Quando è successo? Quando abbiamo perso ogni contatto con l’armonia stradale del vento? Basta misurare un’automobile sportiva dei nostri giorni, per trovarsi dinnanzi a ogni sorta di forma concepita per tagliare l’aria e incrementare la portanza, linee strette, angolari, forme dall’aspetto grintoso e “cattivo”. Perduta è l’antica cognizione ereditata dall’industria aerodinamica degli albori, per cui l’equilibrio delicato di peso, potenza e tenuta di strada doveva trovarsi assistito da una forma naturalmente capace di deviare l’ingombrante massa di gas respirabili che da tempo immemore compongono la nostra atmosfera. Laddove la potenza raggiungibile da un motore appare virtualmente illimitata, mentre l’impiego dei nuovi materiali compositi e la fibra di carbonio mantiene il peso delle super-macchine ben al di sotto della tonnellata, tutto quello che si chiede a un carrozziere fuori dalla logica competitiva è l’estetica prima della funzione, o al limite, una forma che non possa compromettere la portanza. E anche in quel caso, i risultati possono variare: dopo tutto, se l’F-14 Tomcat ci ha insegnato qualcosa, è che un’ala mobile da sollevare nei momenti critici (nel nostro caso, le curve) può ottenere risultati migliori di centinaia di ore trascorse ad ottimizzare i punti di fuga intrinseci di un veicolo a motore. Ma è strana la maniera in cui, proprio un simile percorso d’ottimizzazione, abbia condotto la ricerca ingegneristica verso una singola possibile conclusione. Mentre le prototipiche differenze tra le filosofie progettuali dei diversi marchi dell’automobilismo internazionale, come Porsche, Ferrari o Lamborghini, tendono progressivamente a scomparire, in favore di una visione dell’automobile “ideale” che non può che diventare al tempo stesso, proprio per questo, inerentemente anonima e “banale”.
Guardando indietro, c’è stato un tempo e un luogo in cui la tecnica dello streamlining sembrava dominare sopra ogni altra concezione della carrozzeria automobilistica, collocato essenzialmente negli Stati Uniti della metà degli anni ’30. Quando il successo ottenuto dalle macchine volanti dopo il termine della grande guerra, unito al desiderio di conservare carburante vista l’incombenza della più grande crisi finanziaria fin lì conosciuta dalla civiltà industriale, aveva trasformato i carrozzieri in vere e proprie star dell’industria veicolare, spesso ricercati ancor più degli ingegneri che dovevano occuparsi di progettare il motore. Riguardando alle automobili di lusso americane in quegli anni, destinate a lasciare un segno indelebile nello stile e l’estetica di tutto il continente, è impossibile non notare l’elevata quantità di cofani bombati, pinne verticali, parti posteriori che si allungano come la coda di una rondine e appariscenti parafanghi sopra ciascuna ruota, simili a ornamenti di un elmo egizio della Prima o Seconda Dinastia. Giunse quindi sul terreno sacro d’Indianapolis, la grande pista di mattoni presso cui era stato riprodotto per questi lidi, soltanto due decadi prima, il concetto stesso di competizione motoristica sul modello europeo, il meccanico di discendenza tedesca Fred H. Offenhauser Jr, col suo concetto di un propulsore destinato al soprannome di “Offy”. La cui potenza precedentemente ritenuta irraggiungibile (fino a 420 cavalli nei modelli da competizione) avrebbe cambiato, in maniera pressoché totale, le regole stesse di questo folle ed entusiasmante gioco.
