Il coraggio di una guida turistica di fronte alla furia degli elefanti

Molte sono le cose di cui tener conto mentre si percorre una strada sterrata sudafricana all’interno del selvaggio territorio del Kruger Park. Ci sono ostacoli sul sentiero? Pozzanghere dall’area sospetta, capaci di nascondere buche eccessivamente profonde? Ci sono branchi di bufali che minacciano di attraversare? Leoni, ghepardi, famiglie di antilopi o impala? Ciò che normalmente non preoccupa il sistema di sicurezza ereditario dell’istinto umano, è la possibilità di trovarsi all’improvviso di fronte ad un pachiderma alto all’incirca 4 metri per 6 tonnellate di peso, ovvero caratterizzato da dimensioni superiori rispetto allo stesso veicolo che diventa, in quel caso, un’ancora di salvezza capace di riportarci sani e salvi nel familiare reame della civiltà umana. E comprensibilmente arrabbiato, per la rumorosa intrusione all’interno del suo sacro territorio. Più o meno quello che capitò a Lee Fuller ed il suo collega Alan Yeowart (utilizzatore della telecamera l’uno, uomo al volante l’altro) durante una “tranquilla” lezione sul comportamento del genus Loxodonta, comunemente detto elefante africano. Ma aspettate, c’è dell’altro: poiché col progredire dei fatali secondi, mentre l’autista col ghiaccio nelle vene si affretta ad arrestare il veicolo al fine di non peggiorare ulteriormente la situazione, al propagarsi di un’inaudibile fruscio tra le fresche fronde della foresta, ombre nere si profilano all’orizzonte: non era questo in effetti un esemplare solitario, bensì il membro maschio di un branco al comando di una solenne matriarca proboscideale, con tutto il suo seguito di ancelle, spasimanti e almeno un cucciolo, momentaneamente visibile ai margini dell’inquadratura. Terrore. Ansia incrementata dall’eco di assordanti barriti sempre più prossimi al parafango. L’orribile realizzazione di trovarsi in quel doloroso attimo, essenzialmente, a pochi minuti dalla fine della propria esistenza in Terra. Tutti conoscono, ovviamente, la rabbia che una mamma orsa coi piccoli può scatenare al pensiero, più o meno giustificato, che la propria prole stia subendo un qualche tipo di minaccia. Ed ora immaginate la stessa cosa, moltiplicato fino al peso di un furgone delle consegne di Amazon, con due lunghe zanne che partono dal punto in cui dovrebbero trovarsi gli specchietti retrovisori! Ora, ci sono diversi comportamenti che possono essere scelti in un simile frangente: forse quello istintivamente più convincente potrebbe risultare il rapido inserimento della retromarcia, per dare massima potenza ai motori con la finalità di far scomparire il pericolo dietro una curva, per poi effettuare una rapida inversione a U. Ciò ha diversi vantaggi ovviamente, tra cui quello che gli elefanti, almeno in linea di principio ed in quanto erbivori, non dovrebbero presentare alcuna naturale pulsione all’inseguimento. Ma ci sono anche rischi significativi, il primo dei quali potrebbe essere sbagliare la manovra, finendo di traverso con il veicolo o peggio, contro un cespuglio poco visibile, quindi momentaneamente bloccati mentre i titani grigiastri avanzano con occhi di brace fino alla fiancata della scatoletta di metallo contenente quegli ospiti sommamente indesiderati. E non è affatto difficile immaginare ciò che potrebbe succedere, di lì a poco…

Il rapporto pluriennale degli elefanti con le automobili rappresenta una colorita vicenda ricca di amore e odio. Che può comportare, in determinate quanto problematiche situazioni, l’apparente desiderio di trasformare la quattroruote in un amaca composta da contorte lamiere fumanti.

