Saltapicchio in fuga dagli zombie sanguinari

Dying Light Parkour

“Soldi, soldi, cerv-CERVELLIII, BLAURGH” L’industria dei videogiochi di alto profilo, ormai da parecchi anni, opera per ondate successive, esattamente come la risacca sulla spiaggia e ricordando quella fa la schiuma. Ciò è palese nello stile grafico, nei generi di spicco e nelle meccaniche di funzionamento rilevante, così come in quel campo periferico, tanto spesso guardato con diffidenza dagli appassionati di vecchia data eppur fondamentale per il successo di pubblico e di vendite: il marketing virale. Una pratica che un tempo consisteva, piuttosto ingenuamente, nel mandare in giro qualche sequenza “rubata da un infiltrato” senza passare per il circuito troppo regolamentato della stampa di settore, né pagare royalties pubblicitarie. Perché nel campo ludico c’è questa strana giustapposizione, fondata su generazioni di consumo sregolato (di zombies con il portafoglio bello gonfio) tutto è bello per principio, finché una maggioranza percepita, o minoranza particolarmente rumorosa, non affermano il contrario con veemenza. Quindi tanto meglio far vedere il più possibile, il prima possibile per ottenere l’obolo sulla fiducia di chi paga prima? Non sempre. Il fatto è che il 2014, guardando indietro con la consapevolezza ormai acquisita, è stato un anno alquanto complicato: il passaggio alla nuova generazione di console, lungi dall’essere automatico e immediato, ha portato ad un sensibile rallentamento delle uscite di alta qualità. E molti dei giochi appartenenti a serie di prestigio, i normalmente osannati rappresentanti del club AAA, sono giunti sul mercato con grossi problemi di funzionamento, soluzioni visuali deludenti e una generale assenza del favoleggiato grande passo avanti, quell’ignoto rinnovamento che in molti aspettavano con entusiasmo. Anzi, peggio ancora di così: è innegabile a un’analisi più approfondita che gli appassionati di questo articolato e multiforme passatempo, soprassedendo sulle nuove generazioni per cui tutto è bello e nuovo, si stiano sempre più alienando dal divertimento digitale. La colpa sarà pure collettivamente attribuibile ai tre-quattro grandi publisher che controllano il mercato, ma la soluzione…Ecco, è interessante.
L’ultima tendenza dei reparti addetti alla promozione ludica prende l’ispirazione da una pratica della pubblicità moderna, che negli ultimi anni si sta dimostrando estremamente efficace per innumerevoli categorie merceologiche, anche quelle più prosaiche, come bibite o cioccolatini: si prende qualcosa di bello e pre-esistente, se ne paga l’autore e ci si mette il proprio logo, creando connessioni nuove di contesto. Nel caso dell’action-game zombieifico in uscita verso la fine di questo mese Dying Light, la scelta è ricaduta sull’artista del parkour Toby Segar, parte del celebre gruppo internettiano di Ampisound. Una cricca sregolata che da qualche tempo infesta, sempre con fedele GoPro abbarbicata sopra i propri caschi, tetti e tegole della tranquilla cittadina di Cambridge Inghilterra, offrendo al pubblico una nuova prospettiva sul loro spettacolare e periglioso sport. L’associazione tra una tale prassi e i videogiochi, del resto, è ben più che palese: si potrebbe anzi quasi affermare, ormai, che la realtà dei gadget tecnologici stia conseguendo dalla fantasia interattiva, con le riprese che scorrono veloci tra pixel e i petabyte del web, captate di volta in volta da sublimi telecamerine messe sopra i droni, sulle teste dure di sciatori, paracadutisti, skateboarders etc. etc. Al confronto di certe folli evoluzioni fatte da simili atleti, sembra una sciocchezza addirittura Mirror’s Edge!

