse settimane, ovvero il video in cui l’auto MARTY viene mostrata impegnata nell’affrontare il percorso di guerra chiamato (con fantasia, ammettiamolo pure, latente) per l’appunto MARTYkhana, dal nome della moderna specialità di evoluzioni e virtuosismi di tipo rallistico chiamata, per l’appunto, Gymkhana. E di un vero e proprio spettacolo si tratta, anche grazie alle vertiginose riprese via drone, mentre l’auto con i due studenti a bordo s’insinua sicura attraverso una pletora di coni da parcheggio, compiendo sgommate e traslazioni al limite del possibile, con l’assoluta sicurezza che può derivare soltanto dai calcoli di un computer. E cosa non da poco, giungendo persino a ricever l’encomio di un paio di piloti specializzati in tale disciplina, pronti ad ammettere in maniera implicita la maniera in cui difficilmente un umano avrebbe potuto affrontare tale percorso e dominarlo a quel modo senza una lunga serie di tentativi falliti.

L’aspetto notevole della ricerca di certe grandi società statunitensi è la capacità di mettere a frutto la collaborazione con il settore privato, spesso senza badare a spese verso l’ottenimento di un prezioso obiettivo finale. Anche quando, come in questo caso, l’applicazione commerciale appare quanto mai distante.

Cosa gli scienziati di Stanford siano quindi riusciti ad ottenere, oltre a un magnifico video virale per Internet, resta ad oggi precluso a noi “comuni” mortali. Per il semplice fatto che, come spesso avviene per simili studi scientifici dal potenziale valore d’investimento, la lettura delle loro pubblicazioni resta ad oggi nascosta dietro il (relativamente) invalicabile paywall dei portali di divulgazione scientifica, evoluzione ad accesso ristretto delle antiche, forse più democratiche riviste di scienza. Mentre spazio notevole è stato dedicato alla promozione collaterale del progetto (“Facciamo ricerca con stile” è uno slogan ricorrente) ed il futuro, sperato confronto su pista con un esecutore umano degli stessi propositi veicolari di bruciar gomma. Mancava poco facessero il nome di Ken Block!
Perché d’altra parte l’avanzamento della tecnologia è solito portare, assieme a innumerevoli vantaggi, qualche ostacolo “situazionale” che occorre abituarsi ad ignorare mentre si passa oltre, verso l’ottenimento della preziosa gemma che si nasconde alla fine del Labirinto. Come fatto da Emmet “Doc” Brown, il canuto pazzoide pronto a bruciare l’asfalto pur di partire verso gli abissi crono-temporali delle epoche relativamente trascorse o future. O i costruttori ipotetici di quell’entusiasmante skateboard situato a 30 cm da terra che siamo tutti, ancora oggi, qui ad aspettare… Ma la nostra pazienza ha un limite. Stanford? Non hai niente da dire, sull’argomento?

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