L’arma segreta delle megattere affamate

Bubble net feeding

Uno spettacolo unico al mondo, una visione indimenticabile e per certi versi terrificante. Adatta a chi vuole sperimentare la furia potenziale della natura, testimoniata dal comportamento specifico di un gruppo di creature pesanti 30-40 tonnellate, che cooperano nel momento di cacciare. Vorreste vederlo? Allora vi consiglio di venire…In Alaska. Dove altrimenti? E per essere maggiormente precisi, nella baia di Seward, sulla penisola di Kenai, dove da tempo ormai le barche piene di turisti si lanciano dai moli, per andare a far da spettatori a quelle che qui chiamano le Humpback whales (Balene gobbute) e che per noi corrispondono alla definizione scientifica di M. novaeangliae, ovvero quella delle Megattere “del New England”. Come volle chiamarle, per primo, il naturalista Mathurin Jacques Brisson nel 1756, benché oggi sappiamo, simili creature abitano in molti dei mari e degli oceani della Terra. Al punto da aver fatto teorizzare, dai classificatori moderni, l’esigenza di definire tre sottospecie differenti: l’una residente nel Pacifico Meridionale, l’altra nell’Atlantico Settentrionale e poi c’è questa. La megattera del Pacifico Settentrionale, che sola tra le sue simili dimostra la speciale abilità in questione. Così strategicamente complessa, e tanto valida nella risoluzione di un problema in rapido divenire, da ricordare l’invenzione di un intero comitato militare. Un qualcosa di “pensato”.
Ed in effetti, strano a dirsi, è proprio così. La caccia con la rete di bolle non è affatto scritta nel codice genetico delle balene: ciò possiamo ben desumerlo dal fatto che soltanto certi gruppi delle creature, ed unicamente in luoghi specifici, posseggano gli strumenti di pensiero ed attuazione necessari a praticarla. Si tratta dunque di una tecnica trasmessa attraverso le generazioni, patrimonio attentamente custodito di singole tribù d’animali. Vederne le ultime battute, dal ponte di una barca noleggiata in quel d’Alaska raramente lascia i turisti privi di un’impressione profonda e significativa. Soprattutto quando, come talvolta capita, ci si ritrova lì, fra l’onde. Per udire nel momento atteso il canto acuto dei giganti, che contrariamente a quanto ci viene dato ad intendere dal senso comune, è si! Udibile dall’orecchio umano. Addirittura dall’altro lato delle increspature sulla superficie che sostiene il nostro duro scafo. Una materia sempre più agitata e meno trasparente, fino a che non viene data l’occasione di scrutare le ombre colossali, che preannunciano e danno ad intendere il momento della verità. Ed ecco che finalmente, arrivano! Come coni vulcanici, come colline eruttive, quattro, cinque, sei bocche spalancate, in un vortice di spruzzi e di gabbiani, che prontamente si erano gettati nell’occhio del ciclone per tentare di arraffare il cibo. Rubandolo da un pasto costituito, guarda caso, da branchi di aringhe o eglefini, o ancora qualche sparuto gruppo di merluzzi neri. Gli oggetti di una simile, pericolosa attenzione. Si tratta di una questione, a ben pensarci, alquanto semplice da definire. Le megattere del Pacifico, per loro imprescindibile natura, sono grandi. Molto: fino a 27 metri di lunghezza. Il che significa, per le leggi fisiche del mondo, che sono anche relativamente lente, potendo raggiungere al massimo i 25 Km/h, ma soltanto dopo un lungo periodo d’accelerazione. Ed è proprio questo il motivo, tra l’altro, per cui si nutrono preferibilmente dell’invisibile brodo di microrganismi e gamberetti che viene convenzionalmente definito krill, esattamente come usa fare la distante cugina ancor più sovradimensionata, la balenottera azzurra. Ma si può anche capire, poco ma sicuro, il loro bisogno di mettere in pancia qualche volta un bocconcino un po’ più sostanzioso… Ed è qui che entra in gioco l’agilità concessa dalle grandi pinne anteriori di questi animali, che non per niente prendono il nome dalle parole greche mega-/μεγα- “grande” e ptera/πτερα “ali”.

