L’immagine con cui comincia questa storia è assolutamente terribile: due giovani innamorati, in bilico su rocce umide e scoscese, aggrappati in modo instabile all’interno di una caverna. Sotto di loro, la furia rombante del fiume Pachachaca, destinato a diventare a valle il più vasto e placido Rio Tallambo. Come sono arrivati in questa situazione? Il padre di lei, potente nel piccolo villaggio lagunare di Huauco, li ha costretti a fuggire, dopo aver ordinato la cattura dello spasimante proveniente da Oxamarca. Forse appartenente a una famiglia rivale, magari poco raccomandabile per nascita o reputazione. Ma ora una vittima, assieme a lei, delle circostanze. Una sola persona potrà salvarli e quella persona, al momento, è in ritardo. “Sei sicura di aver lasciato il biglietto nella stalla? E che nessuno potrebbe averlo trovato e rimosso, o peggio, portato a tuo padre?” Dice lui, le dita doloranti infilate ormai da trenta minuti nelle fessure della roccia carsica resa sdrucciolevole dagli spruzzi della corrente. “Oh, non dirlo neanche! Quenti SARÀ qui con i cavalli. Gli ho raccontato tutto e lui già sapeva dei tuoi parenti a Vigaspampa. Avrà senz’altro capito il bisogno che abbiamo di allontanarci.” È una situazione piuttosto difficile, ma lei non disperava. Dopo tutto, gli appropriati sacrifici erano stati fatti alla Pachamama prima dell’alba, assicurando il sostegno della grande Madre Terra. E d’un tratto, il servo fedele oscura le stelle sull’imbocco della caverna: “Ecco, gli vado incontro.” Le garantisce; “Tu non muoverti per il momento, tornerò a prenderti.” La fiducia in un domani migliore a questo punto aumenta, mentre l’amore della sua vita si dirige in direzione della figura sul ciglio della cascata, volendo controllarne l’identità. Dieci, quindici minuti dopo, infreddolita e stanca, ancorai in attesa di una chiamata, lei decide di seguirlo. Lentamente, un piede alla volta, inizia a percepire la luce soffusa della luna di metà del mese. Ed in quel momento, lo vede: l’anziano, il gentile ed affidabile Quenti, la persona che conosceva fin dalla nascita ed aveva sempre avuto parole di gentilezza, riverso a terra vicino al baratro e con un’evidente ferita da zoccolo sulla testa. Che faticosamente si volta e la guarda con un’espressione… Sconvolta. Quindi un grave sospetto inizia a farsi strada nella sua mente. Il cavallo, dov’è il cavallo? Si sporge dalla rupe dove l’acqua compie il possente balzo, vede un’ombra indistinta ma non riesce a comprenderne pienamente l’identità. Non può semplicemente elaborare, con lo strumento dell’analisi, ciò che parrebbe essere capitato. Che l’uomo con cui aveva progettato un’intera vita assieme, per placare l’animale prossimo alla follia, aveva finito per venire spinto di sotto, seguito pochi secondi dopo dall’equino incapace di comprendere la precarietà del luogo. Cercando di smentire le indefinibili impressioni, si allunga ulteriormente verso il grande balzo. E sente la roccia, sotto di se, scricchiolare abbastanza forte sopra il rombo della cascata. Ormai è troppo tardi, per tornare indietro!
Nell’ultimo atto di una tragedia che potremmo definire a suo modo Shakespeariana (o quanto meno riconducibile al suo dramma, forse, più celebre di Romeo e Giulietta) gli abitanti del villaggio, al seguito di un crudele lord Capuleto di questa comunità degli altopiani raggiungono il ciglio delle colline di Cumullca. E con occhi increduli, scorgono un immagine del tutto priva di precedenti: guidata da una forza oscura ed inconoscibile, la maniera in cui la cascata ricade sembra aver assunto la forma di una donna in abito bianco. Capendo la portata e gravità del presagio, egli si getta in ginocchio presso le acque turbinanti del Pachachaca. E lascia che le sue lacrime si uniscano al grande flusso.