Anno 1939: le ambizioni espansionistiche dei maggiori regimi europei raggiungono lo stato di criticità lungamente temuto, incendiando il mondo in una mezza decade di follia collettiva, che sarebbe costata la vita a letterali milioni di persone. L’attività soddisfacente delle gare a motori subisce un sostanziale arresto, subordinato alle esigenze ingegneristiche e di materiali dell’economia continuativa di guerra. Persino nei possenti Stati Uniti, dopo l’attacco fulmineo di Pearl Harbor, la prestigiosa corsa di Indianapolis 500 subisce uno stato di totale arresto, destinato a durare fino al 1945. Il mondo che riemerge dal profondo caos appare quindi totalmente cambiato, persino nel suo rapporto con il ruolo che si era disposti ad assegnare alla natura stessa. Un qualcosa che certamente seppe interpretare e comprendere Lewis Henry ‘Lou’ Moore, l’ex-pilota californiano d’adozione tra le due guerre, che a partire dal 1936 aveva trasferito i suoi interessi nella gestione di quello che avrebbe potuto definirsi il concetto ante-litteram di una scuderia di gara. Strettamente interconnesso, come ogni altra figura dell’automobilismo contestuale, all’impiego fruttuoso dei possenti motori Offenhauser, ma con una letterale marcia in più: l’aiuto del carrozziere ed amico di vecchia data Emil Diedt, una figura il cui cognome, se fosse stato dal giusto lato dell’Atlantico, sarebbe forse diventato celebre come Giugiaro, Pininfarina o Bertone. Ora in questo articolo non parleremo delle due celebri Blue Crown Spark Plug, i fulmini della pista a forma di sigaro che nel 1947 e ’48 ottennero per due volte di seguito, per la prima volta nella storia, il primo e secondo posto della leggendaria Indy 500, al volante rispettivamente di Mauri Rose e Bill Holland. Né degli speciali accorgimenti impiegati da Diedt, che avevano incluso miglioramenti alla linea aerodinamica e un più ampio uso dell’alluminio nei loro bolidi color cobalto, esteso per la prima volta anche ai serbatoi della benzina e dell’olio. Bensì dal comparabilmente meno celebre, per quanto straordinario a vedersi, volo pindarico compiuto da quest’ultimo, nella sua impresa di carriera immediatamente successiva, per la produzione di un’innovativa hot rod (automobile fuoriserie fortemente personalizzata) commissionata dall’ingegnere aeronautico Norman Timbs.
Nota: nel segmento televisivo di inizio articolo, il baffuto Dennis di My Classic Cars mostra le caratteristiche della Timbs Special assieme a quelle di una notevole Hudson Italia del 1954, entrambi facenti parte della collezione di Gary Cerveny.
Emil Diedt, ma anche il Sig. Timbs, dovevano possedere un’indole piuttosto nostalgica, come possiamo facilmente desumere da quello che sarebbe passato alla storia come il loro contributo collaborativo al concetto stesso d’automobile sportiva. Lo stesso committente, di cui non sappiamo moltissimo tranne il fatto che aveva lavorato anche lui nel campo delle competizioni a Indianapolis, per il produttore di veicoli personalizzati Preston Tucker. Lasciato il lavoro operativo quindi, aveva sviluppato una sua particolare visione per il futuro, e un relativo modello a scala 1/4 nel suo garage. L’oggetto, successivamente andato perduto, era una struttura in legno che mostrava chiaramente l’influenza dell’automobilismo ante-guerra, con linee dolci e affusolate evocative di modelli leggendari come la Mercedes-Benz W25 Avus o l’Auto Union Type C. Essa mostrava tuttavia già in quello stato primordiale, elementi e preferenze assolutamente prive di precedenti, come un compartimento per il motore posizionato al centro e dalla forma straordinariamente allungata, mentre la parte anteriore dell’auto, corta e arrotondata ma dotata di griglia del radiatore rigorosamente cromata, assomigliava al muso caricaturale di un veicolo dei cartoons. Lo spazio per guidatore e passeggero, d’altra parte, appariva ridotto fino all’improbabile, mentre come avveniva ancora in quell’epoca, mancava del tutto anche l’accenno di “accessori superflui” come sportelli, specchietti retrovisori o altre simili amenità. Nella ricerca della massima riduzione del peso, il clacson avrebbe in seguito sfruttato la soluzione avveniristica di un serbatoio dell’aria ricavato nei tubi cavi dello stesso chassis del veicolo, il che bastava a donargli un suono particolarmente insolito e riconoscibile. L’automobile era alta pochi centimetri meno di un metro, parabrezza escluso, ad ulteriore dimostrazione di quale fosse la primaria finalità del suo costruttore: catturare e instradare secondo il suo bisogno il più fugace e intangibile degli elementi, ovvero l’aria.
