La strategia del pinguino tattico esplosivo

Snake-maru controllò il dispositivo di comunicazione codificata integrato nel suo auricolare, verificando che la ricezione fosse ideale. Quindi iniziò a sub-vocalizzare il messaggio, assicurandosi che dalla bocca non uscisse neanche il più impercettibile sussurro. “Aquila di Fuoco, qui Snake. Sono appena penetrato nella fabbrica di biciclette che fa da copertura per l’hangar del Mecha Gear. Ho eluso le telecamere ed il nemico non ha rilevato la mia presenza.” Un attimo di pausa, mentre una pattuglia girava nel salone d’ingresso, quindi voltava per il corridoio in direzione della sala mensa. Per qualche strana ragione, le conversazioni tra lui e la base tendevano ad essere piuttosto prolisse e circonlocutorie. “Ma ora c’è un problema: di fronte al pannello di sicurezza, due guardie armate con scafandro protettivo anti-radiazioni. La mia pistola a tranquillanti non avrà effetto su di loro…” Mentre aspettava una risposta, il più segreto agente speciale al servizio dell’esercito degli Stati Uniti vagliò attentamente le diverse opzioni. Poteva, naturalmente, usare il fucile d’assalto, caricando frontalmente l’ostacolo e rimuovendolo alla radice. Ma il suo intuito superiore gli diceva che così avrebbe attirato attenzioni indesiderate. In alternativa, avrebbe dovuto sfruttare uno stratagemma. Il suo cervello frutto della selezione genetica e gli esperimenti segreti sulla clonazione umana elaborò quindi una possibile soluzione per distrarre i problematici soldati. Avrebbe potuto emettere un suono, lanciando dietro l’angolo un caricatore, quindi nascondersi all’interno dell’infallibile scatola di cartone pieghevole, da cui non si separava mai. Ma persino questo, avrebbe richiesto diversi secondi. Come avrebbe potuto allungare i tempi del suo dirottamento? In quel momento, il codec vibrò: “Snake-maru, qui Aquila. Il tuo problema non è insormontabile. Devi credere in te stesso! Ricordi il film di guerra del 1961, i Cannoni di Navarone, con la regia di John Lee Thompson e una grande prova di recitazione da parte di Gregory Peck? C’era una scena in cui i protagonisti, per superare il tedesco in cima alla scogliera gli lanciano addosso un pitone. Snake, tu non devi semplicemente distrarre le guardie. Troverai la risposta nel potere carismatico degli animali.” A quel punto, l’uomo sul campo rimise in tasca il caricatore e appoggiò a terra lo zaino. D’un tratto, si era ricordato di un libro sottratto durante la sua infiltrazione nella biblioteca della base, con il titolo di “Kami no karakuri kamikara de asobo!” Perfetto, pensò fra se e se. Voltando febbrilmente le pagine, tenendo sempre d’occhio il fondo del corridoio, Snake trovò rapidamente la pagina ritenuta migliore. Quindi la rimosse, ed iniziò febbrilmente a piegare la sagoma del pinguino. Con le armi deposte a terra, seguendo attentamente le istruzioni, finché d’un tratto, all’improvviso, non si trovò in mano l’oggetto desiderato. Usando l’elastico che teneva la coda dei suoi capelli, gli diede il tocco finale. Osservandolo non poté esimersi dal sussurrare con voce roca per via dei sigari “Ka-kawaii…” (Carino). Prima di gettarlo a terra e schiacciarlo con lo stivale. Operazione compiuta. Ora il pupazzo aveva la forma di uno shuriken, la proverbiale stelletta ninja, pronta per essere lanciato verso l’obiettivo desiderato. Trattenendo per un secondo il respiro, Snake assunse la posa plastica necessaria…
È un giocattolo. È un automa. È anche una bomba, ma non del tipo mirato a far danni. Serve, piuttosto, ad emanare un certo senso d’indiscutibile presenza, una suggestione stranamente graziosa. Sorprendere gli spettatori con il movimento. Il che lo classifica, in una singola parola, come una sorta di karakuri. L’automa tradizionale giapponese, usato nel corso degli spettacoli popolari o nelle case dei grandi signori, o ancora nei templi, per intrattenere i fedeli con rappresentazioni di personaggi o vicende prelevate dal folklore locale. Ma ciò lo rende in effetti, davvero unico nel presente caso, è il materiale con cui viene costruito: nient’altro che semplice carta, inchiostrata sulla base del soggetto di volta in volta selezionato. Perché fa parte di una lunga serie di personaggi, progettati e disegnati da Haruki Nakamura, un vero e proprio gigante di questo settore. Artista rinomato nel suo