Nessun appiglio sfugge all’incalzante lancia del pastore delle Isole Canarie

Più una picca, che un semplice bastone, con la sua lunghezza di oltre due metri e mezzo. L’accecante luce del sole di primavera rimbalzava aggressivamente dalle increspature distanti della risacca. L’erba oscillante nel vento, solleticando l’ansia di raggiungere la meta, spuntava grigiastra tra le rocce di un paesaggio quasi marziano. Un colpo alla volta, un salto dopo l’altro, l’uomo col cappello di paglia combatteva la sua eterna battaglia. Come gli aborigeni dell’area macaronesiana a largo dell’Africa Occidentale, che nel quindicesimo secolo sotto la guida del condottiero Bencomo circondarono le truppe di Castiglia nella prima battaglia di Acentejo, attaccandoli con lance e pietre di questa stessa scoscesa isola di Tenerife. Il suo nemico, questa volta, era di un tipo radicalmente differente: senza volto, senza cavalli e senza fucili. Qualcuno avrebbe potuto affermare, cogliendo nettamente la questione, che potesse trattarsi del territorio stesso. Così l’uomo solleva i piedi dal pietroso suolo, alla maniera di chi volesse suicidarsi saltando giù dalla scogliera. Eppur tra le sue mani, ben stretta, trova posto quella pertica di legno che i locali chiamano garrote, lata o astia a seconda dell’isola di appartenenza. O ancor più semplicemente, la lanza. Attrezzo in legno più largo nella parte inferiore piuttosto che quella superiore, al fine di semplificare la frenata di chi si affanna a stringerlo, mentre lo usa come appiglio mobile per compiere l’impresa. Ed è allora che l’esperto praticante, conficcando tale arnese nella polvere, non soltanto arresta parzialmente la sua discesa. Ma riesce facilmente a controllarla, compiendo evoluzioni a mezzaluna, traslazioni laterali e disegnando archi eleganti verso il succedersi delle aree sottostanti. Mentre l’aurea spiaggia dell’Atlantico, un poco alla volta, tende a farsi progressivamente più vicina. Ed i belati delle capre del suo gregge, ancora tutte assieme per l’istinto di cui la natura le ha dotate, sembrano innalzarsi per accogliere la sua venuta.
Majorera, Tinerfeña, Palmera: questi i termini associati alle tre principali razze caprine, create attraverso i secoli dagli abitanti di queste particolari terre emerse, che non brillano esattamente per l’accessibilità e l’ampiezza dei propri pascoli erbosi. Benché a tal punto fosse associato questo specifico mondo animale, allo stile di vita e la sopravvivenza dei nativi, che in determinati territori delle isole Canarie esistono fino a 40 nomi diversi per le capre, in base al numero e la combinazione dei colori, il fatto che siano marchiate oppure lasciate allo stato brado e la dimensione o il sesso del singolo esemplare. Benché l’aggettivo idoneo a definirle, possiamo facilmente immaginare, fosse più o meno sempre lo stesso: difficili (da seguire) come ci si aspetta da coloro che hanno in forza dell’evoluzione la capacità di trarre il meglio dalle mura più scoscese di questo mondo. Al che i primi abitanti di queste particolari rocce emerse, che si ritiene fossero giunti qui in epoca preistorica successivamente alla crescente desertificazione dell’odierno Sahara, elaborarono e perfezionarono il particolare approccio, che trae l’origine da talune specifiche