All’inizio del secolo scorso, l’Africa si presentava ancora come un vasto mondo pieno di misteri irrisolti, dove un viaggiatore poteva perdersi nel tentativo di chiarire le indistinte connessioni tra i diversi rami derivanti dal forte tronco dell’evoluzione. Va tuttavia considerato come, nella maggior parte dei casi, gli apripista di un simile ambito non fossero dei veri scienziati dediti ad un metodo rigoroso ed attento, bensì praticanti consumati di quello stile di vita in genere chiamato “avventuroso” applicato nello specifico all’irruento hobby della caccia d’intrattenimento o “sportiva”. Non c’è quindi molto da meravigliarsi se importanti notizie scritte nei mensili accademici e le riviste di biologia derivino da personaggi come il celebre Richard J. Cunninghame, responsabile tra le altre cose di aver salvato l’ex presidente americano T. Roosevelt dall’attacco di un ippopotamo, sparandogli con un fucile di grosso calibro durante la famosa spedizione del 1910. Ma non prima di aver conosciuto di seconda mano, ed riportato nei suoi scritti, l’esperienza vissuta dal collega francese con residenza a Nairobi M. Le Petit, che durante la sua escursione di caccia nel 1907 presso i territori odierna Repubblica Democratica del Congo ebbe modo di sperimentare, per la prima volta, qualcosa di assolutamente inusitato. Trovandosi presso l’incontro del fiume che avrebbe dato il nome alla nazione ed il suo tributario Kassai, egli scorse sulla distanza quella che poteva essere soltanto la testa ovoidale di un grosso mammifero emergere dalle acque opache a causa dei sedimenti contenuti all’interno. Inizialmente simile alla forma e dimensione di un ippopotamo, a parte le bizzarre proporzioni, finché all’improvviso non emerse esibendo due caratteristiche decisamente discordanti da quella tesi: in primo luogo, un lungo collo taurino e secondariamente, una vistosa proboscide ricurva verso il basso, caratteristica del tutto sufficiente a supportare la qualifica di elefante. Ma di un tipo mai riportato prima da occidentale per iscritto, essendo tra le altre cose privo di evidenti zanne, dotato di una pelle lucida che rifletteva la luce solare e quasi del tutto glabro. In molti, a questo punto, sarebbero stati inclini a suggerire che potesse trattarsi di una svista, se non fosse per il contributo offerto dalle guide native, che non esitarono a chiamare tale bestia in lingua Teke: ndgoko na maiji (letteralmente: elefante d’acqua) raccontando di come nonostante la sua rarità, potesse occasionalmente costituire un rischio per gli utilizzatori di canoe lungo i corsi d’acqua locali, tendendo a farle rivelando improvvisamente la sua presenza. Fraintendimento o meno, dunque, pochi mesi dopo Le Petit avrebbe incontrato nuovamente questo animale…
pachidermi
Riconsiderando la complessa relazione tra il bradipo preistorico e il frutto dell’avocado
Non succede particolarmente spesso che un producer di video divulgativi su YouTube sollevi una questione biologica oggettivamente del tutto nuova per il pubblico, e benché ampiamente nota in determinati circoli accademici purtroppo mai discussa, di fronte all’opinione pubblica, per lo meno con l’ampia considerazione che avrebbe meritato. Per l’oggettivo spunto di riflessione che ci può fornire, in merito all’evoluzione, l’ambiente preistorico, gli alterni sentieri e metodi della natura. Così Adam Crume, ambasciatore scientifico del canale SciShow è comparso lo scorso 19 dicembre online con un titolo esplicitamente provocativo: “Tutti si sono sempre sbagliati sull’avocado. Inclusi noi.” E una breve, quanto pregna trattazione di una di quelle percezioni generalmente diffuse, in forza di una serie di circostanze pregresse, fino al punto di essere diventate delle vere e proprie roccaforti. Ovvero la seguente concatenazione di cause ed effetti: l’albero tropicale mesoamericano di Persea americana, per come lo conosciamo, è un vero e proprio anacronismo. Questo per la dimensione del suo seme, sproporzionatamente enorme ed in funzione di ciò praticamente impossibile, per qualsiasi creatura attualmente esistente, da trangugiare tutto intero. Ciò anche senza considerare il suo contenuto di tossine, sufficientemente elevato da poter venire tritato, ad esempio, per la produzione di un veleno per topi tradizionale. Quale appartenente al mondo animale, dunque, aveva la capacità e propensione di provvedere alla diffusione di tale pianta? Soltanto due famiglie, appartenenti alla categoria della megafauna di quel mondo, con origini rispettivamente nelle epoche del tardo Oligocene (25 mya) e del Pliocene (5,2-2,3 mya) avrebbero potuto