paese, con diverse mostre all’attivo e almeno una partecipazione al Japan Media Arts Festival (2010) in qualità di scelta della giuria, per non parlare delle svariate collaborazioni pubblicitaria con aziende di larga fama, l’autore è assurto alla fama internazionale grazie proprio alla pubblicazione di una serie di libri, in cui la sua particolare abilità dell’ingegneria cartacea (come lui stesso ama chiamarla) veicolava quest’antica sapienza in un formato piatto e più facilmente trasportabile. Un po’ come i mobili dell’Ikea. Ma poiché i suoi piccoli personaggi avevano tutti, nessuno escluso, la scintilla del movimento, egli decise di chiamarli kamikara, da kami (紙) carta, e le prime due sillabe in alfabeto katakana (カラ) che compongono la parola karakuri. L’effetto risultante è notevole. Sfogliando il testo sopracitato o uno qualsiasi degli altri sei elencati sulla sua homepage ufficiale (ospitata sull’antico portale Geocities, tanto per tornare indietro con la memoria) si scopre un mondo di esseri ad apertura automatica, squali che mordono giocosamente le dita infilate in una busta postale, coccodrilli che nascondono in bocca rane dal grande sorriso, uova spigolose con il pulcino a serramanico incorporato… È un vero trionfo della più incredibile fantasia.

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La storia dei 40 ippopotami di Pablo Escobar

C’è un vecchio modo di dire dalla difficile attribuzione, tipico di molti film e personaggi statunitensi, che recita: “Nessuno pensa a se stesso come il cattivo.”  La quale frase, il più delle volte, trova una diretta applicazione nel mondo reale. Guardate, a tal proposito, la figura del più grande trafficante di cocaina nella storia della Colombia e a dire il vero, probabilmente del mondo intero: l’uomo “del popolo” di Medellín, che nel corso dei suoi 44 anni di vita aveva costruito un’impresa di produzione e traffico in grado di fatturare all’apice del suo successo più di 70 milioni di dollari al giorno, più di Facebook, Starbucks o l’intero paese del Paraguay, oltre a diventare (brevemente) una figura politica inspiegabilmente amata. Spietato assassino, rapitore di persone famose, terrorista quando gli fece comodo, organizzatore di crimini particolarmente efferati. Ma questo, dopo tutto, era in un certo senso dovuto, vista la sua professione. No? Mentre se qualcuno gli avesse chiesto che cosa desiderava dal mondo, egli avrebbe forse risposto “Niente di che. Tutto quello che chiedo… È soltanto essere lasciato in pace.” O almeno questo è il tipo di personalità che hanno voluto far emergere nella serie Tv Narcos di Netflix, andata inizialmente in onda nel 2015, basata almeno in parte su un’evidente ricerca storica associata a diversi momenti speculativi e di fantasia, ma quasi mai del tutto azzardati. Se vogliamo giudicare dalle fonti disponibili online. Resta tuttavia indubbio che alcune delle sue gesta, per mere ragioni di budget, non siano state analizzate come avrebbero potuto. Sto parlando del come in effetti costui spendesse le sue ingenti risorse finanziarie, della vita di eccessi e follie che amava condurre, circondato dai più sfrenati simboli dell’opulenza concepibili secondo la sua cultura e visione delle cose. Ci sono, si, alcune scene con degli animali. Girate, per lo più, presso una villa architettonicamente piuttosto interessante, in realtà scelta per la sua somiglianza ad un luogo realmente esistito: il complesso, oggi largamente in rovina eppure ancora visitato da grande quantità di turisti, della rinomata Hacienda Nàpoles, sita all’incirca 155 Km a ovest di Bogotà. Una casa coloniale con un ampio terreno di 20 Km quadrati, che il trafficante aveva acquistato negli anni ’80, con l’obiettivo di trasformarla in un vero e proprio luogo dei sogni. Propri, e dei suoi due giovani figli. Il paragone con il celebre ranch di Neverland, posseduto a suo tempo da Michael Jackson, assolutamente coévo, è per certi versi utile; benché il cantante Pop statunitense avesse preferito un’estetica ed attrazioni da luna park, mentre il criminale sudamericano, per sua innata prerogativa, avesse scelto di dedicare la maggior parte del suo grande spazio a uno zoo privato. Con bestie come elefanti, giraffe, zebre, uccelli esotici ed ippopotami. Quattro di questi ultimi, per essere più precisi: tre femmine e un maschio. Ma non per molto.