regole della fisica. Secondo cui se un peso umano poggia tutto su un qualcosa di sottile e ben fissato a terra, diventa autonomamente più facile dirigere la direzione e modalità effettiva del suo atterraggio. Grazie all’uso di speciali tecniche che sono state tramandate, in seguito, alle successive generazioni. Fino alla nascita di quella che potremmo definire ad oggi una sorta di disciplina folkloristica come nel caso del Silbo gomero, lingua fischiata parlata dagli abitanti dell’isola omonima per comunicare tra i pastori distanti, e al tempo stesso qualcosa di più simile a uno sport estremo, versione più rurale (ed attrezzata) del moderno parkour. Ci vuole, in effetti, una certa preparazione fisica, ma anche e soprattutto l’esperienza pregressa tramandata dai predecessori, per riuscire a muoversi con apprezzabile agilità nei territori avversi di tali scogliere e montagne. Assieme a un certo grado di coraggio irresponsabile, che comunemente non tendiamo ad associare alla figura quieta, e rilassata, del pastore di montagna…

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L’essenziale ruolo distruttivo del cannone a canna liscia nei grandi cementifici americani

I frammenti fluidificati rimbalzano come lapilli, tra una parete e l’altra del gigantesco cilindro refrattario prossimo al calor bianco. Un altro giorno, un altro tramonto, un’altra notte di combattimento contro le forze oscure che minacciano di rallentare la produzione. Poiché non è possibile riuscire a tollerare, l’inquietante forma di un pupazzo di neve all’Inferno. Caricare, puntare, fuoco! Come nei casi precedenti, tuttavia, una simile figura non aveva avuto modo di apparire all’improvviso; materializzandosi piuttosto un poco a poco, dapprima con la forma di una piccola protuberanza. Che si è gradualmente, inevitabilmente, trasformata in un anello. Immagino lo abbiate ben presente: il modo in cui questo piccolo mondo in fiamme ruota a 360 gradi, alla stessa maniera in cui una colonia spaziale si preoccupa di mantenere la sua forza di gravità. Un processo che può causare non pochi problemi, dato il flusso copioso di quel miscuglio di minerali argillosi, carbonato di calcio, alite e dolomite che scorre costantemente all’interno del grande tubo posto in posizione lievemente obliqua. Finché a un tratto, il conseguente miscuglio chiamato clinker inizia ad accumularsi… Ed allora plasma strane cose come queste: anelli, sfere, doppie sfere sovrapposte, addirittura con l’accenno di una forma antropomorfa. Il chiaro segno che è finita l’era della Tolleranza, e inizia quella della Disintegrazione. Colpi pesantissimi vibrati col martello: ecco un metodo perfettamente idoneo al fine di fare piazza pulita. Non fosse per il “piccolo” problema, della temperatura media che si aggira attorno ai 3.000 gradi Celsius in quell’ambiente, richiedendo preventivamente un lungo periodo di raffreddamento prima di riuscire a intervenire a quel modo. Ed è per questo che, a partire dagli anni ’30 del Novecento, fu tentato l’approccio alternativo di un diverso metodo, al tempo stesso più irruento ed assai meno diretto, senza la necessità di entrare all’interno. Fondato sull’impiego di un attrezzo che, sotto qualsiasi possibile punto di vista, assomiglia molto da vicino a un’arma da guerra.
