La musica inquietante dei pianeti

Sounds of Space

Giove il forte, il grande, il rosso. Urano che soffia la sua furia tenebrosa. Un tintinnar d’anelli attorno al vorticante Saturno. “Nello spazio non esiste alcun tipo di rumore” è uno di quegli assoluti che provengono da una suprema forma di superbia. Che l’orecchio umano, grazie alla sua particolare conformazione, possa trasformare le oscillazioni dell’aria in percezione sensoriale è cosa molto nota. Come acclarato è del resto il fatto che in assenza di un medium gassoso significativo tale procedura sia del tutto irrealizzabile. A discapito di innumerevoli scene cinematografiche di fantascienza, con roboanti esplosioni giusto sui confini delle stelle. Immaginatevi dunque la sorpresa dei presenti ad una conferenza stampa della Nasa, nel settembre del 2013, quando l’astrofisico Don Gurnett, analista dei dati provenienti dalla sonda Voyager 1 disse: “Ho udito il suono dello spazio interstellare.” Com’era, dunque? Magnifico e terribile, stupendo, affascinante, fantastico e infernale. Come l’acuto di un’espressione matematica o il colore di una complicata musica spaziale. 37 anni erano passati, dal giorno in cui era stato posto in essere il presupposto necessario a registrarlo. E c’è un termine per definire il procedimento usato nello studio – Sinestesia: l’incapacità, talvolta desiderabile, di distinguere tra i contrapposti input sensoriali, vivendo la propria vita in uno stato di costante confusione. Si tratta di una condizione neurologica reale, che si verifica in determinati e rari casi. Ma la quale fondamentalmente si ritrova, come metodo di presentazione dei dati, a più livelli dell’ambito scientifico. Qui, assai probabilmente, era l’unica possibile analogia. Perché gli uomini non percepiscono le emissioni radio né le micro-onde ma questo non significa, a conti fatti, che non possano desiderare di conoscerle. Ad esempio, tramite l’apporto di una forma tecnologica di sperimentazione, ovvero quella sonda spaziale da 722 Kg, lanciata via lontano nel 1977, con tutta la forza della nostra collettiva civiltà. La Voyager, carica di valide testimonianze in merito alla propria razza genitrice: musica ed immagini, discorsi di politici e scienziati. Nonché registrazioni di cose ineffabili e preziose, quali il suono del mare, il canto delle balene, il pianto di un neonato, altre sentimentali inezie; ed oltre a queste, giacché l’incontro con una benevola coscienza aliena resta sempre una speranza assai remota, gli apparecchi dell’artificiale percezione. Tra cui due lunghe antenne, i direttori di questa sublime orchestra virtuale.

È uno strano scherzo del destino, quello per cui nella branca degli studi spaziali che si occupa d’interpretare i dati dei dispositivi lanciati ben oltre l’orbita terrestre, sia sempre la sonda più obsoleta, meno precisa a farla da padrona. Da quel remoto tempo, l’epoca d’oro dei Pink Floyd, ne abbiamo inviate delle altre, le quali, anch’esse, hanno contribuito al video: INJUN 1, ISEE 1, HAWKEYE..Ciascuna in qualche modo superiore, dotata di apparecchiature tanto maggiormente avveniristiche o potenti. Ma purtroppo vicine nello spazio sconfinato (i razzi sono sempre quelli, nonostante tutto) e dunque meno utili allo scopo. Perché ancora intrappolate in un vortice che oscura la realtà, il campo elettromagnetico dell’astro Sole.
Mentre lei, l’eroica e vecchia sonda, l’ha ormai superato. Ce ne siamo accorti molto tardi. La potente antenna parabolica, collegata a desueti meccanismi d’immagazzinamento a nastri, ha fatto da ripetitore verso il nostro ormai remoto punto azzurro, il caro pianeta dei canguri e cagnolini. E soltanto dopo un’anno di attesa della trasmissione, per il beneficio di chi era pronto a fare da analista, ha dato voce al cosmo senza fine.

Voyager 1

Si chiama eliosfera, tale confine per noi impercettibile, grossomodo sferico, che si estende fino ai margini del sistema solare. Viene definita così: la zona all’interno della quale il vento solare, che sarebbe l’emanazione particellare della nostra stella, surclassa la materia interstellare, un miscuglio di idrogeno, elio e piccole tracce di elementi più pesanti. Soltanto qui, tra la pace dei protoni non reattivi, le antenne al plasma della sonda Voyager ci hanno permesso di registrare l’equivalenza di suoni assai remoti, mai assimilati prima dalla mente umana. La cui origine, tutt’ora, resta incerta. Ma che dimostravano, senza ombra di dubbio, che il viaggio era giunto a compimento. Don Gurnett affermò che si trattasse delle Pulsar, le stelle a neutroni, perennemente condannate a roteare su stesse, liberando poderosi flussi di materia luminosa (e rumorosa). A ogni modo, finalmente fuori dal suo Sistema, la raminga sonda avrebbe aperto la strada verso nuove scoperte. Fra qualche…Secolo? Nel frattempo, per chi avesse voglia di anticipare i tempi, il progetto radio-astronomy.net permette di ascoltare tali suoni, in streaming, direttamente dai potenti radiotelescopi disseminati per il mono. Chissà che non vi riesca di udire strane voci, o il rombo di un motore in rapido avvicinamento…
Comparativamente sono assai meno strabilianti o sconvolgenti, al confronto, i suoni d’apertura, registrati in occasione dei passaggi di varie nostre sonde in prossimità di alcuni dei pianeti che ci circondano nel cosmo sconfinato. Eppure, anche per questo stimolanti verso l’elaborazione di un pensiero. Per noi, che a tali corpi abbiamo dato il nome di divinità, che in tanti modi, attraverso i secoli, li abbiamo osservati tentando di capirli. Esiste una pregna corrente filosofica, occasionalmente sfociata nel misticismo, che consiste nell’individuare un suono per ciascuna delle sfere celesti. Era molto cara a taluni filosofi medievali. L’aveva teorizzata Pitagora nel mondo antico ma fu Keplero, sulle soglie del XVII secolo, a condurla verso la modernità. Nel suo Harmonices Mundi (1619) egli notava come la differenza tra il moto angolare massimo e quello minimo di un corpo, se in orbita stabile attorno ad un altro, fosse stranamente simile a proporzioni armoniche gradevoli, affini a quelle di una composizione musicale. E che i pianeti più vicini tra di loro avessero un’imprescindibile assonanza. Disse allora, con spiccato piglio ermetico e un certo innegabile pessimismo: “La terra canta Mi, Fa, Mi: potete dedurre persino dalle sillabe che in questo mondo non vi è che Miseria e Fame”. C’era questa ponderosa convinzione, ancora in quell’epoca, che tutto andasse ricondotto ai gesti di una volontà fin troppo simile alla nostra. Mentre appare evidente, dalle moderne registrazioni elettromagnetiche, che il suono dei pianeti è del tutto privo di un significato trascendente. Semplicemente riecheggia, indisturbato, per chi ha voglia e tempo di ascoltarlo. Ciò non deve cancellare, conti fatti, l’ipotesi di una Creazione. Anzi, vi aggiunge Evoluzione. E Rivoluzione!

Spheres engraving
Via

Lascia un commento