Il problema essenziale dell’intera faccenda è che l’ippopotamo, dal punto di vista evolutivo, è una creatura adattata a sopravvivere in un habitat per lo più ostile. Animale acquatico nel più secco dei continenti, tanto forte e grosso da essere impervio ai predatori ma che deve costantemente proteggere i cuccioli e il territorio. Ora immaginate una simile creatura, trasferita nell’ambiente tropicale della Colombia, in mezzo a foreste accoglienti percorse da fiumi spropositati. Sarebbe un po’ come portare una famiglia di cavalli nel mezzo di un’enorme prateria. O un ratto nel sistema fognario di una grande città moderna. Successe  così che successivamente al 1993, l’anno in cui Escobar venne infine trovato dalla polizia ed ucciso nel corso di una sparatoria, l’hacienda restò per un certo periodo del tutto priva di amministratori. Confiscata da un governo che non aveva l’inclinazione o i fondi per realizzarci qualcosa di valido, il complesso cadde progressivamente in rovina, mentre molti degli animali perivano o venivano liberati. Ma non loro: gli ippopotami anzi, incoraggiati dal clima, incrementarono drammaticamente il ritmo della loro riproduzione, arrivando a produrre un cucciolo l’anno. Quando nel 2005, finalmente, venne nominato un amministratore del bene pubblico ed esso fu trasformato, fra tutte le cose possibili, in un surreale “museo del crimine” dedicato ad Escobar, i grandi mammiferi erano ormai svariate decine. Eppure, non erano tutti lì, almeno a giudicare dai numerosi avvistamenti di “strane creature tozze dalle piccole orecchie” lungo l’antistante fiume di Magdalena, il principale corso d’acqua navigabile di quest’area geografica, a volte chiamato la Route 66 sudamericana. La Colombia era effettivamente diventata il primo paese non africano ad avere una popolazione selvatica di ippopotami. La leggenda dello Zar della cocaina continuava, tanti anni dopo la sua dipartita…

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Il fenomeno geologico della lava nera

La Rift Valley Lodge, la Rift Valley Academy, il Rift Valley Restaurant…Come i negozi di una strada commerciale in una grande città italiana, tra i recessi d’Africa si susseguono le realtà, commerciali e non, identificate dallo stesso nome riutilizzato in serie. Con una piccola, significativa differenza: esse si estendono lungo una frastagliata direttiva nord-sud della lunghezza di oltre 8.000 Km. Tanto che verrebbe da chiedersi: qual’è questa singola valley, che risulta in grado di superare i confini di nove paesi, partendo dal territorio del lago Malawi a meridione per poi biforcarsi ai due lati di quello Victoria, giungendo in Rwanda ad ovest e poi fino all’estremità Sud del Mar Rosso dall’altra parte, oltre l’Etiopia e l’Eritrea? A uno svelto ragionamento, apparirà evidente che può trattarsi soltanto di una spaccatura continentale. Ovvero il punto in cui, da 35 milioni di anni o giù di lì, due pezzi d’Africa si stanno separando per l’effetto della deriva dei continenti. Causando fenomeni geologici di entità particolarmente rara. Come zattere mineralogiche di dimensione planetaria, le principali terre più o meno emerse al di sotto dei nostri piedi sviluppano un continuo processo di riconfigurazione. Per via del quale, sconvolgimenti epocali causano il mutamento dei paesaggi. Come l’esistenza di un’avvallamento, che talvolta è un vasto canyon, qualche altra una mera fessura, e nei luoghi in cui il metaforico fazzoletto della crosta terrestre era andato esaurito e non poteva più coprire alcunché, l’emersione di quel qualcosa che si trovava al di sotto. Magma caldo, lucente, denso e infuocato, talvolta. Il quale al contatto con l’aria, si raffredda progressivamente formando i massicci montuosi: vedi ad esempio il Kilimangiaro, il Karisimbi, il Nyiragongo e il monte Kenya. Oppure, tra il lago Natron e la riserva di Nainokanoka in Tanzania, lo stranissimo vulcano di Ol Doinyo Lengai (Montagna del Dio Nero). Che ha un qualcosa che lo distingue dalla maggior parte dei suoi simili lungo il percorso, quella di risultare attualmente attivo… Nonché, in via del tutto incidentale, presentare un’aspetto decisamente alieno.
