Come il formicaleone sazia la sua grande fame

Anche se non lo ricordate, l’avete sperimentato più volte. Ogni mattina in cui vi svegliate e siete già stanchi, come se aveste corso affannosamente per una notte intera. Quando il Sole splende senza scaldare la vostra anima, e un senso d’ansia grava ai confini della vostra personalità. Una profonda voragine nel cuore, specchio del foro sul sentiero che conduce all’annichilimento. Se in altri termini, siete già sicuri che si tratti di uno di “quei” giorni, non è detto che sia del tutto un caso. Potreste aver fatto l’esperienza del formicaleone. Non l’insetto in quanto tale, s’intende. In effetti è piuttosto raro che questo càpiti durante la fase R.E.M. (non impossibile) bensì quel drammatico concetto che lui ha introdotto nel mondo, ovvero l’inesorabile destino che lentamente, immancabilmente, condanna ogni cosa che gli riesca da catturare. Nient’altro che una buchetta, osservata dall’uomo fin dal tempo dei greci e dei latini, dal diametro di fino a una decina di centimetri. E una pinza seghettata sul fondo. Che non è, nonostante le apparenze, un’oggetto, bensì la mandibola di un insetto. Uno dei più malefici che la scienza abbia mai descritto. Gobbuto, dalla forma simile a quella di una zecca. Talmente ingordo da non avere neppure l’ano. Affinché ogni micron di ciò che fagocita, non venga defecato fino alla costituzione del bozzolo finale. Avete mai sentito niente di più mostruoso?
In effetti, è piuttosto raro che si presenti l’occasione di vederne l’intera, orribile forma. Esso non ha interesse alcuno ad uscire dalla sua tana, dove si è specializzato, piuttosto, nel far scivolare giù il cibo. Pensate al Sarlacc di Tatooine, mostrato all’inizio del terzo film di Guerre Stellari: nient’altro che denti nel sottosuolo, ed un paio di tentacoli che sbucano ad agguantare gli sfortunati nemici dei protagonisti. Eppure strano a dirsi, ma un simile comportamento è assolutamente coerente col vero animale che l’ha ispirato. Un ottimo esempio di rappresentazione della natura per fini d’intrattenimento, appendici raptoriali escluse. Ma ce ne sono molti altri, sopratutto nei videogiochi: il Devalant di Zelda, che può essere colpito solamente quando fa emergere la testa dalla sabbia; lo Snipper di Kirby, dalle enormi mandibole animate; il Pokémon delle sabbie Trapinch, in grado di evolversi in un vero e proprio insetto-drago; per non parlare degli innumerevoli giochi d’avventura a scorrimento bidimensionale, tra cui Super Mario, Sonic, Mega-Man, Srider, Cave Story…. Non c’è niente di più facile da rappresentare su una visione di profilo dello scenario, che una trappola con pareti diagonali abitata da una pericolosa creatura in agguato. L’unico comportamento possibile per la forma pre-adulta delle circa 2.000 specie che compongono la famiglia cosmopolita dei mirmeleontidi, piccoli predatori che giacciono in agguato, come i ragni nella loro costruzione di tela. A ben pensarci, non è così strano che l’aspetto volante del formicaleone sia molto più noto della sua forma larvale: dopo tutto, esso può rimanere in tale stato per diversi anni. Mentre una volta sfarfallato e trovata la sua compagna, vivrà appena una ventina di giorni, nutrendosi del nettare e del polline che gli riuscirà di trovare, nella specifica regione della sua provenienza. Ma qualche volta l’insetto abita nel pieno deserto, come nell’esempio della scena qui mostrata dalla BBC Earth, dove fonti di alimentazione vegetale risultano tutt’altro che abbondanti. A differenza di quelle fornite involontariamente da un’altro abitante di questo clima estremo, la formica del genus Ocymyrmex. La quale ben conosce il rischio di surriscaldamento che comporterebbe fermarsi sulla sabbia cotta dal Sole, e proprio per questo, deve fare dei sogni del tutto simili a quelli degli umani: l’incapacità di fuggire, nonostante lo sforzo, dalle profondità miserabili, mentre corri e corri, non fai che ritrovarti sempre allo stesso punto. Ed anzi, scivoli lentamente, sempre più giù.