Cannoni industriali: ecco due parole che non penseresti di trovare associate l’una all’altra. Per il semplice fatto che si tratta di un ambito estremamente specifico, il cui potenziale impiego fuori dal contesto potrebbe arrecare non pochi danni alla cosiddetta società civile. Stiamo in effetti parlando di bocche di fuoco dal calibro di oltre 20 mm, corrispondenti grosso modo a quel concetto ormai desueto dei fucili a polvere nera usati nella caccia all’anatra en masse, le cosiddette punt guns. Abbastanza potenti da slogare una spalla all’incauto cacciatore, che dovesse essere tanto folle da farne uso senza prima posizionare attentamente l’arma su un sostegno poggiato a terra. Ausilio fornito nel caso specifico, dallo stabile treppiede fornito in dotazione, completo di un preciso sistema a doppia manovella per il puntamento. Poiché sebbene possa non sembrarlo, il tipico cannone di questi ambienti costituisce uno strumento di precisione quasi chirurgica, il cui impiego richiede una certa preparazione ed occhi attenti al calcolo del tiro balistico. Questo perché il forno rotativo, prima di procedere alla pulizia del clinker, non può essere assolutamente fermato, un passaggio che potrebbe costare all’azienda molte decine di migliaia di dollari anche senza portare al possibile conseguente danneggiamento dell’intero apparato. Ecco dunque spiegate le ragioni di una simile scena: due uomini in tuta refrattaria che si posizionano, con immisurabile coraggio, proprio all’imboccatura del cilindro infuocato. Unica concessione alla loro limitante umanità, lo spegnimento temporaneo della fiamma di riscaldamento simile a un becco di Bunsen, atto a creare fiamme concentriche nella parte bassa del forno e che scaricherebbe tutta la sua furia proprio nell’esatta posizione in cui si trovano in quel momento. L’uno intento a tirare in modo ritmico la cordicella di sparo (niente grilletti, in simili armi uscite all’apparenza da un racconto sui pirati) e l’altro nel caricare continuamente le ingombranti cartucce in plastica, piene di pallini di zinco, piombo o altri metalli, pronte ad essere sparate verso l’obiettivo di turno. Questo in quanto nessun tipo di caricatore automatico, o altro meccanismo semi-automatico, è possibile laddove la mera temperatura ambientale risulta essere abbastanza elevata da far detonare in modo autonomo le munizioni. Nient’altro che un ulteriore prova, della natura estrema di una simile attività collaterale ma importantissima…

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Il nuovo elicottero Sikorsky che potrebbe rivoluzionare il concetto di rotodina complessa

Giorni di silenzio, osservazione, concentrate considerazioni situazionali. Per realizzare finalmente come, nonostante i presupposti apparentemente all’opposto, la migliore circostanza per favorire il progresso tecnologico in determinati ambiti sia il conflitto tra le contrapposte fazioni umane. Perciò avremmo davvero, oggi, aeroplani come quelli che ogni giorno solcano i cieli, se non fosse stato per lo scoppio della grande guerra pochi anni dopo l’invenzione del volo a motore? E allo stesso modo, chissà cosa sarebbe stato degli elicotteri, apparecchi volanti naturalmente instabili e difficili da pilotare… Se non fosse stato per l’utilità tattica che seppero dimostrare durante i lunghi anni in cui le superpotenze tentarono di dimostrare la propria superiorità in terra straniera. In tale ottica diviene programmatico, in quanto carico di un doppio significato, lo slogan della compagnia pionieristica ed ormai quasi centenaria della Sikorsky Aircraft “Costruire per la prossima guerra, non l’ultima” (che oggettivamente, almeno in lingua inglese, sembrerebbe parlare meno di catastrofismi ipotetici e fuori luogo quanto piuttosto di una cronologia in bilico tra “futuro” e “passato”). Un corollario utile a contestualizzare questa recentissima dimostrazione pratica dell’S-97 Raider, il nuovo concetto di cannoniera in grado di effettuare il volo statico, al fine d’individuare o sopprimere la resistenza nemica. Sostituendo con il suo ipotetico ruolo di servizio attivo, collocato idealmente entro l’anno 2022-23, l’ormai antico Bell OH-58 Kiowa che già partecipò alla guerra in Vietnam, durante quelle lunghe albe e tramonti di tante decadi fa. Così documentato all’interno di questo breve video in cui l’atipico mezzo di trasporto, dalla sagoma vagamente simile a quella di un pesce, piroetta nel cielo sopra l’arsenale di Redstone a Huntsville, Alabama, compiendo strette virate ed ancor più ripide accelerazioni, mentre percorre tragitti arzigogolati con l’agilità di un insetto dotato di quattro ali. O tre rotori, nel caso specifico, di cui due montati in batteria sovrapposta nella posizione del congegno principale, mentre il terzo trova posto sulla coda ma situato in posizione perpendicolare all’asse di marcia del veicolo. Con l’evidente funzione di Spingere, piuttosto che mantenere in Equilibrio.