vantare la capacità di farlo. Sto parlando dei gomfoteriidi, pachidermi proboscidati vagamente simili a degli elefanti con quattro zanne, e dei megateri, colossali bradipi di terra che potevano anche raggiungere i 6 metri in determinate specie. Creature primariamente erbivore (nel secondo caso, non solo) la cui dieta per quanto ci è stato possibile desumere conteneva effettivamente le foglie di piante ad alto fusto e potenzialmente, anche i loro frutti e semi dal variabile grado di tossicità, che avrebbero potuto metabolizzare possedendo stomaci di ferro analoghi a quello dell’odierno rinoceronte. Così venne teorizzato, per la prima volta nel da Wolstenholme and Wiley nel 1999, riallacciandosi a uno studio di 17 anni prima di Janzen and Martin, che l’avocado in questione potesse avere una stretta relazione simbiotica con queste creature, riuscendo nonostante questo a sopravvivere successivamente alla loro estensione. Un’ipotesi ulteriormente sostenuta nel famoso saggio del 2002 della studiosa Connie Barlow “I fantasmi dell’evoluzione” il quale avrebbe ulteriormente cementato questa percezione ritenuta effettivamente utile ad avvicinarsi all’inspiegabile realtà dei fatti. Almeno finché a qualcuno, da qualche parte, non fosse venuto in mente di porsi le domande adeguate…
La leggiadra sensazione di chi gioca a basket con il suo amico elefante
“Sorellona, stai pronta. Al mio tre vado a canestro” Disse il giovane scattante mentre faceva rimbalzare la palla, lo sguardo dardeggiante ai lati per dribblare una difesa inesistente. “Tre…” Lei fece un ponderoso passo avanti, mentre estendeva il suo arto flessibile fino a coprire l’intera area dei tre punti. “…Due…” Una finta, un saltello di lato, una rapida giravolta attorno e sotto i fianchi del mastodonte in paziente attesa. “…Uno…” Kimba ben sapeva cosa stava per succedere; in effetti, lo capiva molto meglio delle regole e lo scopo di un simile gioco creato dagli umani, il cui funzionamento aveva sempre eluso la sua mente di un eccezionale pragmatismo “Eee… Op, là!” Ma se c’era una cosa che Kimba avrebbe sempre mantenuto in altissima considerazione, questa era soddisfare le aspettative del suo fratellino maggiore. L’artista ed atleta ex-circense noto come Elephant Boy mise il suo piede destro sopra il trampolino, mentre uno dei membri più imponenti della sua famiglia schiacciava con tutto il peso l’altro lato dell’oggetto basculante. Con un sorriso a denti stretti, frutto di una consumata pratica, il ragazzo si staccò quindi da terra, volando agevolmente ad un’altezza di quattro metri e mezzo. La sfera marrone ben stretta tra entrambe le mani, in una posa imitata direttamente dai migliori giocatori dell’NBA, calò quindi dall’alto sopra quell’anello orizzontale, poco prima di raggiungere con svelto capitombolo la coppia di materassini usati per attutire il suo ritorno sulla terraferma. Il pubblico asimmetrico dietro lo schermo di un computer, all’unisono, si lanciò in un applauso clamoroso. Ben fatto, ben fatto amica mia. Sapevo che ci saresti riuscita!
È un tipo di spettacolo che viene da un contesto stranamente familiare, benché nel contesto del mondo moderno sembrerebbe aver perduto molta della sua poetica funzione originaria. Al punto che l’inconfondibile atmosfera del tendone, coi suo acrobati, clown e gli immancabili animali, si accompagna ad un alone di rimprovero latente che se pure ha una radice logica immanente, può trovarla soprattutto presso l’opera di praticanti poco etici o magari privi d’esperienza. Laddove i membri della famiglia ungherese del tedesco René Casselly Jr, circensi da sette generazioni, raccontano di aver sempre considerato i propri compagni quadrupedi alla stregua di letterali parenti, una tradizione continuata anche dall’ultimo esponente di questa lunga linea di successo e fama imperitura. Almeno finché all’inizio del 2020, complice un periodo economico tra i più difficili del secolo trascorso, lui, suo padre e sua madre hanno deciso di smettere la vita itinerante che avevano condotto fino a quel momento per investire una somma considerevole in un cambio radicale di stile di vita. Acquistando un terreno di 40.000 metri quadri presso Töltéstava, Pozsgai al fine di costituire un sito di pensionamento, rifugio nonché parco zoologico per i propri fedeli elefanti, una giraffa di nome Sabu nonché varie ed eventuali creature tipiche di una qualsiasi fattoria. Abbastanza da avviare un business ragionevolmente redditizio, a patto di sapersi vendere e coltivare la propria immagine anche a livello internazionale. Un obiettivo per il quale, fortunatamente, sarebbe stato