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Il dolce canto della donna che protegge gli elefanti

Lek Chailert

Note amorevoli, una voce rasserenante, l’armonia delle migliori ninna nanne. Lei che l’abbraccia all’altezza delle grosse zampe, quindi la colpisce delicatamente con un panno, in un gesto forse concepito per assomigliare a una carezza. È del resto assai probabile che con una pelle spessa 2 cm e mezzo, un lieve tocco possa risultare facilmente inadeguato. Quindi, finalmente, le parole misteriose della nenia di Sangduen “Lek” Chailert iniziano a sortire l’effetto desiderato, con la controparte che un poco alla volta si sdraia per terra, stando estremamente attenta a non stritolare l’amica per l’effetto della sua massa considerevole, quindi chiude gli occhi e…Sogna?
C’è molto di umano nel comportamento di Faa Mai, la pachiderma di 7 anni che per prima rappresenta una generazione successiva degli animali custoditi presso l’ENP di Chiang Mai, Thailandia, il più singolare e notevole santuario per la riabilitazione del maggiore animale di terra del pianeta. Perché proprio una creatura simile, in forza del suo metabolismo relativamente lento, può raggiungere tranquillamente i 70 anni di vita, e ciò nonostante una massa potenziale di 4,5 tonnellate (5 se si fosse trattato di un maschio). Non è quindi troppo irragionevole, per la gigantessa buona il cui nome per inciso significa “Un Nuovo Giorno” immaginare un lungo periodo d’infanzia e prima adolescenza, che potrà portarla, come del resto abbiamo fatto noi, a comprendere i suoi genitori e diventare, almeno in parte, simile a loro. Ed è in tale aspetto che la vita di questa creatura si profila come originale, perché di modelli femminili nella vita, lei ne ha almeno due: da una parte la madre biologica Mae Bua Tong, nata attorno agli anni ’70 e tratta in salvo da una triste vita passata al servizio dei turisti, cavalieri spesso ingrati e quel che è peggio, inconsapevoli dei duri metodi che vengono impiegati per addestrare gli elefanti in certi luoghi dell’Estremo Oriente. E dall’altra, una persona con due piedi e totalmente priva di proboscide.Ovvero un essere umano in carne ed ossa, pienamente consapevole di ciò che fa. Perché l’eroina famosa su scala internazionale con il solo soprannome di Lek Chailert, più volte premiata dal National Geographic, dalla Ford Foundation, dalla Humane Society… Ha avuto una vita certamente complessa e travagliata. Ma sempre dedita ad un singolo, fondamentale obiettivo: permettere a questi grandi animali di condurre un’esistenza placida ed amena, nonostante i traumi spesso subìti, e di raggiungere uno stato ideale di realizzazione psichica dell’individuo. Che tale certamente resta, in forza di una sofisticata filosofia e una capacità d’introspezione, forse meno palesi delle nostre, ma comunque notevolmente cariche di significato.
Voglio dire, basta osservarle all’opera. Non appare forse chiaro che la gioia dell’elefantessa, così straordinariamente cosciente della sua situazione lieta e dell’attimo di pace assoluta che stava vivendo nel momento qui raffigurato, si rifletteva pienamente nello stato momentaneo della sua seconda madre (adottiva) in un continuo feedback di ritorno valido a costituire l’assoluta gioia ed assenza di perturbazioni…. Una sorta di stato di grazia, sostanzialmente sconosciuto a molti di noi. Si potrebbe persino definire, questo lungo momento, come la ricompensa di coloro che amano gli animali, e dall’incontro con essi traggono dei benefici perfettamente commisurati al servizio che stanno rendendo all’Universo. Un elefante dopo tutto, ci spiega la Chailert orgogliosamente sul suo sito ufficiale, ha un olfatto più sviluppato del nostro, ed ha l’udito probabilmente più sensibile tra tutti gli animali della Terra, riuscendo quindi a vivere sotto diversi aspetti puramente fisici, più intensamente di noi. E se non domina incontrastato nel suo regno del selvaggio, l’unica responsabilità è la nostra, di uomini che gli hanno anteposto un mondo carico di costrizioni, doveri, limiti situazionali. Stiamo del resto parlando di un paese, la Thailandia, in cui la storia dell’uomo è strettamente legata a quella del suo fratello più imponente, al punto che nell’antichità questi esseri costituivano cavalcature regali, doni degni di un’ambasceria di pregio, macchine agricole o da usarsi per la raccolta di materiali… Quando nel 1989, in forza di un eccessivo disboscamento del paese rilevato dagli esperti provenienti da ogni parte del mondo, il governo nazionale impose severe limitazioni all’industria privata del legname, molti elefanti si ritrovarono immediatamente senza lavoro. Colossali bocche da sfamare, ingombranti e problematiche, che sempre più spesso i vecchi proprietari tendevano a vedere come grosse riserve di carne ambulante, da macellare in base alle necessità. E fu allora che Lek, all’epoca un’imprenditrice dal rispettabile successo con un negozio a suo nome, decise che avrebbe dovuto fare qualcosa per salvarli. Pena la perdita del contatto stesso con la sua realtà, ciò che davvero sentiva nel profondo dell’anima e l’obiettivo che desiderava conseguire nella vita.

