Un altro volo per l’aquila più rara delle Filippine

Philippines Eagle

Se dovessimo chiedere a campione, a un gruppo rappresentativo di diverse età ed estrazioni culturali, quale sia la caratteristica maggiormente rappresentativa del leone, i bambini risponderebbero probabilmente: il ruggito. Forse i più legati alla tradizione delle virtù cristiane con relative allegorie, opterebbero per la Forza. Gli estimatori o estimatrici delle scienze sociologiche, o della guerra tra i sessi, non tarderebbero ad evidenziare l’insolita dicotomia che vede il maschio sonnecchiare sotto il sole, mentre la femmina si prodiga nel procacciare il cibo. Ma trasversalmente, fra l’una e le altre ipotesi, almeno una persona su tre nominerebbe la fluente e pilifera criniera, perfetta per pubblicizzare dei prodotti di bellezza, soprattutto rappresentativa del concetto di una splendida corona. Non è mai stata particolarmente chiara l’origine di quel concetto che vorrebbe un simile animale, decisamente più piccolo e meno maestoso della tigre, assurgere al ruolo nominale di assoluto “re degli animali”, però ecco, di una cosa è facile prendere atto: senza ombra di dubbio, visto da davanti e in tale modo incorniciato, il magnifico quadrupede sa rendersi adeguato al proprio ruolo. Potrebbe dunque venirsi da chiedere, per inferenza, chi possa rivestire il ruolo governativo tra le schiere dei pennuti, che nel frattempo popolano il regno naturale in un regime di anarchia. L’onnipresente passero domestico, per la sua capacità di riprodursi e prosperare? Non scherziamo. Il candido gabbiano, vorace e onnipresente? Magari, se fossimo tutti quanti dei pirati. L’ideologicamente rappresentativa quanto imponente aquila americana con la testa bianca? Stiamo iniziando a ragionare. Se non fosse per un piccolo dettaglio: al mondo ce ne sono di maggiormente affini, tra tutti gli uccelli predatori, al quadrupede più celebre ed amato delle terre d’Africa distanti. Sono Accipitridi (questo il nome tassonomico) di un altro tipo, caratterizzati da una testa che è il sinonimo di spaventevole beltà: un grosso becco nero ed uncinato, accanto al quale sposto gli occhi minacciosi. E sopra tali gemme, una spettacolare cresta, che l’uccello porta normalmente ripiegata sopra il collo. Ma tu prova per un attimo ad innervosirne una, ad esempio girandogli attorno con la macchina fotografica come fatto nella scena in apertura, e quello inizierà ad aprirla, in uno scarmigliato spettacolo d’ostilità. In tale particolare configurazione, appare allora chiaro chi dovrebbe ricevere lo scettro del potere metaforico, tra tutti gli abitanti delle nuvole distanti: Pithecophaga jefferyi, comunemente detta háribon (da haring-re, ed ibón-uccello) mangiatrice di scimmie o aquila delle Filippine. Con i suoi 8 Kg di peso e l’apertura alare di fino a 220 cm, uno degli uccelli più grandi al mondo e proprio per questo, gravemente a rischio d’estinzione.
Le leggende polinesiane parlano di un rapace mitico, detto Hakawai o Hokioi, che calava in determinate stagioni presso gli insediamenti isolani dei loro antenati. La sua venuta era considerata portatrice di sventura, e non soltanto perché ritenuta arbitrariamente un presagio d’imminenti guerre. Della dimensione approssimativa di un moa (230 Kg) infatti, tale bestia risultava in grado di ghermire facilmente un uomo adulto. Oggi i paleontologi non hanno dubbi: simili creature sono esistite veramente, prima di estinguersi alle soglie relativamente recenti del 1400, a causa della dura e spietata caccia subita ad opera di noi, potenziali vittime di tali artigli. Ma una parte del loro antico spirito sovrano, ancora sopravvive, nella presenza imponente di queste altre creature del sud dell’Asia, nominate per la prima volta scientificamente dall’esploratore inglese John Whitehead nel 1896, che ritenette, erroneamente, si nutrissero quasi esclusivamente del macaco dalla coda lunga delle Filippine (Macaca fascicularis philippensis). A tal punto era rimasto colpito costui, dalla scena di un simile uccello predatore, sempre pronto a calare sugli inermi primati dalla cima degli scarni alberi delle Dipterocarpacee di questi luoghi, perfetti punti da cui scorgerli mentre si aggirano durante il giorno. Per poi farli a pezzi con il becco e divorarli, noncuranti degli sforzi disperati e degli affanni di una bestia, ad ogni modo, grossa almeno quanto lui.

