La saga degli scheletri scintillanti

Scheletri ingioiellati
Via

C’è stato un tempo in cui gli scheletri passavano in processione per le vie della Roma, si vestivano d’oro e partivano all’indirizzo di chiese lontane. Altro che fuga di cervelli! Era il XVII secolo, quando la città eterna rappresentava il centro nevralgico della cultura e delle molte filosofie d’Europa. Ad essa, con le sue cupole e cattedrali, accorrevano le principali menti pensanti, le più abili mani d’artista e gli ambasciatori di ogni repubblica o regno, per quanto potenti, orgogliosi e remoti. Eppure, all’ombra di tale incontrastata maestosità, germogliavano i primi semi dello scontento. A pochi passi dai grandi teatri e dalle basiliche dei potenti, dilagavano i drammi della miseria e della malattia. I mendicanti morivano di fame, fra mille predicatori e medici ciarlatani. Si viveva nel costante terrore della peste, grande sterminatore dei popoli urbani dal Medioevo in poi. E al tempo stesso imperversava, a nord, lo spettro dell’eresia. Molte cose erano cambiate dal tempo dalle 95 tesi di Martin Lutero, fatalmente affisse alla porta della chiesa di Wittenberg, e una dinastia straniera poteva fregiarsi del titolo di Re dei Romani, con grande dispiacere dei potenti in Vaticano e di colui che in persona, volta per volta, occupava il seggio di Pietro. Il papa, tuttavia, per riacquistare il prestigio dei secoli passati poteva sfruttare un’arma davvero significativa: la cultura delle immagini. A quei tempi, ovviamente, non c’erano mezzi di comunicazione, come la radio o la tv, e dunque mancavano vere forme popolari d’intrattenimento. Al posto di esse una valida alternativa: le splendide chiese barocche. Si andava a messa per salvare la propria anima, si, ma anche per sperimentare il fascino di quella ritualità, per apprezzare lo splendore decorativo racchiuso fra tali mura e soprattutto, più di ogni altra cosa, per poter dire di aver conosciuto un santo. Questi erano ovunque e si presentavano in molti modi, talvolta strani e stupefacenti. Certo, non era proprio come incontrarli in carne ed ossa….Al massimo, qualche volta, c’erano tutte le ossa.

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Guidando agili nel Pozzo della Morte indiano

Wall of Death 0

Difficile trovare un senso spirituale nella guida. I veicoli a motore e le strade asfaltate sono, il più delle volte, quanto di più lontano possa esistere dalla meditazione e la poesia. Ci si mette al volante per raggiungere un luogo, trasportare cose, trionfare su pista in gare di natura sportiva. Eppure in uno dei luoghi più sacri della terra, nel pieno svolgersi di un importante momento collettivo dedicato all’arricchimento religioso e alla celebrazione induista, il Mauta kā Ku’ām (Pozzo della Morte) sembra assumere un valore nuovo. Sarà l’estetica rimediata ma entusiastica dell’arena in cui si svolge, quasi una reinterpretazione orientale della Sfera del Tuono del cinema post-apocalittico Mel Gibsoniano. Sarà l’approccio spericolato di ogni parte coinvolta, dai folli guidatori di vecchie utilitarie ai centauri dotati di moto e motorini potenziati in casa, con parti improvvisate o prese in prestito da qualche amico. Da un certo punto di vista questa peculiare forma d’intrattenimento, molto amata nel sub-continente indiano, è anche il più perfetto incontro tra la cultura americana degli sport estremi e la trascendenza tipica di alcune filosofie orientali, capaci di reinterpretare a modo loro i concetti stessi del rischio e del pericolo. Fermata per un attimo la strana giostra, uno di loro declama solenne “Non sono un eroe, è solo il pubblico che mi ritiene tale” Poi ricomincia a girare.

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