Non è possibile sfuggire alla trappola del formicaleone, perché lui l’ha perfezionata di padre in figlio, attraverso innumerevoli generazioni. Attraverso al sapienza biologica che noi definiamo “istinto” ha quindi raggiunto il punto dell’assoluta perfezione, in cui ogni singolo granello sostiene quello immediatamente soprastante ma non potrebbe mai farlo con due. Così all’ingresso di una presenza estranea, come la zampettante formica separata dal gruppo, inizia una reazione a catena, che lentamente, progressivamente, la porterà a cadere sul fondo dell’intera questione. Certo, qualche volta può capitare che l’insetto catturato sia sufficientemente agile, o fortunato, da rallentare e potenzialmente invertire il processo. Ma anche per quello, il divoratore ha un piano: la sua testa piatta, con la forma esatta di una pala, può infatti essere impiegata per sollevare la sabbia e lanciarla con precisione verso i margini della fossa. Gesto a seguito del quale, persino il più equilibrato dei visitatori non potrà far altro che rassegnarsi a venir trascinato giù dalla frana. Dove il padrone di casa, senza un’attimo di esitazione, lo morderà, iniettando una micidiale sostanza paralizzante. Seguìta dai succhi gastrici dell’animale, che inizieranno a corrodere la preda dall’interno. A quel punto, tutto quello che resta da fare sarà succhiarne le gustose interiora, trasformate per l’occasione in un delicato purée.

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L’artiglio del velociraptor che vive ancora

È difficile talvolta interpretare la vera natura degli animali, e diventa ancora più difficile quando la creatura presa in considerazione, purtroppo, si è estinta da tempo. Vedi ad esempio il dromaeosauride per eccellenza, reso celebre nella seconda metà degli anni ’90 dal film di fantascienza Jurassic Park, come un feroce e scaltro predatore, in grado di dare la caccia spietatamente ad un gruppo d’umani coinvolti loro malgrado dal corso degli eventi. Nel 2007, quindi, la scoperta: segni dell’ancoraggio di piume sopra un fossile ritrovato in Mongolia. Gli esperti l’avevano a lungo sospettato, e adesso ne avevano la prova: questo veloce, piccolo e spietato dinosauro (così vuole lo stereotipo) non era primariamente un rettile. Bensì un uccello. Siamo soliti definire il coccodrillo come l’ultimo erede della genìà dei raptor, il che è sostanzialmente erroneo: poiché il coccodrillo, a quell’epoca, già esisteva. Il discendente più prossimo nelle dimensioni sarebbe lo struzzo, come non-volatile privo di keel, la struttura ossea connessa allo sterno per sostenere il volo attraverso le ali. Ma allo struzzo manca qualcosa, per così dire, di liscio e appuntito. L’arma, il pugnale, il crudele strumento, che per milioni di anni avrebbe fatto di questa intera classe di creature i più feroci dominatori delle pianure. Oggi tutti i ratiti rimasti, questo il nome della categoria, sono esclusivamente erbivori e questo vale anche per il casuario, che mangia per lo più frutta e ne disperde i semi, costituendo una specie chiave dell’ecologia locale. Eppure anche la più pacifica delle bestie, in determinate condizioni avverse, può aver bisogno di fare ricorso all’autodifesa. Ed è per questo che il sistema dell’evoluzione, nella sua infinita ed innata saggezza, non scelse mai privare l’utile creatura del rostro da 125 mm incorporato nel dito centrale di ciascuna zampa, facilmente in grado secondo l’ornitologo Ernest Thomas Gilliard di “tagliare di netto un braccio o recidere una giugulare umana.” Del casuario esistono nominalmente 4 specie:  Casuarius bennetti, alto “appena” 150 cm, un tempo ammaestrato come status symbol dai capi delle tribù della Nuova Guinea; il Casuarius unappendiculatus, dalla grandezza e distribuzione simili, però dotato di riconoscibile collo giallastro; Casuarius lydekkeri, una specie pigmea estinta nel Pleistocene. E poi c’è lui, Casuarius casuarius, anche detto (il) Meridionale, l’impressionante uccello alto più di una persona (fino a 170 cm le femmine) che trova la sua maggiore diffusione selvatica sulle coste del Queensland, la “pinna” geografica che si erge nella parte Nord-Est dell’isola d’Australia. Nel 90% dei casi, quando si parla di questi uccelli ci si sta riferendo a questa specie, di gran lunga la più diffusa e l’unica a trovarsi occasionalmente ad interferire con la società umana. Come accadde l’ultima volta in massa nel 2011 a seguito del ciclone Yasi, che disturbò l’ecosistema e spinse gli uccelli a muoversi verso l’entroterra, invadendo i paesi e le comunità litorali. Il che causò un’ampia serie di problemi, le cui conseguenze stiamo vivendo ancora: poiché le persone, incuranti degli avvisi affissi un po’ ovunque e ripetuti in televisione, fece l’errore di dare da mangiare alle splendide creature, per una sorta di innato, moderno senso d’empatia. Il che le rese, paradossalmente, ancor più pericolose. Si ritiene che un casuario selvatico viva all’incirca 50-60 anni, durante i quali apprende, ricorda ed incamera le sue esperienze. Una volta che questi associa gli umani al cibo, dunque, continuerà a cercarli con insistenza. Restando pronto, nel caso in cui la soddisfazione tardi ad arrivare, ad esporre un sollecito con la sua dote più sviluppata. Ed è allora che il grosso uccello salta in avanti, cercando di uccidere le persone.