Philippines Eagle 2
La somiglianza con le moderne illustrazioni del grifone, per come compare nella fantasy contemporanea, sono quanto meno sospette… Evidentemente, qualche affinità con la controparte sovranità leonina, c’è.

Come spesso capita per animali tanto grandi e significativi, le aquile delle Filippine presentano la problematica di un ciclo vitale estremamente lungo e delicato. Occorrono infatti ben sette anni, perché il maschio sia pronto ad accoppiarsi, e cinque per la femmina, mentre in condizioni normali, da quel momento l’uovo viene deposto una singola volta ogni due anni. Certo, l’animale dovrebbe poi viverne fino a 60/65; ma gli riesce inerentemente difficile in un paese come il suo, dove la deforestazione ha imperversato incontenibile per anni, e un’alta percentuale della popolazione, priva di studi avanzati e una coscienza ecologica di fondo, risulta tristemente pronta a sparare contro un volatile che può essere mangiato, sia pure questo a grave rischio d’estinzione. Il fatto poi che le aquile scelgano un compagno per la vita, restandogli fedeli in ogni caso, non fa che complicare ulteriormente le cose. Alla stima attuale, in effetti, si ritiene che non restino libere allo stato brado più di 600 Pithecophaga, disseminate tra le isole di Luzon, Samar, Leyte, e Mindanao. In particolare su quest’ultima, la seconda in ordine di grandezza nell’arcipelago, vivrebbe la concentrazione maggiore, con la stima più ottimistica che ve ne colloca 233 coppie in età riproduttiva. Ciascuna di esse, in media, richiede almeno 7.000 ettari di territorio per cacciare e fare il nido. Tutte le aquile ancora in vita, allo stato attuale delle cose, si trovano nelle Filippine, visto come alcuni tentativi di esportarne degli esemplari in zoo oppure riserve distanti non abbiano mai avuto esiti particolarmente positivi, e l’operazione di far nascere un pulcino in cattività risulti quanto di più complesso un ornitologo possa sperimentare nel corso della sua carriera. Ma non tutto è perduto.
La storia dello sforzo collettivo mirato alla conservazione della háribon inizia nel 1965, con le pubblicazioni del rinomato scienziato filippino Dioscoro Rabor. E persino il suo grido d’allarme sarebbe passato inosservato per il mondo di allora, se non fosse stato per l’unirsi di una voce eccelsa alla sua: quella di niente meno che Charles Lindbergh, l’aviatore che nel 1927 aveva compiuto la prima traversata dell’Atlantico in solitaria e senza scalo. La presa di coscienza nazionale non sarebbe giunta ad ogni modo fino al 1977, quando un volontario dell’organizzazione statunitense dei Peace Corps, Robert S. Kennedy, non riuscì a convincere lo stato delle Filippine a fare dell’uccello il suo simbolo, cancellando con questo semplice gesto la sua erronea reputazione di mangiatore esclusivo di scimmie. In effetti, l’aquila divora senza preconcetti anche la civetta delle palme (un piccolo carnivoro) gli scoiattoli volanti, i pipistrelli della frutta, ratti, roditori di altro tipo, gufi, lucertole e serpenti. Nonché, purtroppo per lei, animali domestici dell’uomo, come piccoli cani e/o maiali. Predisposizione che non ha impedito, in quegli anni di fuoco, la creazione della Philippine Eagle Foundation, un ente privato con sede nel distretto Calinan di Davao City a Mindanao, all’interno di una valle di 69.000 ettari, dove un numero di aquile variabile, ma spesso superiore alle due dozzine, può crescere e prosperare sotto la supervisione, e la protezione di personale appositamente addestrato.