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L’aquila arpia, sovrana volante dell’Orinoco

Harpy Eagle

Quella istantanea realizzazione del momento in cui vedi qualcosa, di placido e vivente, accanto a una persona, soltanto per renderti conto che la scala da te immaginata era molto al di sotto della verità. Un uccello, enorme. Un cacciabombardiere, più che un Cessna, o in altri termini un supersonico Concorde. Non certo il piccolo Learjet. Poi sorge subitaneo il dubbio (come poteva essere altrimenti?) che l’individuo in questione, il celebre documentarista statunitense Jeff Corwin, sia particolarmente basso, e quella un’aquila normale: niente di più distante dalla verità. Google, col suo inesauribile archivio di altezze misurate in circostanze misteriose alle celebrità, ci viene in aiuto, dichiarando una statura di esattamente 1,77 m, offrendoci uno spunto per comprendere la verità. Quel MOSTRO dalle piume grigio-nere, con la cresta sbarazzina sulla testa, sarà grande almeno quanto, lunga almeno… Un metro. Il che significa, per inferenza, che la sua apertura alare può essere paragonata in linea di princìpio a quella di uno pterodattilo, il quasi leggendario rettile volante: fino a 224 cm, in taluni esemplari della stessa specie, dalla punta di una remigante estrema all’altra. E c’è questo concetto, largamente diffuso in forza di altri tipi di volatili massivi, che una creatura tanto grossa e pesante non potrebbe muoversi agilmente nel cielo. Niente di più falso: questi rapaci, dal nome scientifico di Harpia harpyja (unici membri del loro genere) si lanciano a gran velocità tra gli alberi delle foreste tropicali sudamericane, schivando facilmente tronchi, rami e fronde traditrici. E tutto questo, soltanto per ghermire il proprio pasto quotidiano, selezionato a seconda dei gusti sulla base di una delle dispense inconsapevoli più capienti al mondo.
Porcospini, opossum, formichieri, armadilli sono cibi solamente occasionali. Così come i carnivori di taglia media, quali il coato o il kinjakou (4,6 Kg) e i cervi rossi sudamericani, che l’uccello deve fare a pezzi prima della consumazione, per la loro massa di fino a 48 chili. Molto più spesso, quindi, gli preferisce un altro tipo di cibo: uno di quegli esseri che vivono in prossimità del tetto vegetale, e talvolta osano sporgersi con la testa al fine di ricevere una dose di luce solare. È una visione semplicemente, infernale. O per restare nell’ambito mitologico suggerito dal nome dell’aquila, degna del profondo Tartaro o dell’Ade. Ciò perché il dominatore alato, normalmente, non compie gli ampi giri di perlustrazione dei suoi lontani parenti delle coste americane, o gli altri tipi di agguantatori alati delle spaziose steppe centro-asiatiche. Egli preferisce, piuttosto, appollaiarsi come una gargolla su di un albero particolarmente elevato, che poi potrebbe anche essere quello con il suo nido; spesso la sua residenza è collocata sulla sommità del kapok, uno degli alberi più alti dell’intero Sud America, in grado di raggiungere e superare in media i 40 metri. Quindi, da un tale seggio d’eccezione, il volatile scruta attentamente l’orizzonte con cipiglio crudele, nell’attesa di scorgere un qualsivoglia accenno di movimento. Finché non gli riesce, inevitabilmente, di individuare il piatto prelibato con le zampe, che sarà letteralmente inerme di fronte alla potenza dei suoi inarrestabili artigli. E si tratta generalmente, come forse avrete già immaginato, di una qualche tipologia di scimmia, appartenente ad una delle molte specie che si aggirano da queste parti, mangiando frutta, foglie e rubacchiando l’uovo occasionale a un qualche più approcciabile pennuto. O in alternativa, l’aquila non si formalizza, al loro posto può trovarsi un bradipo, forse l’animale più pacifico di tutto il Nuovo Mondo, che molto attentamente si sposta da un ramo all’altro, contando sulla lentezza per passare inosservato. Un proposito che gli riesce…9 volte su 10? Del resto, non si può trarre in inganno un simile signore dei cieli.
Che potrebbe facilmente agguantare un cocomero tra le sue zampe, e frantumarlo prima del trascorrere di una frazione di secondo. Per non parlare di una testa umana…Ed è proprio sul sopraggiungere di un simile pensiero, che l’esemplare tenuto in mano da Jeff Corwin, parte degli ospiti piumati di un non meglio definito centro di conservazione sito a Panama, si mette insistentemente a beccarlo!

