Astronauta dell’ISS ci dimostra il globo effervescente

Floating water

Sorride, Terry Virts di Baltimora, mentre ciò che ha costruito fluttua e si agita nell’aria. Un piccolo pianeta, dalla superficie stranamente bitorzoluta, che ruotando sul suo asse lancia bollicine tutto attorno. Queste poi, come attratte da una forza gravitazionale, restano a orbitare lì vicino, a emulazione della condizione stessa dell’ambiente in cui si svolge questa scena, la scheggia di metallo sita a 400 Km di altitudine dal suolo. Siamo, ovviamente, nella Stazione Spaziale Internazionale, e questo qui non è propriamente un’esperimento. Più che altro un test, o per meglio dire, la cosa più simile ad un momento di svago che possa concedersi una simile figura professionale, nel corso del periodo più importante della propria vita. Mettere una pasticca di Alka Seltzer nell’acqua a gravità zero, che gesto totalmente insensato! Ma non abbiate dubbi in merito: l’iniziativa ha un valido perché.
Tutto inizia in quel minuto e quel secondo, l’attimo bruciante del decollo verso i limiti dell’atmosfera. Energie tra le maggiori mai asservite al desiderio di imbrigliare la natura, al termine del conto alla rovescia, vengono liberate all’improvviso dal motore che conduce il razzo verso l’agognata apoteosi. E le aspettative di un migliaio di persone, tra scienziati, matematici, ingegneri, semplici appassionati, vengono subordinate alla riuscita dell’impresa. Così tre o quattro astronauti, in quel momento epico ed estremamente significativo, devono dimenticare il senso dell’identità; diventando, in un lampo di luce, fuoco e fiamme, parte della macchina da sogno che li sta portando oltre la stratosfera. In loro alberga la complessa e stratificata unione di preparazione tecnica, sprezzo del pericolo e un profondo senso del dovere. È come un’estasi che dura per un tempo…Significativo. Come potrebbe essere diversamente? Un’intera nazione che investe in te milioni, se non miliardi, per selezionarti, addestrarti e poi lanciarti via dal tuo pianeta alla ricerca di risposte che vadano a vantaggio del futuro. Qual’è il moto delle particelle senza l’influenza del loro peso. Cosa si potrà coltivare a bordo quando, nel corso delle prossime generazioni, lanceremo finalmente quella nave madre (di una nuova epoca) destinata a giungere su Marte. Come si comportano i medicinali e invero, lo stesso nostro organismo, in condizioni prolungate di esistenza via dai luoghi della nostra gioventù. A queste ed infinite altre domande, dovrà rispondere colui o colei che parla e fluttua in queste sale di metallo, osservando un regime di concentrazione pressoché assoluta per quasi l’intero corso del suo soggiorno. L’equipaggio, generalmente, lavora per 10 ore al giorno e gli vengono concesse unicamente 5 ore di “riposo” durante il pomeriggio del sabato, durante il quale può condurre i propri personali esperimenti. Dal punto di vista scientifico, generalmente, meno significativi e complessi. Ma tanto maggiormente affascinanti, proprio in quanto conformi a ciò che potremmo fare noi, trasportati all’improvviso nell’ambiente della microgravità.
Così è successo, verso la fine del luglio scorso, che l’ISS abbia ricevuto un nuovo ed utile strumento: una telecamera tridimensionale dalle altissime potenzialità, in grado di riprendere una scena alla risoluzione di 6144 x 3160 pixels (in gergo detta 6K) prodotta dalla RED, compagnia legata al mondo cinematografico e che ha fornito, ad esempio, l’attrezzatura usata per i film della trilogia degli Hobbit di Peter Jackson. Ma una maggiore definizione delle immagini, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è un vantaggio unicamente estetico. Un’immagine migliore contiene anche più informazioni. Questo apparecchio, dunque, troverà numerose valide applicazioni, a sostegno di ogni sorta di progetto sperimentativo, o ancora per documentare approfonditamente gli interventi, interni o esterni, sulla più antica, persistente e grande navicella spaziale. Ma prima di potervi contare seriamente, occorreva metterla alla prova riprendendo qualcosa che fosse, al tempo stesso, memorabile ed insignificante. Ovvero il più fantastico dei globi…

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L’oceano in miniatura dell’Università di Edinburgo