L’attacco di un casuario è una visione terrificante, poiché a differenza degli emu o gli struzzi, che notoriamente preferiscono calciare all’indietro, questi balza frontalmente ed allunga il rostro in avanti, sollevandolo quasi all’altezza della testa dotata di una dura cresta ossea, normalmente usata per tenere a distanza la vegetazione. Mentre emette il suo grido di battaglia, un verso cavernoso e profondo che si avvicina sensibilmente alla frequenza più bassa udibile dall’orecchio umano. Ed è allora che ci si rende conto di come una nuova epopea cinematografica, una sorta di reboot scientifico di quel film citato in apertura, potrebbe ipoteticamente risultare anche più spaventoso del suo ispiratore remoto, in cui i dinosauri in questione erano ancora “soltanto” delle lucertole. Ma con la postura, a ben guardarli, di uccelli! Non è certo un caso se esiste una citazione famosa, attribuita ad un non meglio definito guardiano dello zoo, che recita: “Preferirei restare chiuso nel recinto dei coccodrilli, piuttosto che in quello dei casuari.” Dico, vuoi mettere? Un rettile che striscia, contro un uccello che corre. Restando egualmente capace di porre fine alla tua esistenza… Non credo che sarebbero molti, a pensare di dargli torto. Eppure nonostante tutto questo, il casuario è un uccello naturalmente timido, che tende ad eclissarsi al primo suono di provenienza umana. È soltanto in situazioni specifiche ed anomale, che questi può attaccare gravemente una persona. Esiste in effetti un singolo caso documentato di morte, risalente al remoto 1926, quando i due giovani fratelli McClean, 13 e 16 anni, trovarono un esemplare nel loro giardino, e per qualche atavico istinto di diffidenza, presero dei bastoni per tentare di ucciderlo o cacciarlo via. Ma fu allora che l’uccello, sentendosi comprensibilmente minacciato, gli balzò addosso, causando la fuga immediata del più piccolo e la caduta a terra del maggiore, che finì quindi per ricevere una ferita estremamente grave all’altezza del collo causata dal rostro dell’animale. Nel giro di pochi minuti, morì dissanguato. A quanto ne sappiamo, da quel giorno, nessuno attaccò più il casuario con dei bastoni. Tranne, ovviamente, coloro che devono farlo per mestiere.

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Perché ai ragni di mare non serve un cuore

Torreggiante sopra il suolo diseguale del fondale, l’essere largo 90 cm cammina con incedere delicato, tastando con la lunga proboscide la superficie sabbiosa. Il corpo minuscolo, le zampe in proporzione enormi, come i nodosi rami di un albero stregato. Oppure volendo, gli arti di un camminatore alieno, uno di quei mezzi artificiali descritti originariamente nel dramma radiofonico della guerra dei mondi, contro cui le armi degli umani non avrebbero sortito alcun tipo di effetto. D’altra parte, la creatura sembra anche una versione alternativa del face-hugger xenomorfo, il mostro che saltando come un pupazzo a molla fuori dall’uovo, si attacca al volto di un esploratore disattento per immettere dentro all’esofago l’embrione dei suoi discendenti. In realtà è innocuo. Anno dopo anno, schiere di autori letterari, registi e altri creativi si sono industriati nell’inventare degli ambiti extraplanetari, dotati di ecologia o tecnologie completamente disconnesse da quella terrestri. Una mansione tutt’altro che semplice, quando si considera l’estrema biodiversità già presente dinnanzi ai nostri stessi occhi, grazie alla varietà d’ambienti presenti su questo azzurro e multiforme questo pianeta. “Un ragno resta un ragno in mezzo a una foresta, come nelle regioni più remote di un arido deserto.” Disse una volta qualcuno. Il che è perfettamente vero. Ma un ragno del profondo dell’oceano, è tutt’altro, perché appartiene in effetti alla famiglia dei pycnogonidi.