L’idea alla base dell’intero progetto FVL (Future Vertical Lift) di cui qui stiamo vedendo la più recente ed elaborata conseguenza trae in effetti le sue origini in un’epoca tutt’altro che recente, con il primo tentativo di unire militarmente agilità elicotteristica e la rapidità di un aeroplano intrapreso nel remoto 1965, proprio da quella gigantesca Lockheed Martin che oggi costituisce l’azienda proprietaria di Sikorsy stessa. Mi sto riferendo in effetti all’AH-56 Cheyenne, elicottero d’attacco in cui il sistema di propulsione caudale avrebbe visto la coesistenza in tandem di due rotori disposti ad “L”, con il sistema di spinta in aggiunta alla primaria funzione anticoppia di quello previsto dal progetto convenzionale. Un’idea in apparenza funzionale, almeno finché due anni dopo uno dei prototipi subì un’avaria, causando la morte del pilota ai comandi. Il che avrebbe gradualmente portato all’accantonamento di una simile visione, per un ulteriore mezza decade, quando il problema sarebbe stato approcciato da un’angolazione del tutto diversa. Ecco giungere sul palcoscenico dell’aeronautica, a questo fatidico punto, l’S-69 della Sikorsky. Siamo nel 1973 e l’azienda di Stratford, Connecticut, ha ricevuto un budget considerevole dalle Forze Armate per superare finalmente, nel suo laboratorio di ricerca & sviluppo, uno dei più vecchi problemi del volo elicotteristico: la dissimetria della portanza alias “stallo della pala retrograda”. Principale ostacolo al superamento di determinate velocità di spostamento per questi mezzi di trasporto, a causa della naturale tendenza del loro lato destro (o sinistro) a ricevere una maggiore tendenza a sollevarsi dal suolo causa il naturale sollevarsi delle pale rotanti. Mentre allo stesso tempo, l’altra metà del disco rotante tenderà naturalmente a scendere verso il suolo, portando a pericolose turbolenze o nei casi più estremi, la letale perdita del controllo. Ecco dunque l’idea risolutiva, che qui vediamo perfettamente applicata al prototipo di S-97 nella dimostrazione di Huntsville: posizionare due rotori controrotativi uno sopra l’altro, in posizione perciò coassiale, capaci di mantenere l’elicottero non soltanto sollevato da terra, ma anche in assetto perfettamente stabile senza l’impiego di un rotore di coda. Permettendo non soltanto di eliminare la consueta predisposizione al flappeggio (inclinazione autonoma delle singole pale per contrastare la dissimetria) ma anche di riservare l’intero spazio della coda dell’aeromobile al sopracitato terzo rotore propulsivo, come componente niente meno che essenziale per quello che sarebbe giunto a rivelarsi, già dopo il primo volo di prova, l’elicottero più veloce al mondo.

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La carriera dell’uomo che usò una canna di bambù per salvare la dinastia dei Ming

Settimana dopo settimana, il guerriero completò quotidianamente gli esercizi facenti parte del programma dettato dal suo maestro. 100 colpi di taglio, vibrati dall’alto verso il basso; 100 affondi portati all’altezza della testa; 60 parate improvvise in base alla direzione del vento; 30 stuoie di bambù montate verticalmente, tagliate in tre pezzi prima ancora che il primo segmento potesse cadere a terra grazie alla formidabile efficienza della katana, trionfo della metallurgia nell’Estremo Oriente. Così che dopo un certo periodo, giunse all’assoluta certezza di una cosa, sopra ogni altra: che nessun combattente armato di spada, privo della stessa sua preparazione avrebbe potuto sconfiggerlo in un duello di spada e ciò sarebbe stato vero durante uno scontro chiaramente annunciato, così come nel mezzo della furia imprevedibile della battaglia, soprattutto se coadiuvato da un esercito dei suoi pari. Soltanto molti anni dopo, in un altro tempo e paese distante, egli avrebbe incontrato l’uomo capace di sconfiggerlo: si trattava di un contadino senza nessun tipo di addestramento, privo di altre armi che una canna di bambù prelevata direttamente dalla foresta, appena qualche ora prima. Ancora completa dei suoi rami a raggera, soltanto “lievemente” modificata con l’aggiunta di punte acuminate, possibilmente imbevute nel veleno. Ovvero quello che secondo la tradizione delle arti marziali cinesi prendeva il nome di langxian (狼筅) o pennello del lupo, sostanzialmente una barricata portatile improvvisata, capace di bloccare l’avanzata di chicchessia.