Flowave

Pur facendo parte dell’ecosistema di un pianeta ricoperto al 71% d’acqua, gli umani conoscono questo elemento estremamente poco. Persino con l’assistenza di sofisticate simulazioni informatiche o sensori, tutt’ora vengono scoperti degli effetti di marea o correnti transcontinentali che semplicemente esulano da un qualsiasi tipo di approfondimento in grado di raggiungere il nucleo del problema. Perché nell’Atlantico del Sud c’è un flusso d’acqua dalle caratteristiche facilmente riconoscibili, che parte dall’Argentina e raggiunge il Sud Africa, per poi virare verso il Settentrione assumendo il nome di Benguela? E perché la corrente equatoriale del Pacifico, una volta aggirate le isole dell’Indonesia e delle Filippine, pare compiere una giravolta, sfiorando la punta meridionale del subcontinente indiano? Un mistero indefinito. Che sussiste perché, anche se sappiamo molto bene quali siano le cause situazionali di ciascuna singolarità, tra cui l’effetto Coriolis della rotazione planetaria, il cabbeling (separazione di un fluido sulla base del gradiente di densità) le disuguaglianze in materia di temperatura e/o salinità, l’attrazione del Sole e della Luna, non ci è davvero possibile tradurre in formule matematiche in che misura ciascuno di questi fattori colora e definisce le aree che circondano le nostre terre emerse. Tutto ciò che possiamo fare in-situ è osservare, prendendo qualche nota rilevante da mettere a confronto. Nel frattempo è pur vero che esiste un diverso approccio per conoscere una parte delle verità, recentemente reso accessibile dai moderni progressi della tecnica, che consiste nell’entità artificiale di un bacino idrico, di ampiezza e capienza variabili, concepito per dare sfogo a quell’istinto di chi si è formato come tutti con il gioco, ed oggi fa il ricercatore in prestigiose istituzioni: la simulazione. “Fare finta” di per se, nonostante lo stigma che permane in tale via d’accesso alla sapienza, può servire a molte cose. E se dovesse sembrarvi ridicolo il concetto di una piscina meccanizzata di forma circolare, fornita di 168 pale motorizzate ad assorbimento energetico tutto attorno, provate prima a considerarne le più valide implicazioni sperimentali. Oltre ai vantaggi ingegneristici abilitati dalla sua semplice esistenza.
Lo stabilimento denominato FloWave è una recente aggiunta completamente auto-finanziata e posseduta al 100% dall’università più nota della Scozia, costruita sotto la supervisione del suo Istituto rilevante, all’avanguardia nel settore dello studio di mezzi alternativi per produrre e immagazzinare l’energia. È stato inaugurato il 5 agosto del 2014. Oggi, oltre che nella creazione di video dal notevole interesse visuale come quello di apertura, il sistema viene posto, caso per caso, al servizio di progetti potenzialmente utili nell’immediato e diversi tipi di esperimenti, anche di natura particolarmente inusuale. Si tratta dopo tutto di uno dei piccoli oceani artificiali più avanzati al mondo, creato sfruttando alcuni espedienti estremamente interessanti. Le molteplici “dita” poste ai confini del suo spazio circolare dal diametro di esattamente 30 metri, contenente 2,4 milioni di litri di acqua, possono generare ogni sorta di onda secante o monocromatica, facendole scontrare sulla base del bisogno dato da un particolare esperimento. Inoltre, quando ritenuto necessario, hanno la capacità di adeguare le loro oscillazioni al moto sincronico della piscina, fermando di fatto, nel giro di pochi secondi, quasi qualsiasi onda precedentemente generata. Ed è forse proprio questo l’aspetto più affascinante ed unico del dispositivo, che se anche non viene messo in mostra nel video qui riportato o nell’altro simile risalente al 2014, è un tratto che permette una notevole semplificazione del processo di utilizzo, aumentando esponenzialmente le opportunità di test per ciascuna singola sessione. La piscina è inoltre dotata di alcune eliche con flusso parallelo al suolo, impiegabili per la generazione di una corrente costante non dissimile a quelle già citate, mentre l’acqua, una volta raggiunto il bordo dello spazio a disposizione, viene risucchiata da appositi bocchettoni, poi spinta grazie alla pressione in uno spazio sottostante e separato, dal quale potrà fuoriuscire all’altro capo del Flowave. Tale semplice espediente si rivela utile, nei fatti, ad eliminare la necessità delle ulteriori piscine normalmente usate in simili installazioni, come quella lunga e stretta del towing tank (usato per trainare i modellini) e il tunnel di cavitazione, una versione idrodinamica e sommersa di quello usato per testare le automobili, dedicato ai propulsori della navi. Proprio così: il concetto che qui vediamo messo in atto con una simile semplicità progettuale esiste, nei fatti, almeno dai tempi della seconda guerra mondiale, benché la precisione e la varietà delle turbolenze utilizzabili fosse naturalmente assai inferiore. E il suo impiego originario trovasse sfogo, neanche a dirlo, nel campo della tecnologia applicata agli armamenti.