Qualcosa di simile, eppure diverso. Questi artropodi misteriosi, dalla classificazione tutt’ora incerta, dovrebbero in teoria derivare da una costola del gruppo dei chelicerati, il che li avvicina da un punto di vista genetico ad un’altra creatura acquatica apparentemente frutto della fantascienza, il limulo o horseshoe crab (Limulus polyphemus, grosso pseudo-insetto corazzato delle rive sabbiose, con coda rigida e appuntita). Pur non avendo una quantità di fossili sufficienti ad affermarlo con certezza, gli scienziati ritengono che in entrambi i casi si tratti di animali che hanno iniziato il proprio separato cammino dell’evoluzione attorno all’era del Cambriano (541–485.4 milioni di anni fa) sviluppando una serie di adattamenti utili a tornare a vivere sotto la superficie del mare. Primo fra tutti, quello di sintetizzare l’ossigeno direttamente attraverso la pelle, senza l’impiego dell’organo dei polmoni a libro, strumento respiratorio fondamentale per gli aracnidi di terra. Il che significa in parole povere che nel funzionamento morfologico dei nostri amici, è prevista la capacità di assorbire l’acqua ed estrarre da essa il gas che fornisce la vita, che viene quindi fatta circolare attraverso il corpo attraverso due sistemi distinti e paralleli. Il primo è l’emolinfa, una sostanza comune ai colleghi di terra e grosso modo analoga al nostro sangue, in loro pompata attraverso il corpo da un cuore straordinariamente piccolo ed inefficiente. E non è tutto: pensate che in alcune delle specie più piccole (1-2 mm) tale organo non è neppure presente. Questo perché i pycnogonidi, unici nell’intero regno animale, sono in grado di far muovere l’ossigeno attraverso il loro apparato digerente. I primi a scriverne estensivamente sono stati H. Arthur Woods e colleghi, proprio nello studio dello scorso 10 luglio Respiratory gut peristalsis by sea spiders, dove viene osservato come i moti muscolari dei condotti impiegati dai ragni per smaltire le sostanza nutritive assunte durante la loro costante ricerca di cibo fossero troppo energici e regolari, per risultare utili solamente alla digestione. La verità apparve dunque, finalmente evidente: costoro respirano, esattamente come noi mandiamo giù il pranzo e la cena. Esattamente, si fa per dire: in quanto la fonte principale, nel loro caso, ovvero la parte del corpo più grande attraverso cui viene lasciato permeare l’ossigeno, altro non sono che le loro lunghissime zampe. Ed è per questo che il movimento avviene dall’esterno verso l’intero, ovvero il corpo centrale e segmentato, talmente piccolo da contenere, sostanzialmente, i soli organi sensoriali e l’organo necessario ad assumere il cibo. Che può implicare, a seconda della specie presa in considerazione, una doppia tipologia di apparati: cheliceri (denti chitinosi ed aguzzi) e pedipalpi (piccoli arti specializzati) con corta proboscide oppure soltanto quest’ultima, ma molto più lunga, flessibile e articolata. Tutto dipende, ovviamente, da cosa mangi effettivamente la specie presa in esame. Generalmente si tratta creature immobili come spugne, briozoi o policaeti, poiché i ragni di mare non sono effettivamente di un’agilità sufficiente ad andare a caccia con efficienza. Fatto che non gli ha impedito, del resto, di colonizzare pressoché tutti gli oceani della Terra…

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Quante dita ha una lucertola verme messicana?

