Ottime nuove: il kiwi non è più a rischio di estinzione

Con l’ampia risonanza mediatica data all’inserimento della pizza napoletana tra i patrimoni dell’umanità da parte dell’UNESCO, l’opinione internazionale si è scordata, giusto in questi giorni, dell’aggiornamento pubblicato da un altro importante catalogo dei beni di questo mondo, la lista rossa della IUCN (International Union for the Conservation of Nature). “Che c’è di nuovo?” Direbbe qualcuno, dopo intere generazioni trascorse dai politici, le aziende, i capi popolo di vario tipo, nel continuare indisturbati con il loro sfruttamento inarrestabile di quanto la Natura ha fatto il possibile per far giungere fino a noi. Sono tuttavia convinto che questa volta, a un qualche punto della filiera multimediale, ci si debba essere scordati di cosa piace di più al pubblico. La ragione è diversamente dal solito, sembra che qualcosa stia andando per il verso giusto. Ovvero se riuscite a crederci, pare che il kiwi neozelandese, il più popolare tra tutti gli uccelli preistorici ancora in vita, sia finalmente salvo. O per meglio dire, sono state tolte dalla parte più allarmante della graduatoria, spostandole in quella con denominazione “vulnerabile”, due delle cinque specie esistenti, l’Apteryx mantelli o kiwi marrone dell’Isola del Nord, variante più comune e diffusa dell’uccello con i suoi circa 35.000 esemplari, ed alquanto incredibilmente proprio l’Apteryx rowi (kiwi di Okarito), il più raro di  tutti quanti. Un animale di cui esistono, attualmente, appena 400-450 esemplari. Ma del quale fino a qualche tempo fa, ovvero al censo del 1995, potevamo contarne appena 160, dato da cui appare evidente una significativa inversione del trend negativo precedente. La conservazione degli animali, dopo tutto, funziona in questo modo. Ciò che conta non è tanto il numero, quanto la protezione. E in questo nessuno potrebbe negare che i diversi popoli della Nuova Zelanda, nell’ultimo paio di decenni, abbiano fatto davvero un ottimo lavoro.
Nient’altro sarebbe bastato, del resto: il kiwi è quell’uccello privo della capacità di volare, della grandezza di un pollo ma più simile a una palla di pelo con due forti zampe ed un becco appuntito, che semplicemente non sviluppò mai particolari difese da alcuni dei predatori più voraci di questa Terra: i rapidi e voraci mammiferi. Questo perché, in origine, nell’intero arcipelago da lui abitato, non ve n’erano che due specie, entrambi appartenenti alla genìa dei pipistrelli. Nessuno, insomma, a cui potesse venire in mente di disturbarlo. Finché circa 700 anni fa, arrivò l’uomo. In un primo momento non andò troppo male: certo, le popolazioni polinesiane da cui sarebbe derivata l’etnia dei moderni Māori avevano l’abitudine di mangiare il kiwi, ed utilizzavano le sue piume per assemblare i propri mantelli cerimoniali. Ma lo consideravano anche sacro a Tāne Mahuta, il dio delle foreste, della bellezza e degli uccelli, tanto che non si sarebbero mai sognati di fare alcunché di cacciare eccessivamente la piccola e indifesa creatura. Se non che a bordo delle loro grandi canoe e poi dopo sulle navi dei coloni occidentali, una generazione di seguito all’altra, arrivava anche qualcosa di molto diverso ed assai più pericoloso. Erano cani, gatti e mustelidi di vario tipo, vedi il furetto, la donnola e l’ermellino. Animali a volte addomesticati, altre più rare dei semplici clandestini, che per un motivo o per l’altro iniziarono a calcare la terra del Nuovissimo Mondo. E fu questo, un disastro ecologico completamente privo di precedenti. Poiché a simili creature, senz’ombra di dubbio, sembrò di aver trovato il Paradiso. Immaginate voi, per un carnivoro, l’esperienza di un luogo in cui semplicemente nessuna creatura sia preparata a difendersi dalle sue battute di caccia. L’intera Nuova Zelanda, per questi incolpevoli ma spietati animali, era praticamente un supermercato a cielo aperto. Ma del tipo che non poteva, purtroppo, rifornire i suoi scaffali con sufficiente rapidità.
La popolazione di tutte e cinque le specie di kiwi, dunque, è in significativo calo da un periodo di almeno cinque secoli, con l’apice raggiunto negli ultimi 80 anni, durante i quali si è passati da 5 milioni di uccelli ad appena 50.000-60.000, di cui una frazione ancora minore si trova nel periodo cruciale dell’età riproduttiva. Come per molte altri animali in via d’estinzione, in effetti, ci troviamo di fronte a una creatura che raggiunge la maturità sessuale tardi, attorno ai 3-5 anni di età, e che sono per lo più univoltini, ovvero depongono un solo uovo a stagione e conseguentemente, nel corso di un intero anno. Con una sola eccezione, in effetti: proprio quella del rowi, una delle due specie di recente sottratte al baratro dell’estinzione. Che per una sua predisposizione biologica, può arrivare anche a deporne fino a tre in altrettanti nidi diversi, mostrando una promiscuità del tutto insolita per questi uccelli, che si accoppiano generalmente con un solo maschio per tutta la vita.  Questo è anche l’uccello che, influenzato dal particolare approccio scelto dall’uomo per preservarlo, ha imparato a vivere fuori dal gruppo familiare fin dalla tenera età, andando in cerca di un partner per procreare con largo anticipo rispetto ai suoi predecessori. Ciò in funzione di una singola, specifica ragione: l’Operazione denominata Nest Egg