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Il volo in formazione dei giganti di metallo

Airbus Flight

Un miliardo di dollari, messo a rischio per fare pubblicità. Così avvenne un giorno, verso l’inizio del presente mese, che nell’eterno inseguimento tra la Boeing statunitense e l’Airbus con sede in quel di Tolosa, Francia, si fosse faticosamente giunti all’attimo di fuoriuscita dallo stallo: quella situazione complicata. Sono decadi, oramai, ma sembran secoli, che le due gigantesche multinazionali agiscono primariamente per contrastare la rivale, con ottimo guadagno di chi vola per passione o professione (non a caso la competizione del libero mercato è un fondamento degli ambienti tecnologici, dall’informatica ai motori). Davvero celebre era stata la questione da dirimere sul finire degli anni ’90, quando con l’irrompere nei cieli dell’Airbus A380 a due ponti, l’europea sembrò convinta di aver superato in portata e prestazioni l’ormai mitico B-747, gigante proveniente dal passato. Eppure non ammise mai, la fabbricante americana di quel navigato titano, che ciò fosse davvero capitato, in un susseguirsi di dichiarazioni comparative discordanti tra le compagnie. A: “Il 17% di lunghezza in meno della pista!” B: “L’11% di carburante in meno per  passeggero!” A:”Il 50% meno rumoroso in fase di decollo!” B:”Riduzione dei costi per sedile del 6%” & so on & son on. Tale competizione, portata avanti non soltanto a parole ma con prove scientifiche di pregio ed assolutamente discordanti, non fece che inasprirsi nel marzo del 2008, quando il congresso degli Stati Uniti decise a favore della Boeing per un appalto da 40 milioni di dollari relativo alla progettazione di una nuova aerocisterna, lasciando a bocca asciutta le rivali Northrop Grumman ed Airbus.
Come ben capisce chi ha gestito un joystick per simulazione, nel combattimento aereo: tutto, oppure niente. È una scena spesso celebrata, che ben poche pellicole cinematografiche si son potute permettere di ricostruire con i crismi necessari; quando il pilota, generalmente d’epoche trascorse – sono preferite le due guerre – si lancia in vertiginose cabrate, punta il muso del velivolo verso il suolo, sopportando sollecitazioni ai limiti dell’organismo umano e poi…Finalmente, esulta! Perché il suo nemico è dritto innanzi a lui, tra le asticelle incrociate del suo puntatore, perfettamente in asse con le canne di un cannone, oppure quattro, oppure sei. Viviamo certamente in tempi più civili, adesso. Persino la nostra aviazione globalizzata, miracolo ingegneristico ancora largamente insuperato, si è fatta mansueta e priva di connotazioni distruttive. Eppure le battaglie si combattono ancora, tra le sale conferenze, oltre i tavoli di vetro e le fibre ottiche delle chiamate in VoIP, tramite cui si decide il fato di generazioni, il giorno dopo la presentazione di un progetto particolarmente ambìto. Ed io non so, davvero, cosa rappresenti l’ultima trovata pubblicitaria virale di un’azienda come Airbus che assai probabilmente, non rivolgendosi direttamente al pubblico coi suoi aeromobili, dovrebbe elevarsi dal bisogno di colpire grosse fasce di popolazione. Forse si tratta di una tecnica dei grandi numeri: fare qualcosa di tanto eclatante, così memorabile, da raggiungere anche la scrivania dei pochi e dei potenti, di coloro che contano e ricordano, prendono le decisioni. Oppure non si tratta d’altro che del gesto, chiaro e splendido, di una ripicca clamorosa, contro la Boeing concorrente, la dimostrazione di quel che si può fare, con il coraggio, l’intenzione e il marketing possente.
Fatto sta che mai nessuno aveva mai pensato di provarci: cinque prototipi del nuovo aeromobile passeggeri A350 XWB, dall’irrisorio costo di 260 milioni di dollari l’uno, che decollano assieme, probabilmente, dalla pista principale di Toulouse-Blagnac, per dirigersi “verso il mare”. Non è comunque chiaro quale, visto il modo in cui tale splendida città è posta perfettamente in mezzo nel braccio di terra che unisce Francia e Spagna, in bilico tra il Mediterraneo e la baia di Biscay. Ma del resto ormai poco importa, della geografia. Qui siamo nel regno della pura luce ed aria, uno spazio libero e incontaminato. In cui le maestose bestie di metallo, come fossero i leggiadri attori ad elica di un airshow, si posizionano a diamante, quindi a delta. Eseguono figure, i cui segmenti si misurano in centinaia di metri, eppure quasi sembrano toccarsi, in proporzione, un’ala contro l’altra. Oltre che freddo, il sangue dei piloti coinvolti nell’evento, probabilmente si era del tutto fermato, come il passo della storia dell’aviazione.