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Distrugge il pomodoro per poterne bere il succo

Tomato Kagome

Ciò che compare in questa pubblicità della Kagome, compagnia giapponese che dal 1899 ha il controllo quasi totale dei frutti rossi per il ketchup a produzione nazionale, potrebbe sembrare un semplice scherzo, l’effetto speciale costruito per accattivare il pubblico del web. Un serio professore emerito dell’Università di Kumamoto (la prefettura con la celebre mascotte a orsetto nero), tale Shigeru Itoh, indossato il camice bianco simbolo del suo mestiere, si avvicina con i propri aiutanti ad una teca piena d’acqua, in vetro spesso e resistente. All’interno del contenitore, incredibilmente, galleggia a mezza altezza un singolo e spaurito pomodoro racchiuso in una sorta di membrana, pronto ad essere praticamente obliterato. Come? Grazie a un’esplosione, chiaramente. Nel Dipartimento d’Ingegneria Meccanica dei Sistemi non si perdono in complesse spiegazioni: le loro idee migliori, questi uomini e donne saldamente posizionati sulla prua del vascello del progresso, preferiscono dimostrarle in modo semplice e diretto. O per lo meno, questo è ciò che sembra dalla strana situazione che siamo chiamati ad osservare, lui, con espressione tesa, che si siede ad un computer dall’aspetto alquanto antiquato, da cui avvia un breve conto alla rovescia. L’assistente occhialuta, nel frattempo, ha giusto il tempo di piegarsi ad angolo ottuso con fare indagatorio, ricordando in modo vago l’Igor del film di Frankenstein con Mel Brooks, quando un colpo clamoroso fa vibrare i bordi dell’inquadratura: primo piano, il cubo trasparente, da cui emerge un geyser di acqua prossima alla vaporizzazione. Nulla resta come prima, tranne l’elemento più importante. Grazie all’uso delle immagini al rallentatore, viene anche mostrato il fato del classico ingrediente della cucina italiana, raggiunto in modo quasi simultaneo dalle bolle d’acqua movimentata dal botto della deflagrazione e l’onda d’urto tangibile, quello spazio in cui un gas (o come in questo caso, un liquido) vengono spostati a una velocità superiore a quella del suono. Soltanto che nei pochi centimetri a disposizione, dalla posizione dell’esplosivo a quella del vermiglio pomo, tale distanziamento non ha mai modo di avere luogo. Così percorso in contemporanea dalla forza duplice di simili sconvolgimenti, quest’ultimo viene fatto vibrare e sconquassato, compresso e scombussolato. La sua buccia diventa, letteralmente, come la federa di un cuscino usato per difendersi durante una battaglia tra bambini. Ma così attentamente è stata calibrata la forza dell’esplosione, ed a tal punto l’acqua riesce a distribuirne l’impatto su una superficie più ampia, che l’oggetto resta intero, almeno all’apparenza. È una situazione piuttosto inquietante, specie se messa in relazione con una particolare situazione d’emergenza: il tecnico artificiere che dovesse fallire nel momento più importante della sua carriera. Quando un ordigno, variabilmente improvvisato, nonostante l’impegno infuso dalle forze dell’ordine o un membro dell’esercito, raggiunge il punto culmine della sua instabilità, facendo saltare in aria proprio colui/lei che, fra tutti, maggiormente era disposto a rischiare per il bene altrui. Ora, naturalmente il corpo umano non è poi così vulnerabile, e soprattutto gli ultimi progressi compiuti nel campo della protezione personale, vedi tute balistiche o armature peciali, possono virtualmente annullare qualsiasi danno causato da shrapnel o frammenti di granata. Persino lo spostamento d’aria causato dalla bomba media ad uso criminale o terroristico, che a distanza ravvicinata può facilmente scaraventare un corpo umano a distanza significativa e contro muri e strutture resistenti, può essere in parte contrastato dall’impiego di adeguate imbottiture tecnologiche, simili ad airbag interni. Ma quello che inevitabilmente riuscirà ad ucciderti, qualora ti trovassi nello spazio primario dell’esplosione, è un qualcosa di ben più inarrestabile e subdolo, che tutt’ora sfugge alla sicura manipolazione: la pressione stessa delle particelle subatomiche, sospinte innanzi per l’effetto deflagrante. È in effetti acclarato come un corpo di qualsiasi tipo, sia questo umano o vegetale, quando sottoposto a sollecitazioni adeguatamente proporzionato verrà letteralmente disintegrato dall’interno, a causa della liquefazione delle sue stesse pareti cellulari.
Un qualcosa di simile lo sperimenta il soggetto principale di questa sequenza. Sul finire della parte dura dell’esperimento, Itoh trae fuori dalla teca il suo trofeo, lo scarta senza un eccessivo grado di delicatezza. Con fare sicuro, lo porge all’uomo che si trova alla sua destra, il quale estrae dalla tasca frontale del suo camice una corta e tozza cannuccia trasparente. La quale, fatta penetrare nella buccia, rivela l’orribile e gustosa verità: là dentro non c’è più nulla, che si possa definire un pomodoro. Ma vero e proprio succo pronto da suggere, qualora se ne provi il desiderio (personalmente, preferisco il gusto di banana o mela).

