Le turbine a gas che ritenevano di poter vincere la 24 ore di Le Mans

Nell’approccio alle operazioni finanziarie comunemente definito Top-Down Economy, l’investitore osserva la situazione generale per fare le sue scelte in base ai trend di tipo trasversale, piuttosto che prendere in considerazione la condizione dei singoli titoli o il successo e l’insuccesso delle aziende. Ciò potrebbe portarlo, nello specifico, ad acquistare solamente titoli ad alto rischio, mancando d’inserire nel suo portafoglio la “base solida” di obbligazioni, fondi o simili strumenti di supporto… Ossia decidere di spingere a fondo ogni qualvolta sembri di essere su un rettilineo, piuttosto che considerare l’approccio ragionevole che può venire dal naturale pessimismo umano. E se dovessimo pensare a quei piloti, nella storia dell’automobilismo competitivo, che sembrerebbero aver vissuto la propria intera carriera su di un presupposto simile, sarebbe difficile non dare spazio al nome americano di Ray Heppenstall, colui che nel 1968 sembrò decidere che se il turbo era abbastanza grande, non c’era semplicemente alcun bisogno di altre componenti del motore! Accendendo (letteralmente) quella serie di processi mentali e operativi che lo avrebbero portato, entro la fine di quei campionati di gare sanzionati dalla SCCA e FIA, al volante della Howmet TX (Turbine eXperimental) una macchina capace di ululare come un lupo alla ricerca del suo branco… Mentre si appresta a sorpassare i suoi rivali, senza neanche l’ombra di un cambio di marcia.
Spesso citata nei repertori antologici come uno veicoli più distintivi della sua Era, questa è stata l’automobile, più d’ogni altra, ad aver dimostrato che comprimere ed espandere dei fluidi all’interno del ciclo di Joule-Brayton poteva costituire una metodologia valida, oltre che nella motorizzazione aeronautica, anche alla creazione di sistemi per lo spostamento stradale. Rappresentando, nei fatti, l’unica rappresentante della sua categoria ad aver mai vinto una gara ufficiale (anzi, due) prima di doversi arrendere al flusso irrimediabilmente convenzionale della storia tecnologica a quattro ruote. E progettata con un certo senso di affinità al regno delle cose che volano nei Cieli, in un certo senso, lo era sempre stata, vista la provenienza dei suoi due motori, presi in prestito direttamente dal progetto per un elicottero militare della Continental Aviation & Engineering, poco dopo che l’appalto venisse inaspettatamente spostato altrove. Il che, naturalmente, non sarebbe certo bastato per aprire la pista ad un simile progetto rivoluzionario, se l’ideatore Heppenstall non avesse potuto disporre, in aggiunta alla sua mente visionaria, di almeno un paio di conoscenze nei luoghi giusti: primo, il vecchio amico Tom Fleming, parte del consiglio di amministrazione dell’eponima compagnia metallurgica Howmet, in grado di convincere il suo capo che la sponsorizzazione di un team automobilistico avrebbe potuto costituire, in quel momento, una mossa scaltra nel panorama competitivo del marketing di quel settore. E secondo, il costruttore e carrozziere Bob McKee della McKee Engineering di Palentine, Illinois, uno dei pochi tecnici che avrebbero potuto dare forma (ed un volante, pneumatici…) al suo strano sogno, benché non fosse mai stato in effetti totalmente privo di precedenti. Già il manager del team STP Andy Granatelli aveva provato in effetti, nel 1967, a far competere nell’Indy 500 un veicolo spinto unicamente da un grande turbo, così come la Lotus 56, all’inizio del ’68, era scesa in campo nella stessa gara per il tramite del progettista Maurice Philippe. Anche la Chrysler, nel frattempo, aveva iniziato pochi anni prima a dare in leasing temporaneo esemplari della propria rivoluzionaria Turbine Car. I quali tuttavia mancarono di fare breccia nell’interesse del grande pubblico, così come le controparti competitive, per una ragione o per l’altra, mancarono sempre di riuscire a vincere le proprie gare. Ma le cose, apparve chiaro fin da subito, stavano finalmente per cambiare…

La carrozzeria della Howmet, pur essendo estremamente rappresentativa delle auto da competizione di quegli anni, presenta alcuni tratti distintivi che nacquero, probabilmente, dal confronto tra Heppenstall e McKee. Vedi l’interessante cofano, eccezionalmente arcuato, e la parte posteriore costituita unicamente da una grande griglia di raffreddamento per il motore.