“VERDE, una lucertola VERDE? Quattro zampe, una testa, una o zero code, a seconda che abbia incontrato o meno un predatore. Ma se tutto volge al meglio, ricrescerà…” Nel piccolo parco giochi nella periferia di Tijuana, il bambino era accovacciato in terra, a lato della panchina, mentre con una lente d’ingrandimento scrutava attento tra l’erba: “Nonno, no. Nonno, non. Hai. Capito. Una lucertola che STRISCIA.” L’anziano gentiluomo col cappello e il gran paio di baffi balzò agilmente in piedi: “Una BISCIA? DOVE?” Lui, che aveva insegnato biologia all’università per oltre 30 anni e ben sapeva che in quell’assolata penisola vivevano oltre 100 specie di serpenti velenosi. “Ascolta figliolo. Se c’è un serpente, sarà meglio spostarci un po’ più in là. Non è facile identificare i rettili, lo sai!” Un fruscìo tra l’erba, in quel momento, sottolineò la sua affermazione, mentre un cardinale rosso, uccello passerino dalla riconoscibile cresta aerodinamica, si posava delicatamente tra l’erba. Strano, pensò in quel momento il vecchio professore. Perché mai l’uccello non scappa dal serpente? Possibile che… “E poi, non è nemmeno verde, te l’ho detto. È una piccola cosina rosa, tutta fatta ad anelli…” Non fece in tempo a finire la frase, che la nebulosa descrizione parve improvvisamente prendere vita. Dall’erba rada spuntò fuori una saettante forma lunga all’incirca 25 cm, sottile come una cannuccia. Eppure, nonostante la forma, essa non pareva affatto muoversi sinuosamente. Bensì correva dritta dritta verso l’obiettivo, come un minuscolo emulo di Speey Gonzales. Al secondo sguardo, la ragione apparve più che mai chiara: l’essere si stava aiutando con le zampe davanti. “Oooh, lo sai cos’è quella? Una biporus, oppure una canaliculutus. O ancora, uno splendido esemplare di triductylus. Sbrigati, conta le dita!” Tempo che il nipote dell’uomo puntasse di nuovo la sua lente verso la creaturina, questa aveva già raggiunto l’area sabbiosa vicino allo scivolo e le altalene. Con un piccolo sbuffo di polvere, quindi, la sua testa era sparita. Il passero dal piumaggio vivace lanciò un pigolìo irato, quindi si alzò rapidamente in volo. Effettuando una vertiginosa picchiata, più simile alla parte finale di un balzo, serrò il suo becco dove, fino a pochi istanti prima, si trovava la coda del misterioso animale. Ma tutto quello che riuscì a prendere fu l’aria. Della strana lucertola non rimaneva che il ricordo.
Scaglie, ne abbiamo. Un lungo corpo dalle proporzioni serpentiformi. E una testa dal muso arrotondato, quasi perfettamente simile alla coda. Tanto che gli antichi erano soliti chiamare i suoi simili mediterranei Amphisbaenia dal nome di una creatura mitologica che si diceva fosse nata spontaneamente a partire dal sangue di Medusa, mentre la sua testa mozzata veniva trasportata dall’eroe Perseo sul cavallo alato, volando sopra il deserto della Libia. Era questo il principio della generazione spontanea, in cui numerosi filosofi dell’epoca greca e romana credevano fermamente: fai cadere del miele a terra, presto lo troverai coperto di formiche. Da dove vengono gli insetti? Nessuna parte. Essi sono stati generati dall’aria stessa. E l’Amphisbaenia veniva chiamata, infatti, re delle formiche (di cui si nutriva) benché potesse assumere, a seconda del leggendario preso in considerazione, proporzioni tali da minacciare un’intera comunità umana. Nelle avventure del Witcher Geralt, cacciatore di demoni protagonista di una serie di romanzi e videogame, uno di questi esseri viene menzionato dal protagonista, come un pericoloso demone eliminato con successo nel corso dei suoi viaggi precedenti alla narrazione. E questa potrebbe essere considerata, vista provenienza del personaggio, come un’interpretazione di matrice slava, geograficamente ben lontana dalla penisola iberica dell’effettivo habitat di queste insolite creature. Mentre nel Messico all’altro capo del vasto Oceano, assai probabilmente le popolazioni precolombiane ne avrebbero dato un’interpretazione ben diversa della strisciante presenza dei prati. Questo perché l’aspetto stesso della loro versione dell’animale risultava essere radicalmente differente, guarda caso, per presenza di un bel paio di zampe. E chi avrebbe mai potuto negare che queste fossero, in qualche maniera più che mai inaspettata, sufficienti a dargli un’aria carina? Le lucertole verme, qualche volta chiamate anche lucertole talpa, sono in effetti delle forti scavatrici, che usano i loro forti artigli per ricavare nel terreno profondi tunnel verticali. Quindi, silenziosamente, spariscono all’ombra della terra, molto al di fuori della portata dei predatori. Esse non sono, però, pacifiche: in questo le interpretazioni classiche potrebbero definirsi corrette. Formiche, uova di formiche, scarafaggi, termiti e larve di vario tipo… Qualsiasi cosa dovesse malauguratamente pararsi di fronte alle graziose fauci dell’insolito camminatore, ed a quegli occhietti a malapena in grado di distinguere il movimento,  sarebbe stata diabolicamente fagocitata. Questa è la forza, del resto, degli animali fossòri che trascorrono la propria vita nel sottosuolo: trarre il massimo da una limitata varietà di fonti di cibo. Ma una domanda, inevitabilmente, resta preponderante. Che fine hanno fatto le sue zampe di dietro?

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