Chi dovesse vederlo in lontananza, da un aereo, oppure raffigurato in una qualsiasi cartolina di queste terre, noterà in effetti qualcosa di estremamente inaspettato: la colorazione della sua vetta ed il cratere che vi trova posto, assolutamente candida, come se vi fosse caduta la neve. Il che, a queste latitudini, sarebbe un qualcosa di strano; così che, gradualmente, emerge chiara la verità. È proprio la pietra, che ha quel colore. Diametralmente all’opposto della tonalità tendenzialmente scura di qualsiasi altro cono che abbia eruttato dall’inizio della storia umana. Proprio perché, nel sottosuolo di questo particolare tratto della Rift Valley, si trova una combinazione mineralogica tale da giungere a generare una classe di pietra fluida nota con il nome di natrocarbonatite. Che ha un aspetto, una densità e una temperatura radicalmente diversi da quelle della lava, per così dire, comune. Si dice che le basaltiti, nel momento in cui emergono liquefatte da un condotto di tipo geologico scavato attraverso le viscere del mondo, siano relativamente “fredde”: appena 1.000 gradi. Ma ciò che si presenta all’ingresso di questa fonte nell’Africa nera è, a dire il vero, un qualcosa di ancor meno estremo. Tanto che sarebbe possibile, in effetti, cuocervi sopra una pizza o panzerotto, giungendo essa ad una temperatura di appena la metà di tale cifra. A 500 gradi, la lava si presenta come una sorta di fango nero dall’alto contenuto di calcio e talvolta potassio. Laddove tale sostanza è generalmente composta di silicati ed ossigeno, che giungono alla liquefazione solamente in presenza di un’energia molto maggiore, e per questo giungono in superficie con il caratteristico colore rosso intenso. Il funzionamento dell’Ol Doinyo Lengai, dunque, risulta estremamente caratteristico: piuttosto che poche grandi eruzioni, ne sviluppa di numerose attraverso i suoi lunghi periodi di attività. Tra i casi registrati recentemente, possiamo ad esempio trovarne nel 1917, 1926, 1940, 1966-67 e 2007-2008. Momenti nei quali, generalmente, la lava carbonatitica viene lanciata verso l’alto a gran velocità, raffreddandosi con una velocità tale da ricadere a terra, talvolta, già solidificata. Quindi, con il progressivo diminuire della pressione, si formano una serie di grandi fiumi, dalle volute fantastiche ed intricate, che progressivamente schiariscono, rallentano e vengono incorporati nella montagna. Sarebbe una vista a cui non rinunciare almeno una volta nella vita, se lo spettacolo non risultasse così tremendamente, orribilmente pericoloso…

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L’auto-sigaro che avrebbe sostituito i carri armati

Era il 1954 quando la 38° gara delle 500 miglia di Indianapolis, tenuta nel più antico e celebre dei circuiti cosiddetti “ovali” statunitensi, fu trasmesso interamente in radio per la seconda volta nella storia. Si trattò di un evento privo di particolari sorprese, nel quale i primi 110 giri sarebbero trascorsi senza alcun tipo d’incidente (un’evenienza piuttosto rara) e il titolo sarebbe stato portato a casa dal pilota di origini serbe Bill Vukovich, per la seconda volta di seguito nella sua brillante carriera. Ad ascoltare senz’altro l’evolversi della situazione, c’erano gli impiegati della vicina fabbrica Marmon-Herrington, che si era precedentemente occupata, durante la guerra, di produrre il carro armato su commissione britannica M22 Locust, e che oggi costruiva soprattutto componenti per autocarri e trattori di vario tipo. Soprattutto, ma non solo. Poiché erano trascorsi ormai esattamente 5 anni, da quanto l’inventore