Il kiwi, nonostante la sua sfortuna storica, è un prodotto del tutto capace dell’evoluzione, perfettamente abile nell’occupare la sua nicchia ecologia notturna. Molte delle sue caratteristiche sono insolite nell’intera classe degli uccelli.

A mali estremi, estremi rimedi come si usa dire, e non credo che in molti potrebbero muovere critiche verso i neozelandesi, nelle persone del Dipartimento di Conservazione, la Banca della Nuova Zelanda e BirdLife per aver creato il Programma Nazionale di Recupero dei Kiwi. Una intera realtà operativa deputata, sostanzialmente, a rubare le loro uova. Proprio così, avete capito bene: schiere di appassionati operatori nella natura, armati di cestini e contenitori, che perlustrano la foresta per sottrarre la futura prole a piccole madri incolpevoli, destinate a chiedersi per molte settimane come abbiano potuto distarsi, o quale errore abbiano commesso nella scelta del proprio nido. Un passo forse crudele, ma assolutamente necessario: pensate che nelle aree in cui sono attivi i succitati predatori del simpatico batuffolo di piume, la sopravvivenza media di un pulcino fino all’età adulta è del 5% del totale. Siamo ai livelli, per intenderci, delle creature che adottano una strategia riproduttiva di tipo “r” con sopravvivenza minima dei piccoli, tranne che per il fatto che in questo caso, la quantità di prole prodotta rientra a pieno nella categoria del tipo K, vista la nascita di appena uno, due, massimo tre pulcini a stagione nel caso dei rowi riprogrammati dall’uomo. Affinché si capisca davvero, a questo punto, che cosa significhi una tale impresa riproduttive per le femmine di tale specie, sarà il caso di parlare brevemente di una delle caratteristiche più discusse dell’intera famiglia degli Apterygidae, questi uccelli facenti parte del  gruppo dei ratiti, lo stesso degli struzzi e gli emu, pur essendo imparentati più strettamente con l’ormai estinto uccello elefante del Madagascar. Sto parlando, ovviamente, della grandezza del loro uovo. Abbiamo affermato in apertura che il kiwi medio è una creatura grande approssimativamente come un pollo, qualcosa che certamente non potreste desumere dall’osservazione della piccola buca nel terreno che lui è solito chiamare nido. In quanto le uova contenute all’interno, caso vuole, sono fino a 6 volte più grandi di quelle della gallina. È una questione molto più sensata di quanto possa sembrare in linea di principio: qual’è, in effetti, lo scopo ultimo della riproduzione ovipara? Negli uccelli, potremmo affermare che sia liberare la genitrice dal peso del nascituro, per permettergli di volare libera nel cielo. In talune specie di rettili, pesci ed insetti, invece, potremmo individuarla nella necessità di produrre un piccolo che sia già formato in ogni sua parte, in grado di sopravvivere senza eccessiva assistenza da parte dei genitori. E la femmina del kiwi, da svariati milioni di anni privata delle sue ali, sembra aver adottato una versione del sistema che tende decisamente verso la seconda delle categorie citate, arrivando a generare un uovo che pesa un quarto del suo intero organismo. Così grande, all’interno della sua cassa toracica, che nelle ultime fasi della gravidanza comprime i suoi organi interni, costringendola a digiunare. È stato infatti scientificamente provato come mettere al mondo un futuro figlio (dopo tutto, si tratta ancora di un uovo) costituisca uno stress notevole, sia fisico che psicologico per la femmina che fortunatamente, una volta compiuta l’impresa, potrà svagarsi liberamente, visto come sia il maschio ad occuparsi della covatura. In tutte le specie tranne quella dell’Apteryx haastii, il grande kiwi a macchie del peso di fino a 3,3 Kg, in cui sono entrambi i genitori a fare a turno nella mansione.
L’operazione di sottrarre queste uova e trasportarle fino alle oasi di conservazione, dunque, ha un’importanza primaria. Proprio perché la loro deposizione ha un costo in termini di energia per la femmina assolutamente notevole, assicurare una felice schiusa cambia radicalmente i presupposti di aumento della popolazione. La natura dei predatori introdotti, inoltre, è tale da garantire un maggior grado di sopravvivenza al di sopra di una certa età. Poiché il kiwi adulto, generalmente, è sufficientemente grande da potersi difendere e scoraggiare gli assalti di un ermellino o un gatto domestico, anche se resta vulnerabile all’attacco dei cani. Ci sono stati casi, in effetti, in cui un singolo cane randagio ha danneggiato notevolmente l’intera popolazione di una regione. Ma anche questa è la dura vita nella Nuova Zelanda, è non c’è tantissimo che si possa fare. Più di quanto sia già stato tentato, con alterni gradi di successo.