Quando Diedt, che aveva già lavorato nel campo molto remunerativo della produzione di hot-rods, venne contattato nel 1948 per assisterlo plasmando l’alluminio sulla base del modello dei sogni, i due lavorarono assieme per risolvere gli ultimi “dettagli” procedurali. Il serbatoio avrebbe trovato posto tra le ruote anteriori, mentre il motore dalle dimensioni e prestazioni ideali fu individuato nel nuovo modello di Buick Straight 8, un potente impianto in linea dotato di 4.066 cc. I fanalini di coda, invece, sarebbero provenuti da una Ford del ’39 mentre l’automobile avrebbe ricevuto l’attuale livrea di un appariscente colore rosso. Secondo gli articoli pubblicati all’epoca su diverse riviste di settore, il costo complessivo dell’automobile avrebbe raggiunto i 10.000 dollari, una cifra non propriamente indifferente una volta considerata l’inflazione. L’obiettivo di tutto questo? Difficile dirlo. Forse Timbs sognava di rivoluzionare l’industria automobilistica, come il celebre ingegnere delle cupole geodesiche Buckminster Fuller, produttore della pseudo-cosmica Dymaxion Car. Oppure voleva semplicemente un bolide capace di far voltare più di qualche testa al suo passaggio, trasformandolo nell’anima di qualsiasi festa tra amici. Fatto sta che soltanto 6 anni dopo l’automobile fu venduta all’ufficiale delle Forze Aeree Jim Davis di Manhattan Beach, che dopo averla registrata per farla circolare su strada, finì per ridipingerla di bianco e collocarla nel suo vasto terreno appena fuori Los Angeles, dove restò esposta per decadi all’aria corrosiva del vasto deserto americano.
La fama dell’insolito veicolo, tuttavia, non era certo destinata a spegnersi, anche grazie alle brevi partecipazioni a margine dell’omni-pervasiva e tentacolare industria di Hollywood: una in un episodio della serie fantascientifica Buck Rogers e forse quella rimasta più famosa tra svariate dozzine di altri pezzi unici, nel film con Nicholas Cage del 2000, Fuori in 60 Secondi. Nonostante questo, quando nel 2002 la fuoriserie fu finalmente messa all’asta presso il Museo delle Auto Classiche di Peterson, le condizioni non propriamente eccelse contribuirono a fargli attribuire un prezzo finale di appena 17.600 dollari, a vantaggio del fortunato collezionista Gary Cerveny, che dopo aver tentato per qualche anno di restaurarla da se, finì per rivolgersi a tal fine alla prestigiosa officina Custom Auto di Loveland, Colorado. Che oltre a ripristinare ogni dettaglio usando per quanto possibile parti originali dell’epoca, suggerì una trovata davvero stravagante: mescolare alla vernice rossa della vera polvere d’oro puro, capace di donare all’automobile un aspetto scintillante davvero degno di essere menzionato.
Ferrari, Porsche, Lamborghini: quanto potere permane in un semplice nome. Di produttori notoriamente eccelsi, le cui automobili, per quanto rare e costose, fanno pur sempre parte di una “serie” ed in funzione di questo, pervadono il mercato del lusso attraverso i confini delle nazioni. Strano è questo mondo dei motori! In cui un pezzo unico, a meno che sia stato posseduto da una persona famosa, può valere anche meno di una berlinetta full-optional di grande cilindrata. Forse perché tutto ciò che appartiene a un tale universo pragmatico, per qualche motivo, viene ancora considerato lontano dal mondo formale dell’arte. Ma è davvero possibile chiudere, nei confronti di un’intero ambito dell’ingegno umano, le porte esclusive del prestigio accademico e il riconoscimento ulteriore della creatività?