Pagasa Eagle
L’aquila maschio Pag-asa, ormai più che ventenne, non verrà mai liberata nelle foreste circostanti il centro di Davao. Troppo dipendente è diventata dai suoi protettori umani, ed in particolare da Eddie Juntilla, che essa considera il suo partner surrogato. Qui possiamo osservare quest’ultimo mentre tenta di sedurla, portandogli dei rami per fare il nido. Tale gesto è un passo fondamentale del processo d’inseminazione artificiale.

Il successo della fondazione di Davao fu fin da subito chiaramente misurabile, grazie alla particolare soluzione impiegata per far riprodurre in cattività le aquile tramite l’impiego di metodi surrogati. Il 15 gennaio del 1992, finalmente, proprio qui si ottenne la prima háribon nata in cattività, denominata immediatamente Pag-asa, una parola Tagalog che significa speranza. Finalmente era stato dimostrato come, nonostante le difficoltà di fondo, questi animali potessero essere mantenuti al di fuori dell’ambiente naturale propriamente detto, ormai fin troppo distante dalle condizioni ideali a garantire la sopravvivenza della loro specie. Attualmente, tutti gli uccelli tenuti presso il centro, siano questi nati in cattività o soltanto temporaneamente custoditi,  vengono indotte a riprodursi, al fine di mantenere una popolazione per quanto possibile al sicuro dalle avversità. Nonostante l’approfondita opera di informazione fatta dal centro, aperto al pubblico dal 1988, fece purtroppo notizia il caso dell’uccello Pamana (Retaggio) liberato la scorsa estate dopo tre anni di attente cure mediche, ricevute a seguito di un colpo d’arma da fuoco. Il prezioso volatile, infatti, era stato colpito nuovamente e ucciso da un agricoltore, con l’intenzione di cucinarlo; un proposito particolarmente rischioso, quando si considera che l’uccisione indiscriminata di una di queste creature protette è punibile con fino a 12 anni di carcere e l’equivalente di 61.000 dollari di multa. Per sua ulteriore sfortuna, quindi, il dispositivo di tracciamento abbinato all’aquila ha permesso di scoprire la verità. E questa è la fine della storia. O meglio, lo sarebbe, se non fosse per un’ulteriore notizia, questa volta positiva, che ci ha raggiunto proprio in questi giorni dalla Fondazione rilevante: “È nato, è nato!” Un nuovo pulcino, forte e in salute, che già prende il cibo dalle pinze e probabilmente, starà iniziando ad inserire la sua testolina in ogni buco che gli capiti a tiro (tipica abitudine della sua genìa in atteggiamento da gioco, per inciso). La nuova creatura, ventiseiesimo successo del centro, è figlia dell’aquila femmina “Go Phoenix” e del maschio “MVP Eagle”. Se questi nomi dovessero sembrarvi strani o inappropriati, considerate come sia l’usanza che vengano scelti dalle aziende locali, che di volta in volta hanno fornito i maggiori finanziamenti a vantaggio del processo di conservazione. Soltanto il nuovo nato, al momento, non ha ancora ricevuto la fortuna di un simile appellativo. Vogliamo provare a proporne uno noi?

Philippines Eagle Chick
Il Daily Telegraph pubblica una foto del pulcino. Possibile che sia davvero lui, oppure si tratterà soltanto un’immagine di repertorio fornita dal personale di Davao? Ma soprattutto, ciò fa davvero una qualsiasi differenza?

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