Hawaii: la rinascita della palude dalle mille piante appiccicose

Alcuni film hanno una scena particolarmente memorabile, che non è né quella più costosa, lunga, articolata o importante per la storia. Ma una semplice sequenza di collegamento tra un passaggio e l’altro, capace di restare impressa per le particolare soluzioni registiche, il montaggio o in maniera ancor più semplice e diretta, lo scenario sullo sfondo dell’inquadratura, scelto con sapienza per incrementare il senso di scala della narrazione. Come nel momento in cui, verso l’inizio del grande successo degli anni ’90 Jurassic Park, l’elicottero con i protagonisti sorvola l’isola dove sono stati ricreati i dinosauri, tra montagne a strapiombo, vertiginose cascate ed alberi disseminati da ogni dove. Un luogo che realmente può essere visitato ancora oggi, contrariamente alle incredibili creature preistoriche costruite grazie alla computer graphic per il film, trovandosi nei fatti entro i confini dell’isola di Kauai, quella geologicamente più antica nell’intero arcipelago del Pacifico che fu teatro del più grande attacco dei giapponesi contro gli Stati Uniti, all’apice della seconda guerra mondiale.
Tra irte pendici e maestose barriere naturali oltre le quali, a conti fatti, l’ambiente ha risentito anche nel mondo reale di poco accorte manipolazioni umane, o per essere ancor più specifici, l’incidentale liberazione di creature che in nessun modo dovrebbero appartenere a questo tempo o luogo: grufolanti, ruzzanti, scavatori, mangiatori/defecatori e qualche volta ferocemente territoriali suini rinselvatichiti, il cui nome operativo è Distruzione, almeno per quanto concerne il cosiddetto “rapporto armonioso con la natura” che in circostanze ragionevoli, dovrebbe far parte del più profondo essere di tutti gli animali. Il che sarebbe forse un problema meno grave per così selvaggi e imprendibili recessi, se non fosse per il singolare tesoro paesaggistico nascosto all’ombra delle montagne, in un particolare bioma (o habitat che dir si voglia) che risulta totalmente unico tra queste terre, nonché raro anche nel mondo in generale. Chiamato dai nativi, sin da tempo immemore, palude di Kanaele: una distesa di acquitrini integralmente ricoperta di vegetazione rigogliosa, con molte piante più uniche che rare, proprio in funzione della sua particolare collocazione nel mezzo dell’oceano e ad un’altitudine sul mare particolarmente bassa, contrariamente a luoghi simili nel resto dell’arcipelago rilevante. Incontaminato e memorabile rimando ad epoche dimenticate, almeno fino a qualche decade fa quando, inevitabilmente, venne invaso da due fattori altamente problematici, il primo dei quali, ovviamente, furono i maiali. Ed il secondo, invece, di natura vegetale: mi sto riferendo alla terribile ciliegia o mirto di Guava (Psidium cattleyanum) alberello di 2-6 metri appena capace di diffondersi a macchia d’olio grazie allo spargimento dei suoi semi da parte di uccelli e caso vuole, proprio inconsapevoli suini. Fino a stritolare e soverchiare, come già avvenuto in molti altri territori non nativi, grosse aree di preziosa vegetazione locale… Il che nella palude di Kanaele, non potrebbe che costituire un disastro particolarmente irrimediabile, perché…

Poche scene riescono ad incutere un senso di surreale orrore come quello di una pianta carnivora che si nutre, come nel caso di questa Drosera Capensis, specie molto simile alla locale D. anglica (ritenuta geneticamente, nei fatti, un ibrido fertile tra D. rotundifolia e D. linearis)