proprio il giovane erede di tutto questo a riuscire ad illuminare la strada. Già vincitore assieme al resto della famiglia del Golden Clown Award durante il 36° Festival di Montecarlo del 2012, all’età di soli sedici anni, René ha potuto quindi contare sulla partecipazione l’anno successivo alla stagione del Gran Circo Metropolitano di Budapest, per poi vincere nel 2014 anche il 10° festival dell’Ungheria. Poco dopo tale premio, un nuovo record: l’ulteriore primo posto, questa volta nella categoria individuale dei giovani, del Festival di Montecarlo, diventando il primo a vincerlo due volte nella sua lunga e prestigiosa storia fino a questo momento. Ma la fama all’estero sarebbe stata incrementata in modo esponenziale, paradossalmente, tramite la partecipazione ad un tipo completamente differente di show, la celebre competizione atletica Ninja Warrior, nella cui edizione tedesca sarebbe diventato un eterno finalista per tutto il periodo a partire dal 2017. Agile all’inverosimile, inflessibile nel mantenere la più perfetta forma fisica, Caselly pensò a questo punto di massimizzare la sua fama su Internet, mediante la creazione di profili sui più famosi social network ed oltre. E questo è l’inizio, in buona sostanza, di un tutt’altro tipo di storia…
Il coraggio di una guida turistica di fronte alla furia degli elefanti
Molte sono le cose di cui tener conto mentre si percorre una strada sterrata sudafricana all’interno del selvaggio territorio del Kruger Park. Ci sono ostacoli sul sentiero? Pozzanghere dall’area sospetta, capaci di nascondere buche eccessivamente profonde? Ci sono branchi di bufali che minacciano di attraversare? Leoni, ghepardi, famiglie di antilopi o impala? Ciò che normalmente non preoccupa il sistema di sicurezza ereditario dell’istinto umano, è la possibilità di trovarsi all’improvviso di fronte ad un pachiderma alto all’incirca 4 metri per 6 tonnellate di peso, ovvero caratterizzato da dimensioni superiori rispetto allo stesso veicolo che diventa, in quel caso, un’ancora di salvezza capace di riportarci sani e salvi nel familiare reame della civiltà umana. E comprensibilmente arrabbiato, per la rumorosa intrusione all’interno del suo sacro territorio. Più o meno quello che capitò a Lee Fuller ed il suo collega Alan Yeowart (utilizzatore della telecamera l’uno, uomo al volante l’altro) durante una “tranquilla” lezione sul comportamento del genus Loxodonta, comunemente detto elefante africano. Ma aspettate, c’è dell’altro: poiché col progredire dei fatali secondi, mentre l’autista col ghiaccio nelle vene si affretta ad arrestare il veicolo al fine di non peggiorare ulteriormente la situazione, al propagarsi di un’inaudibile fruscio tra le fresche fronde della foresta, ombre nere si profilano all’orizzonte: non era questo in effetti un esemplare solitario, bensì il membro maschio di un branco al comando di una solenne matriarca proboscideale, con tutto il suo seguito di ancelle, spasimanti e almeno un cucciolo, momentaneamente visibile ai margini dell’inquadratura. Terrore. Ansia incrementata dall’eco di assordanti barriti sempre più prossimi al parafango. L’orribile realizzazione di trovarsi in quel doloroso attimo, essenzialmente, a pochi minuti dalla fine della propria esistenza in Terra. Tutti conoscono, ovviamente, la rabbia che una mamma orsa coi piccoli può scatenare al pensiero, più o meno giustificato, che la propria prole stia subendo un qualche tipo di minaccia. Ed ora immaginate la stessa cosa, moltiplicato fino al peso di un furgone delle consegne di Amazon, con due lunghe zanne che partono dal punto in cui dovrebbero trovarsi gli specchietti retrovisori! Ora, ci sono diversi comportamenti che possono essere scelti in un simile frangente: forse quello istintivamente più convincente potrebbe risultare il rapido inserimento della retromarcia, per dare massima potenza ai motori con la finalità di far scomparire il pericolo dietro una curva, per poi effettuare una rapida inversione a U. Ciò ha diversi vantaggi ovviamente, tra cui quello che gli elefanti, almeno in linea di principio ed in quanto erbivori, non dovrebbero presentare alcuna naturale pulsione all’inseguimento. Ma ci sono anche rischi significativi, il primo dei quali potrebbe essere sbagliare la manovra, finendo di traverso con il veicolo o peggio, contro un cespuglio poco visibile, quindi momentaneamente bloccati mentre i titani grigiastri avanzano con occhi di brace fino alla fiancata della scatoletta di metallo contenente quegli ospiti sommamente indesiderati. E non è affatto difficile immaginare ciò che potrebbe succedere, di lì a poco…