Elie Aghnides aveva fatto il suo ingresso tra quelle mura, portandosi dietro quella che avrebbe costituito al tempo stesso un’opportunità senza precedenti, una sfida ingegneristica e in ultima analisi, purtroppo, una colossale perdita di tempo. Stiamo parlando del progetto per un veicolo che avrebbe potuto cambiare le carte in regola di qualsiasi futuro conflitto armato. Se soltanto l’Esercito Americano avesse accettato di vedere un po’ più in là del suo naso e investire, per una volta, in qualche cosa di totalmente inaudito. Era una giornata di sole, dunque, quando l’addetto alla cinepresa diede il segnale che era pronto a riprendere lo storico momento, mentre la cupola sopra l’insolito apparato, appena completato il turno all’interno del capannone principale, veniva aperta dal suo ideatore in persona, che con il sorriso più ampio che si potesse immaginare saliva a bordo e impugnava la cloche. del tutto simile a quella di un aereo. Un’improvvisa vibrazione, quindi, percorse la bizzarra astronave, mentre gli addetti si affrettavano a farsi da parte, e con un tonfo sordo, il veicolo scavalcava l’apposito fermo collocato sul suolo dell’ampia e luminosa struttura. Con assoluta linearità e senza scossoni, dunque, le 5 tonnellate di alluminio, acciaio e gomma fecero il loro ingresso nella storia, puntando dritto verso la riva più vicina del fiume White.
Il che non avrebbe costituito necessariamente un problema, perché il Rhino, oppure Polywog (girino) per usare il nome non definitivo, era un mezzo perfettamente anfibio. Basta un singolo sguardo per rendersene conto: la forma allungata simile allo scafo di un’imbarcazione, nessuna apertura nella parte inferiore, le quattro ruote di cui due colossali davanti e due molto più piccole dietro, dalla forma di altrettanti emisferi, che facevano sospettare un’interno cavo. Ed in effetti, era proprio così. Concepito nell’idea del suo committente come una risorsa militare perfetta per difendere i più inaccessibili recessi dell’Alaska e del Canada, questo bizzarro fuoristrada non si sarebbe fermato dinnanzi a nulla. Meno che mai, un corso o uno specchio d’acqua. Circostanza dinnanzi alla quale, senza esitazione alcuna, il pilota avrebbe puntato dritto al di là dell riva, dove avrebbe avviato il propulsore orientabile a getto nella parte posteriore, per procedere alla velocità non esattamente vertiginosa di 6,5 Km orari. Ma fuori dall’acqua le cose cambiavano notevolmente, visto che il Rhino non era nulla, se non adattabile alle circostanze: fino a 72 Km orari su strada (limitati per via delle leggi stradali a 40) grazie alla strisce gommate applicate sugli emisferi, e un valore intermedio tra l’uno e l’altro estremo su suolo sterrato, sabbia e fango, che si diceva amasse, per l’appunto “come un rinoceronte”. Dotato di quattro ruote sterzanti e a seconda dell’attivazione di un apposito comando, anche motrici, il veicolo poteva inoltre ruotare agilmente su se stesso, mentre il suo baricentro estremamente basso avrebbe reso essenzialmente impossibile un cappottamento. Ciò che lo rendeva assolutamente unico, ad ogni modo, era proprio questa forma a emisfero delle sue grandi ruote, le quali nel caso di attraversamento di un terreno particolarmente morbido, tale da far sprofondare il veicolo, avrebbero progressivamente aumentato la superficie di contatto e conseguentemente la capacità di trazione. Praticamente nulla, dunque, avrebbe potuto fermare questo carro dei sogni dal raggiungimento del suo obiettivo. Ma da dove, esattamente, era venuto?

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