La Howmet TX venne necessariamente concepita per partecipare alle gare del Gruppo 6, la nuova categoria per i prototipi senza una quantità minima di esemplari prodotti, nonostante proprio quell’anno fosse stato introdotto il limite di tre litri di capienza per il motore, decisamente inferiore alla portata delle sue turbine di provenienza elicotteristica. Ciò in quanto gli organizzatori delle due principali leghe automobilistiche del tempo, in considerazione della natura non-convenzionale delle stesse e la potenza che risultavano effettivamente capaci di generare, le giudicarono perfettamente in linea con la concorrenza, volendo probabilmente favorire il senso di spettacolo offerto dai rispettivi eventi. E sotto questo punto di vista, effettivamente, la Howmet non deludeva: coi suoi 350 cavalli erogati in maniera perfettamente continua esattamente come un’auto elettrica, in assenza di alcun tipo di cesure tra un rapporto e quello successivo, accompagnati da un suono che non si era mai sentito sulle piste di quell’epoca, o le successive. Heppenstall ne aveva fatti costruire da McKee due esemplari, dopo aver tentato senza grande successo di adattare lo chassis di una Cooper Monaco, ciascuno del peso unitario di circa una tonnellata esatta, anche grazie alla natura compatta e relativamente semplice delle turbine Continental (modello TS325-1), situate nel punto centrale del veicolo ed utilizzate per azionare le due ruote posteriori, raggiungendo una velocità di rotazione di 57.000 rpm. Ragion per cui il veicolo, spinto da carburante per Jet di tipo A, impiegava un riduttore di velocità all’interno della propria trasmissione, assieme a un’espediente particolarmente caratteristico: la presenza di una grande valvola di sfogo della pressione (o wastegate) collocata tra i due impressionanti tubi di scarico retroattivi e che si sarebbe aperta o chiusa in base alla pressione dell’acceleratore, lasciando quindi sempre le turbine ad un regime minimo dell’80%. Tutto questo per ridurre, o addirittura cancellare del tutto, il caratteristico ritardo nell’aumento di regime di una simile tipologia di motori, giudicato totalmente inaccettabile durante l’impiego in pista. E che impiego, sarebbe stato…
Il primo exploit della Howmet TX, durante la 24 ore di Daytona destinata ad aprire il Campionato Internazionale del 1968, fu purtroppo deludente: al giro 34 infatti, la valvola wastegate si guastò mancando d’aprirsi, portando l’auto a schiantarsi contro le barriere di protezione, per fortuna senza conseguenze per il pilota di maggior fama del team, Dick Thompson. La successiva 12 ore di Sebring non andò meglio, con un ritiro a metà gara per il malfunzionamento di una delle turbine, che aveva risucchiato dei detriti dal bordo della pista. Le successive due gare in Inghilterra videro un ripetersi di questi stessi problemi, benché la squadra continuasse ad ottenere buone classificazioni, prima di fallire amaramente a causa della bassa affidabilità del mezzo. Le cose cambiarono decisamente una volta tornati negli Stati Uniti, dopo una completa revisione dell’impianto motoristico e di contorno: la Howmet fu capace infatti di trionfare all’evento Heart of Dixie di Huntsville, Alabama e poi di nuovo alla Marlboro 300, con un margine notevole di 11 giri! Quest’ultima fu dunque non soltanto la prima vittoria di portata internazionale di un veicolo a turbina, ma anche la prova indiscutibile che tale approccio alla progettazione dei motori avrebbe potuto, in un contesto di storia alternativa, dominare lo scenario delle gare così come era successo, invece, per il convenzionale motore a combustione.

Uno dei migliori video della Howmet disponibili online mostra una abile pilota (con una sola mano!) a Monza alle prese con uno dei due esemplari originali, riveduto a corretto sulla base delle necessità di sicurezza attuali. Un evento realizzato con il patrocinio famoso Godwood Festival of Speed inglese.

Dopo i successi ottenuti in patria, tuttavia, Heppenstall decise di tornare in Europa, per partecipare a quella che potremmo definire come la singola gara più importante di quel periodo: la celebre 24 di Le Mans. Era ormai settembre del ’68 ed entrambe le Howmet si trovavano nel loro stato di progettazione migliorato, senza nessun tipo di difetti che potessero portare a brutte sorprese. Tuttavia, causa il basso tetto massimo dei cavalli erogati dal loro motore, esse non riuscirono ad essere competitive contro gli altri partecipanti della loro stessa categoria, portando la più lenta ad essere squalificata entro il sessantesimo giro. Mentre l’altro esemplare, guidato da un Dick Thompson al limite estremo della sua abilità di pilota, finì per andare fuori strada alla curva di Indianapolis, ponendo fine in questo modo al sogno di Heppenstall.
Data la performance soltanto parzialmente soddisfacente, la Howmet decise a questo punto di porre fine al costoso progetto, tagliando i finanziamenti necessari per mantenere in pista l’eccezionale veicolo venuto dal futuro. Le turbine vennero quindi restituite alla Continental e le due auto rimaste prive di motore vendute al prezzo simbolico di un dollaro a Heppenstall, ma non prima che quest’ultimo potesse utilizzarle, un’ultima volta, per infrangere tutti i record di velocità precedentemente fissati per le automobili con turbine a gas. Le due TX quindi, più volte passate di mano in mano all’interno di alcune delle più prestigiose collezioni al mondo, compaiono tutt’ora saltuariamente negli eventi, grazie alla sostituzione dei propri motori originali con delle turbine quasi-equivalenti della Allison, la cui differenza maggiore, la presa d’aria situata in alto piuttosto che dietro, avrebbe richiesto alcune significative modifiche alla carrozzeria. Ma nessuna in termini di prestazioni, nella coerente dimostrazione di quello che oggi avremmo potuto avere, se soltanto la storia avesse preso un corso differente. E se considerazioni di natura economica sull’immediato ritorno d’investimento non avessero condizionato, come spesso capita, l’insostituibile visione del quadro d’insieme.

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