Ciò detto non fu certo il famoso generale Qi Jiguang ad inventare un simile brutale implemento, già noto ai suoi insigni predecessori. Ma fu senz’altro lui a farne l’uso migliore fino a quel momento, impiegandolo nel corso delle sue riuscite campagne contro i Mongoli ed i temibili fuorilegge militarizzati del Mar della Cina, chiamati per antonomasia wokou (倭寇) ovvero “pirati giapponesi” o “pirati nani” a seconda dell’interpretazione dei caratteri utilizzati nel nome, sebbene vantassero nelle proprie fila un generoso apporto di coreani, abitanti del Sud-Est asiatico e persino qualche portoghese. Incapaci di resistere alla sua particolare formazione di battaglia, creata a partire dall’antichissima cognizione dei gruppi di combattimento di cinque persone creati dagli eserciti fin dall’epoca della dinastia Qin, raddoppiati per l’occasione fino a 10+2 unità, con l’aggiunta di un cuoco e l’ufficiale di comando. Portando alla denominazione di tale tattica come formazione dell’anatra mandarina (yuānyāng zhèn – 鴛鴦陣) proprio per l’abitudine di questi variopinti uccelli a restare sempre uniti con la propria compagna, muovendosi a coppie per l’intero corso della propria battagliera esistenza. Un’idea inelegante, per il tipo di strumenti e l’approccio impiegato nei confronti del nemico. Ma un’idea straordinariamente efficace, successivamente descritta nel suo importante testo sull’arte bellica intitolato Jixiao Xinshu (纪效新书) o Nuovo Trattato sull’Efficienza Militare, scritto probabilmente verso il concludersi della sua carriera, attorno al 1560-1580 d.C. Scritto quindi quasi 30 anni dopo gli eventi che avrebbero portato, più di ogni altro, alla nascita di questa figura tenuta in alta considerazione prima dall’Imperatore stesso, quindi accantonata a causa di crudeli intrighi di corte. E soltanto molti anni dopo riconosciuta come un eroe incomparabile, entrando nel ricco repertorio di aneddoti facenti parte del multiforme nazionalismo cinese.
Il racconto della vicenda personale del generale Qi Jiquang, nato nel 1528 nella regione nord-orientale dello Shandong, viene fatto generalmente iniziare dalla sua infanzia, durante cui si dice amasse giocare soltanto con armi, soldatini ed inscenare battaglie con i suoi coetanei. Per l’orgoglio imprescindibile di suo padre Qi Jingtong, la cui discendenza aveva ricevuto la mansione di organizzare e gestire la comanderia di Dengzhou, a seguito dell’importante servizio reso dalla famiglia al fondatore della dinastia Ming, l’Imperatore Hongwu, oltre un secolo prima. Ereditato quindi il complesso compito all’età di soli 17 anni, per la morte prematura del genitore, il giovane dalle grandi aspirazioni si recò nel 1555 a Pechino per sostenere l’esame di stato, requisito essenziale per intraprendere una carriera militare nel complesso sistema dell’amministrazione Ming. Ed è proprio nel corso di tale circostanza che la sua vicenda inizia a farsi leggenda, con l’attacco improvviso di un’armata di predoni mongoli mentre lui e gli altri giovani aspiranti si trovavano in prossimità delle mura cittadine. Guerrieri assetati di sangue che, con una serie di atti di eroismo più volte narrati nei romanzi, al teatro e al cinema, furono respinti grazie alla prontezza dei cittadini stessi, guidati dagli stessi futuri comandanti dell’esercito imperiale…

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