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L’ottimo cannone laser del giovane Drake

Laser Shotgun

Gli hobby ci definiscono, connotano la nostra personalità. Ciò che scegliamo di fare del nostro prezioso tempo libero, sia ciò produttivo o un semplice mezzo per svagarsi, divertente o impegnativo, è lo specchio limpido di quello che siamo, oltre che dei nostri stessi desideri e del futuro prossimo e remoto. Che dire, quindi, di Drake Anthony, in arte Styropyro, per gli amici “The DIY laser guy”? (L’uomo dei laser fatti in casa) che non soltanto gestisce un canale video con 53 milioni di visite complessive, non solo colleziona componentistica ed assembla le versioni ingigantite dei comuni puntatori luminosi da qualche milliwatt, già di per loro ormai proibiti praticamente dovunque, ma che l’altro giorno, addirittura, ha messo assieme 8 diodi in grado di produrre un fascio di luce dalla potenza di 5 watt ciascuno, per un totale di 40 concentrati grazie all’uso di soluzioni ottiche in quello che potrebbe definirsi un solo grande raggio della morte. Lui lo chiama, in modo molto informale, il suo laser shotgun, ed afferma nelle prime battute della presentazione: “È troppo pericoloso perché possa servire a qualcosa, ma non era illegale costruirlo, e così l’ho fatto.” Negli Stati Uniti sussiste in effetti questo particolare meccanismo normativo, applicabile in diversi stati, per cui alcune armi o strumenti sono teoricamente proibiti alla popolazione, ma se qualcuno riesce a costruirseli da se, la polizia non può in alcun caso sequestrarli. Da questo nasce ad esempio l’intera sotto-cultura delle cosiddette ghost guns, i pericolosi fucili assemblati a partire da componentistica venduta liberamente, perché impossibile da impiegare in alcun progetto senza l’impiego di attrezzi specifici per modificarla, diciamo, leggermente. E qualcosa di simile avviene nell’Illinois presso cui abita e studia il giovane in questione con i laser al di sopra di una certa potenza, che non possono assolutamente essere importati, se non in parti rigorosamente separate tra di loro. Ma non credo che nessuno potrebbe attribuire a questo giovane genio ingegneristico alcuna intenzione di compiere gesti inappropriati, soprattutto visto l’entusiasmo spontaneo e l’assoluta spensieratezza con cui ci presenta l’attrezzo in questione, che comunque, sia chiaro, potrebbe accecare permanentemente una persona, anche di riflesso, nel giro di una frazione di secondo, o causare ogni sorta d’incidente aereo o stradale.
Che strano: costui ha costruito e messo in mostra, negli ultimi 7-8 anni, ogni sorta di applicazione del principio che seppe teorizzare per primo Einstein nel 1917 e che nel ’57 trovò la sua prima dimostrazione pratica ad opera dei fisici Townes e Schawlow, sebbene con dei presupposti necessariamente meno tecnologici di quelli che abbiamo alla portata delle nostre odierne mani. Così, non è certo questa la prima volta, né la maggiormente significativa, in cui Drake realizza un sistema in array di questa specifica potenza, per di più in questo caso limitato dal suo essere portatile e quindi disporre di una fonte energetica piuttosto contenuta.  Eppure metti un grilletto a qualcosa, dagli la forma di uno strumento d’offesa, potrai contare sul suo successo nel colpire, assieme ai tuoi bersagli non metaforici, quello più grande e rilevante della fantasia comune. Lo sapevano già i bardi e i poeti, che nelle loro narrazioni preferivano cantar le gesta di soldati e valorosi eroi. La violenza potenziale è straordinariamente divertente, per lo meno quando virtualizzata, o trattata da una sufficiente distanza di sicurezza. Poi, naturalmente, per dare adito a una simile atmosfera, qualche oggetto inanimato dovrà essere sacrificato alla sete di sangue collettiva.

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