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Questa lucertola è la prova che l’evoluzione è un gioco

Side Blotched Lizard

È tutta una questione che rinasce dall’umana strategia della battaglia carta-sasso-forbici, ovvero in altri termini, la morra cinese: alle origini del tempo, quando la Terra non aveva ancora vividi abitanti, in essa dominava il fuoco, di fiumi magmatici e colate laviche spropositate. Era quella, sostanzialmente, una mano con le dita a V, pronta a recidere con innata ferocia ogni proposito di vita pluricellulare. Finché dopo millenni, giunse l’ora del raffreddamento, mentre il vapore trasformato in acqua, finalmente, ricadeva fragorosamente a raffreddare l’anima del mondo. Un pugno chiuso, desolante eppure carico di possibilità. E pensate, adesso, cosa sarebbe successo se soltanto questi due elementi avessero continuato a combattersi tra loro, con un fluido mutamento tra i diversi stati di materia… Nessun dinosauro o altra bestia pleistocenica avrebbe mai trovato il modo di nascere ed imporre la propria presenza oltre quel maelstrom, figlio del supremo Caos. Se non fosse sopraggiunto… All’improvviso, un terzo fattore valido a portare l’equilibrio. Il duro suolo, ovvero un palmo aperto. Affinché le piastre sommerse scaturissero dalla sommità degli oceani, per formare un qualche accenno di vulcani e continenti. Dove i pesci, fornendosi di zampe e di polmoni, faticosamente si affrettassero per esplorare. Raggiungendo vette sconosciute e nuove, grazie allo strumento delle inconoscibili generazioni.
Silenziosa ed immobile, con gli artigli ben piantati a terra. La cresta appuntita lievemente flessa da una parte, mentre la lingua, larga e rosa, fuoriesce tra i suoi denti a segnalare un desiderio d’assaggiare il mondo. È l’iguana, essere disinteressato per definizione. A tutto questo, ed anzi per usare un’espressione ancor più rappresentativa, a tutto TUTTO, e tutto e basta. Una lucertola di taglia grande, che se minacciata da un predatore, magari riesce a muoversi veloce, sufficientemente da raggiungere il più prossimo corso d’acqua e gettarsi dentro per tentare di salvarsi le preziose squame…. “Che fatica!” Poi direbbe, se potesse; ad un tal punto, tale specie preferisce stare ferma e meditare (non per niente ha pure il terzo occhio).  Ma se per ipotesi riduci la creatura, fino alla lunghezza di 15 cm, ne otterrai una versione iper-attiva, super-veloce. Che si agita nel tentativo di proteggere il suo territorio. Che combatte con i maschi, si costituisce un harem, da difendere coi muscoli e la forza della coda. L’equivalente rettiliano di un piranha assatanato, la cui complessa vita sociale, dalle diverse sfaccettature totalmente senza paragoni nel regno animale, è stata diverse volte fatta oggetto di studi piuttosto approfonditi. E che soltanto in tempi assai recenti, è stata finalmente (in parte) decodificata. Stiamo parlando della Uta stansburiana, o lucertola con la macchia sul fianco, un animale piuttosto diffuso in tutti i deserti del Nord America ma particolarmente conosciuto, perché più prossimo agli umani, nelle regioni più aride della California, del Nevada e dello Utah. La cui caratteristica principale, come avrete forse a questo punto immaginato, è quella di avere tre versioni, o per meglio dire tre accezioni comportamentali. Identificate da altrettante specifiche colorazioni della loro gola: arancione, giallo e blu. O per tornare a una terminologia più attuale ed immediatamente comprensibili, tre archetipi o approcci tattici all’imporre il proprio desiderio sugli avversi rivali: guerriero, ladro, saggio. La loro storia di vita, spesso fatta oggetto di una o più lezioni nelle scuole americane, è una sorta di metafora della nostra stessa condizione, straordinariamente utile a capire come vanno il mondo, il lavoro e l’economia.

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