Del resto, lo sappiamo tutti fin troppo bene: di fronte agli animali selvatici si consiglia d’evitare qualsiasi tipo di movimento brusco. E se ciò vale per gli spostamenti prodotti dalle nostre gambe, ancor più risulta vero per quelli accoppiati al ruvido suono di un motore rinchiuso nel cofano, capace di peggiorare l’indole già molto alterata di un mammifero entrato in modalità “scappa o distruggi”. Ecco perché la guida sudafricana, piuttosto che accelerare al massimo della velocità spinge delicatamente il pedale, portando la sua velocità massima a quella di spostamento normale di un elefante. Ma è proprio a causa di questo, che un diverso tipo di sfida si profila di fronte alla tranquilla esecuzione della manovra: come mantenere tranquilli gli altri, potenzialmente disinformati o inclini al panico, occupanti dei sedili del fuoristrada? La risposta appare più che mai evidente: spiegando, passo passo e con voce pacifica, tutte le implicazioni meno evidenti della casistica che si sta vivendo. “Piano, piano, lentamente. Loro non hanno davvero intenzione di attaccarci. Dobbiamo soltanto mantenere un’area di calma apparente ed il più possibile, contagiosa…” E così via a seguire, in una serie di frasi sussurrate ed appena udibili al di sopra del suono del motore, il cui tono ricorda vagamente quello di un esperto ipnotizzatore. Così lo stratagemma, chiaramente già collaudato, funziona: evidentemente convinti di aver affidato la propria vita a una persona esperta, i turisti non alzano la voce, non si mettono a gridare e quel che è maggiormente importante, non sembrano cedere al richiamo melenso dell’assoluto panico, capace di uccidere la mente, ancor prima di mettere a rischio quel corpo che la sostiene.
Mentre a noi che osserviamo tranquillamente da casa, potrebbe naturalmente insorgere un più che giustificato interrogativo: come faceva a sapere, quest’uomo, che gli elefanti non avrebbero caricato? Beh, in effetti e contrariamente a quanto si potrebbe pensare, considerata l’intelligenza e complessità del cervello di questi animali (con fino a 5 Kg di materia grigia) esistono dei particolari modi. Di cui scrissero, in momenti diversi ma entrambi spesso riportati online, i due naturalisti George Schaller (tedesco) e Iain Douglas-Hamilton (inglese) quest’ultimo particolarmente noto per i suoi progetti di conservazione a vantaggio di questi magnifici animali e gli svariati libri prodotti sull’argomento. Sebbene fosse stato il suo collega continentale, verso la metà degli anni ’90, a notare ed analizzare nei propri video la serie di quei segni considerati rivelatori, nell’interpretare l’effettivo stato d’animo di un protettore zannuto del branco. Primo e più evidente dei quali, risulta essere la posizione delle orecchie: portate all’indietro lungo il corpo, nel caso in cui egli abbia effettive intenzioni malevole, oppure aperte in posizione perpendicolare ad esso, nel caso in cui l’obiettivo sia rendersi ancor più grandi al fine di spaventare un potenziale nemico, senza dover ricorrere alla violenza. Mentre un altro aspetto di cui tener conto, allo stesso tempo, è il movimento della proboscide e delle zampe. Le quali, nel caso in cui vengano sollevate in alternanza e fatte oscillare da una parte all’altra, lasciano intendere un chiaro stato d’incertezza, piuttosto che come si potrebbe inizialmente tendere a pensare, crescente nervosismo. Detto questo, l’interpretazione del linguaggio del corpo degli animali non è mai una scienza esatta, poiché si occupa di trarre indicazioni da uno stato fluido in continuo divenire. E un elefante non è propriamente un computer, che si comporta sempre nello stesso identico modo previsto dal suo programma.

Un altro esempio di supremo coraggio di fronte al pericolo che avanza: la guida turistica e studioso Alan McSmith affronta l’enorme creatura mostrandosi calmo e inamovibile. Il che sembra sortire, all’ultimo secondo, esattamente l’effetto desiderato. Dopo tutto, i segni apparivano molto chiari…

Il problema principale, ad ogni modo, resta il fatto che l’elefante, per una ragione o per l’altra, non rientra tra quegli animali che la cultura popolare moderna ci ha insegnato a considerare un pericolo immediato, nonostante le circa 500 persone che perdono la vita a causa di questi animali dopo il trascorrere medio di un anno. Ciò perché gli antichi territori, un tempo appannaggio esclusivo del gran gigante della foresta, vengono progressivamente occupati da campi coltivati, infrastrutture turistiche o altre moderne amenità. Senza preoccuparsi in alcun effettivo modo, prima di espandersi, d’inviare comprensibile comunicazione diplomatica ai soli veri proprietari di questi luoghi. E soltanto valide ad arginare il problema, piuttosto che risolverlo, si sono dimostrate soluzioni come l’iniziativa promossa dallo stesso Iain Douglas-Hamilton di Elephant & Bees, mirante a scoraggiare l’attacco dei titani mediante una maggiore diffusione sul territorio africano della pratica dell’apicultura, secondo l’idea dimostrata che tali insetti vantino la capacità di spaventare a morte coloro che sono diventati, loro malgrado, gli unici intrusi. Finché inevitabilmente, avviene l’incontro con una guida/turista/agricoltore/addetto alla foresteria.
Ed allora, non resta molto da fare: poiché un elefante corre su brevi tratti alla velocità media massima di 35-40 Km/h, abbastanza per travolgere qualsiasi umano in fuga non sia Usain Bolt, senza neppure il bisogno di girare intorno ad ostacoli come siepi e piccoli alberi che rallenteranno la nostra fuga. E neppure fingersi morti, a quanto pare, sembra sortire l’effetto sperato: vista la capacità da parte di simili animali di mettere l’inganno alla prova, calpestando il presunto “cadavere” ormai totalmente privo di difese. L’unica speranza, in campo aperto, è quella di lanciare un cappello come distrazione e salire su un alto e robusto albero, come un baobab. Ma non è sempre possibile individuare, nell’attimo del più tremendo bisogno, la rassicurante sagoma di un baobab.

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