Sia chiaro a questo punto che, quando si parla di tesoro (relativamente) incontaminato ci si riferisce nel caso specifico, non a una singola specie o due di vegetali, bensì all’intero rapporto ed armonia per flora e fauna di un così raro, per non dire unico luogo. Benché all’interno di tale contesto sussistano, nei fatti, almeno due specie particolarmente rappresentative di ciò che dovrebbe idealmente essere la palude di Kanaele: la prima, in ordine del tutto arbitrario, è la Viola helenae o in lingua locale, Wahiawa, cespuglioso arbusto floreale dall’aspetto pallido e ultramondano, il cui profumo è particolarmente irresistibile per sempre famelici suini, che delle sue membra legnose sono soliti fare scempio e distruzione al bisogno. Ma quando si parla di questo luogo, la prima pianta che viene in mente a qualsiasi naturalista o persona che l’abbia visitato è in realtà la cosiddetta Drosera anglica o makinalo, rappresentante di quella famiglia cosmopolita di piante carnivore famose per la capacità di secernere un particolare fluido o muco appiccicoso, in grado di intrappolare facilmente mosche o altri insetti volanti tra i propri scattanti, incredibili “tentacoli” prima che la foglia stessa inizi a ripiegarsi sulla malcapitata vittima, al fine di trarne utile nutrimento. Specie che, come potrete facilmente desumere dal nome scientifico, viene in realtà considerata originaria dell’Europa e del Vecchio Continente (parte dell’Asia inclusa) ragion per cui la varietà hawaiana risulta essere in effetti notevolmente modificata, con una dimensione complessiva molto più piccola al fine di adattarsi al particolare suolo acido della torba paludosa, fondamentale componente del territorio di Kanaele. Almeno finché, sorprendendo pressoché nessuno, il famelico maiale di passaggio decida di dare un concedersi un lauto pasto, divorando pianta, mosche prese in trappola e tutto il resto.
A meno che, ed è palese a questo punto che un caveat dovesse prima o poi arrivare, non intervenga prima quella stessa mano dell’uomo che, tanti anni prima, fece lo scempio di portar qui i maiali, al fine di usarli come pasto durante lo scalo delle proprie lunghe esplorazioni al confine dell’epoca Moderna. Con un processo iniziato grazie a fondi privati nell’ormai remoto 2003, per il recupero e la rivalutazione di quello che costituisce, ad oggi, uno dei più importanti patrimoni naturalistici dell’isola e dell’arcipelago, per non parlare in modo enfatico della nostra stessa posterità, indipendentemente dal territorio di provenienza. Grazie alla collaborazione tra l’associazione no-profit TNC (The Nature Conservancy of Hawai`i) e il proprietario formale di queste terre, l’azienda Alexander & Baldwin, che aveva sempre tentato di custodirle in stato immacolato, se non fosse che mancava di strumenti o metodologie adeguate. A partire dalla invalicabile recinzione anti-maiali lunga quasi due chilometri, recentemente completata, capace di bloccare totalmente l’accesso dei problematici invasori alla preziosa palude di Kanaele. Per poi passare alla sistematica semina e cura di numerose specie vegetali locali, seguita dall’unica metodologia adatta a rimuovere da questo luogo le problematiche piante del mirto di Guava: lo sradicamento e taglio sistematico, con rimozione certosina dei semi caduti nelle vicinanze e l’impiego di piccolissime quantità di pesticida. Questo perché qualsiasi altro approccio utilizzato normalmente per affrontare tale problema su ampio spettro, come il fuoco o l’impiego di parassiti naturali, rischierebbe di distruggere del tutto il delicato equilibrio della palude.

Un’idea piuttosto chiara dell’obiettivo finale perseguito con il decennale intervento di Kanaele può essere tratto da questa visita presso l’altra palude di Kauai, quella di Alaka’i, trasformata in attrazione turistica anche grazie alla lunga passerella in legno per i visitatori (affiancata sempre, rigorosamente, dall’essenziale recinzione anti-maiali).

Ed il successo dell’operazione sembrerebbe aver raggiunto proprio quest’anno, almeno stando ad un recente rapporto fatto circolare dalla TNC, una quantità misurabile e invidiabile di traguardi: oltre 90.000 piante invasive rimosse, interdizione pressoché completa dell’accesso suino e persino il ritorno spontaneo di specie animali ormai considerate perdute in questi luoghi, come il gufo hawaiano pueo (Asio flammeus sandwichensis) e ronzanti nugoli di damigelle (sottordine Zygoptera) insetti affini alla nostra più familiare libellula di palude. Ma soprattutto, la maggiore quantità di acqua limpida che scorre fuori dalla palude stessa, invadendo territori comparabilmente fangosi e trascurati, dimostrando chiaramente il tipo di miglioramento che un attento controllo e rimozione dei fattori negativi può apportare su un territorio, non importa quanto esso potesse sembrare oramai perduto.
Ma sarebbe ingiusto, alla fine di questo, dimenticare tuttavia di far menzione delle povere malcapitate mosche, che piuttosto che poter godere dello scempio fatto dai loro alleati sovradimensionati dal riecheggiante grugnito, finiranno per cadere nuovamente nella trappola preistorica che sin da tempo immemore, ha combattuto strategicamente la loro saettante, insettile genìa. Poco male, malefica progenie di Belzebù? Nessun diritto ai malvagi? Chissà come l’avrebbero pensata i velociraptor, pericolosi e forse inconsapevoli antagonisti di coloro che, per una ragione o per l’altra, si trovarono in quel topico elicottero cinematografico di (ormai) oltre un quarto di secolo fa…

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