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L’ingorda veglia del cane umano

Cani natalizi

Sia dunque ricordato, a chi non ci pensava da parecchio tempo, del vecchio ma famoso detto internettiano: tu sei l’uomo adesso, Cane, oppure, per usare l’acronimo incisivo: YTMND (yourthemannowdog) Che nasceva da un’accorata affermazione motivazionale, fatta dal burbero Sean Connery al promettente giovane Jamal, interpretato nel 2000 da Rob Brown. Negli anni diventato un simbolo involontario, quel film pur meritorio e significativo, di una particolare giustapposizione memetica, assai diffusa, tra immagini senza senso e suoni ripetuti dall’altoparlante di un computer, messo al guinzaglio dal codice di un programmatore web con troppo tempo libero a disposizione. È stata una strana forma d’intrattenimento, oggi sempre più rara. Di YTMD (l’acronimo diventa un sostantivo) ce n’erano migliaia, fino a pochi anni fa, catalogati rigorosamente dall’omonimo portale web. Ma le mode passano e i significati migrano, dalle originarie connessioni specifiche ad altre maggiormente chiare ed intuitive. Così anche tu sei l’uomo, adesso, Cane intrappolato su una sedia, col padrone dietro, che t’imbocca per il pubblico ludibrio nella sera della nascita onorata. Un’ancor più strana, eppure MENO eclettica forma d’intrattenimento. Ed alla fine forse è proprio questo, il mistero maggiore di tutti.
Internet stessa, così determinata dalle circostanze tecnologiche, da quel remoto 2001 è diventata qualche cosa di profondamente differente. Da mondo culturale ed elitario per amanti dell’ultra-tecnologico, ricco di riferimenti astrusi e materiali prevalentemente testuali, al massimo qualche illustrazione, si è progressivamente trasformata in un vero e proprio parco dei divertimenti mediatici, con video divertenti, interazioni social tra “normali” e addirittura politici o altri uomini famosi che declamano le loro idee. Da versione digitale di una spropositata Akihabara, il quartiere di Tokyo famoso per i suoi piccoli negozi di elettronica e manga, siamo così passati alla cacofonia multicolore di una grande piazza del popolo, dove tutti vogliono partecipare, alla maniera che di più gli appare conveniente. Avete mai osservato, per un tempo lungo, i saltimbanchi o gli ambulanti (assai probabilmente abusivi) che s’industriano in centro città? Correnti immisurabili li spingono, secondo dei segnali portati dal vento, ad adattarsi l’uno all’altro, di continuo. Se un giorno appare un suonatore di fisarmonica, quello successivo, inutile dirlo che ce ne saranno tre. E quando irrompe, in quel micro-cosmo affollato, un “prodotto” di successo tra i turisti, come la bottiglietta d’acqua tirata fuori dalla busta ghiacciata, in breve tempo questa sarà replicata, nelle sporte trasparenti di quattro, cinque venditori. E così via… Perché così dettano le leggi del mercato: adeguarsi rende forti; rilevanti agli occhi della collettività.
Ed io non so, di preciso, chi abbia pensato per prima il qui presente, oggettivamente comico artificio. Ma meriterebbe, certamente, un premio. Che straordinario commento della condizione umana! Quale ricercata e pregna critica del materialismo! Tredici cani e un gatto (mai numero fu maggiormente significativo) siedono attorno al tavolo del veglione di Natale. L’ambiente scenico, colorato e caramelloso, va ben oltre la visualizzazione tipica di una casa scaldata dagli addobbi di stagione. È quasi la caricatura, di tale semplice realtà familiare: un albero di natale gigantesco infesta l’angolo estremo, semi-oscurato da una piramide di pacchetti. Aghi di abete ricadono a cascata da una mensola senza fine. Un ritratto idealizzato di famiglia alla parete mostra il micio coi suoi pargoli, piuttosto stranamente assenti nel convito. Li avrà mandati a studiare all’estero, chissà. Mentre sul tavolo, nel frattempo, c’è di tutto: il mega-volatile ben cucinato che si sa, potrebbe averne fino ad altri due dentro, per un turducken che giammai ti aspetteresti. Le salse e i pasticcini, l’insalata e i wurstel nei piattini… Ma già la saliva nella bocca degli invitati è pronta a trasbordare. Si aprano dunque, le tende di questo metamorfico caravanserraglio.