Nel profondo della foresta, un richiamo ritmato. Secondo alcuni, proprio questo nome “kiwi” potrebbe essere un onomatopea del rumore prodotto dal suo lungo e flessibile becco. Altri ritengono che i polinesiani l’abbiano chiamato così per analogia con il chiurlo di Tahiti, che gli assomiglia lontanamente.

Altre misure intraprese dal Piano di Conservazione dei kiwi, ormai giunto alla sua terza iterazione, hanno incluso negli anni il posizionamento di trappole ed esche avvelenate dirette ai suoi incolpevoli, ma inarrestabili predatori. Una misura tristemente necessaria, considerata l’importanza biologica e l’unicità di questa creatura proveniente dalle epoche più remote, di una terra emersa unica al mondo.
Il kiwi è stato a più riprese definito un fossile vivente, aspetto reso evidente dal suo ampio ventaglio di caratteristiche di distinzione. La maniera in cui si muove, bilanciandosi senza l’impiego di una coda, e le sue piume stranamente prive di uncini sulle barbule, che risultano quindi più simili a un manto peloso. L’impiego prevalente dell’olfatto durante la ricerca di cibo, preferibilmente invertebrati, larve e numerose specie di vermi, a cui da la caccia inserendo il lungo e flessibile becco nel terreno. Il cervello più grande di quello degli altri uccelli paleognati, il superordine più antico, paragonabile per potenzialità a quello dei pappagalli e i corvidi, benché non dimostri comportamenti altrettanto sofisticati. Ma cos’è l’intelligenza, dopo tutto? Talvolta, riconoscere il proprio posto nello schema implicito delle cose naturali. Ed accettare la rassegnazione, come una sorta di triste stile di vita, finché… L’obiettivo, oggi, è piuttosto chiaro: secondo quanto affermato dal Programma Nazionale, si spera di tornare entro il 2030 ad una popolazione complessiva di circa 70.000-100.000 uccelli per tutte e  cinque le specie. Una finalità per la quale, la ri-catalogazione da parte dello IUCN potrebbe essere interpretata come un segnale positivo. Ma anche un pericolo, capace di infondere negli addetti ai lavori uno sconveniente senso di sicurezza e un’irrealistica visione secondo cui “il peggio è passato”. Sarà dunque meglio, come per la pratica quotidiana dell’arte dei pizzaiuoli napoletani premiati dall’UNESCO, che i diretti interessati non si distraggano eccessivamente per l’effetto dell’avvenuta premiazione. Ma continuino a far ciò che gli riesce meglio, per l’accrescimento del benessere complessivo di tutti gli esservi viventi.

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