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Come nasce un fucile super-lusso di Beretta

Beretta Premium

Questo video è il frutto di un particolare approccio al marketing, molto moderno, che punta alla divulgazione prima che alla semplice pubblicità. Basandosi sulla consapevolezza che quando una cosa è davvero bella, lo sarà per gli occhi di tutti veramente, anche quelli chi non si sognerebbe mai di acquistarla. Magari per tutta una vasta gamma di ragioni: è un prodotto con un target specifico, è troppo caro per le proprie tasche, gli si preferisce un’arma meno impegnativa da gestire, etc. etc.. Ma resta impossibile, assistendo alla genesi di un simile fucile, non desiderarlo, almeno per un attimo. Sognar bonariamente di tenerlo in mano, spalancare la sua bascula ed accarezzare il calcio marezzato, quel grilletto ben equilibrato. Possederlo ed ammirarlo, se non per fare fuoco contro varie cose svolazzanti, quanto meno, allo scopo di appenderlo sopra il camino e rimirarne le incisioni, l’alta qualità costruttiva e l’incredibile armonia dei materiali e delle forme.
La serie Premium di Beretta, imperituro orgoglio del Made in Italy, si rivolge a chi desidera possedere uno strumento unico, largamente fatto a mano, eppure nonostante questo costruito con le tolleranze dell’industria moderna, e quindi tanto maggiormente affidabile & efficiente. Un’arma come questa può costare, a seconda del modello, anche diverse decine di migliaia di euro e non è chiaramente concepita per il semplice utilizzo, scevro di connotazioni ulteriori. Simili oggetti, fin da quando il primo fabbro romano decorò una spada legionaria, nascono con l’obiettivo di essere sfoggiati. Sono il culmine, la punta di diamante di uno stile personale eppure conforme a meriti assoluti, che non vuole scomparire neanche nel momento della propria sfacchinata, su e giù per le colline, quando l’automobile, la villa al mare, i gioielli e l’orologio d’oro passano in secondo piano, di fronte al desiderio di trovare una folaga o un fagiano, ben nascosti tra i cespugli ombrosi. E saranno certamente lieti, questi ultimi volatili, di essere colpiti a loro volta dalla “straordinaria eleganza e raffinatezza” di un fucile come il Diamond Pigeon, lo shotgun sovrapposto messo in mostra nel presente cortometraggio HUMAN TECHNOLOGY, già mostrato sui diversi principali social network. Segmento che si è guadagnato nell’ultimo mese, grazie all’ottimo soggetto e cinematografia, quasi quattrocentomila visualizzazioni. Dunque diamogli una spinta, diamine, affinché si possa riconoscere la qualità in quanto tale, indipendentemente dalle controversie suscitate dal settore operativo, la caccia. Che è pur sempre estremamente significativa dal punto di vista culturale, quanto meno perché antica. A dir poco!
Tutto inizia con la scena di un fenomenale crogiolo fiammeggiante, simbolo potente, immerso nella pura ed assoluta oscurità. Da qui si passa, con sapiente giustapposizione, ad un’immagine quasi bucolica: lui, l’artigiano-Virgilio dai giganteggianti baffi (nei commenti paragonati a quelli di Stalin, oppure un meno problematico Super Mario) accarezza un tronco, poi ne prende tra le mani un’estrusione magica, perfettamente levigata. Non ci viene mai mostrata l’opera del boscaiolo, poco rilevante nel discorso operativo. Soprassediamo e proseguiamo nel mirabolante viaggio. Questo pezzo, un levigato ciocco, appare già formato nell’aspetto di un calcio ligneo da fucile ed ha più venature di un tocco di marmo di Carrara; al primo sguardo, si capisce che qui siamo ben oltre i limiti della seconda o prima scelta. Solo il meglio, può essere impiegato per chi sceglie di acquistare un Beretta Premium, fatti con il cuore stesso degli alberi più rari e splendidi di questo mondo. Si passa quindi ad un montaggio parallelo: mentre avveniristiche macchine CNC (a controllo numerico) plasmano il metallo nella forma del camera di scoppio dell’arma, con tutto ciò che quest’ultima comporta, mentre un paio di sapienti mani, forse appartenenti a quel traghettatore di anime perdute, stondano la sagoma del legno, alla ricerca di un canone estetico che può soltanto essere definito: pura perfezione.

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