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L’artista che libera la maschera nascosta nel midollo di un cipresso giapponese
Riesci a sentirmi, non è vero? Percepisci il mio bisogno di assumere una forma tangibile, per poter raccontare la mia storia? Sono la consorte imperiale del palazzo di Chikuzen. Ma tu puoi chiamarmi, più semplicemente, Ko-omote (小面). La “maschera di una giovane donna” questo diventò il mio nome, attraverso le plurime generazioni drammaturgiche trascorse nella storia del vasto Giappone. In un’epoca remota dei nostri trascorsi, dissi al giardiniere di mio marito che sarei andato ad incontrarlo dietro al pozzo, se soltanto avesse suonato il tamburo che avevo precedentemente nascosto nel cavo di un albero di alloro. Ma lo strumento era fatto con l’intreccio tessile della saia. Ed a causa di ciò, non poteva suonare. Quando se ne rese conto, egli saltò nel pozzo per togliersi la vita. Come credi che mi senta, adesso… In seguito, naturalmente, ebbi modo di reincarnarmi: presi il nome di Rokujo e diventai l’amante del Principe Splendente, l’uomo più magnifico dell’intera corte imperiale Heian. Ma quando sua moglie restò incinta di un erede, egli mi abbandonò senza troppe cerimonie. Per questo la perseguitai durante il sonno in forma di hannya (般若 – spirito vendicativo) necessitando di essere esorcizzata prima che portassi anche lei al suicidio. Di sicuro non è priva di una tragica complicità la vita di una giovane donna, all’interno delle storie che costituiscono il patrimonio letterario del teatro Nō! (能 – “abilità”)
Il che vuol dire d’altra parte vivere più intensamente, dal momento stesso in cui veniamo appese al volto di un attore per salire su quel palcoscenico che rappresenta il megafono di quei racconti. Poiché quest’arte performativa antica e intrisa di una fama leggendaria, fin dall’epoca della sua genesi remota, rappresenta una questione tipica dal mondo dagli uomini e portato in scena solamente da loro. Laddove il nostro tocco, al giorno d’oggi, può iniziare ad essere determinante almeno da un punto di vista. Quello che consiste nel creare, con perizia imprescindibile, l’aspetto esteriore più d’ogni altro necessario sopra il palcoscenico di tale contingenza ripetuta: le maschere dei personaggi, siano questi benevoli, malefici o funzionali in altro modo all’economia del dramma. Così come ci mostra l’artigiana Mitsue Nakamura, già protagonista di un articolo redatto per il New York Times lo scorso marzo, all’opera nel suo laboratorio dov’è solita scolpire, un colpo alla volta, i volti riconoscibili di un metodo performativo rievocato con cadenza persistente, che aspira almeno in apparenza all’eternità. Non c’è una singola forma di teatro più antica, d’altra parte, praticata ancora oggi con la stessa assidua concentrazione, fin dalla remota accettazione del giovane Zeami Motokiyo presso la corte del terzo shogun di epoca Muromachi, Ashikaga Yoshimitsu (1358-1408) che ne aveva fatto il proprio consulente artistico ed, oggi siamo inclini a desumere, amante. Permettendogli, assieme al padre Kan’ami Kiyotsugu di ridefinire ed adattare l’ampio canone creativo delle danze, rappresentazioni sacre e lazzi popolari in una forma di esibizione più codificata ed attenta, così calibrata per le aspettative di una classe nobile tra le più colte ad essere mai esistite in questo paese dell’Estremo Oriente. Da cui un complesso stile, precise movenze. Ed il metodo così caratteristico, di controllare e veicolare le espressioni del volto..
La grotta dipinta dagli uomini prima che giungesse il mare
Ogni grande avventura inizia con un primo passo, fatta eccezione per quelle, talvolta ancora più incredibili, che individuano il proprio esordio nel momento di un tuffo. Dal ponte di una barca, situata in posizione strategica, ovvero in corrispondenza di uno di quei luoghi che costituiscono il punto di contatto tra l’universo dello scibile acquisito e tutto quello che risiede oltre il suo confine, ovvero l’assoluta novità di un qualche cosa di dimenticato. Che prepotentemente torna al centro delle discussioni, grazie all’opera di un singolo e ambizioso visionario. Dopo tutto cos’è uno speleologo, esploratore delle grotte più o meno sommerse, se non il cercatore di tracce ovvero valido pioniere, capace di raggiungere sentieri assai lontani dagli acclarati limiti del senso comune. Benché persino lui sarebbe poco incline, nella maggior parte delle circostanze, a ritrovare il segno di un’antica civiltà, soprattutto se per giungere in tal posto si è dovuto immergere a più di 37 metri nelle acque salmastre che circondano un continente. E non è forse, proprio questa, una prova, ovvero il nesso dell’intera narrazione? Molte delle trattazioni relative alla grotta francese di Cosquer situata non troppo lontano dalla città costiera di Marsiglia, ne hanno fatto un’argomentazione particolarmente difficile da accantonare. In merito all’incombente innalzamento del livello dei mari. Poiché in assenza di tale fenomeno, l’unica possibile spiegazione alternativa è che tra i 27.000 e 19.000 anni prima di questa data, nell’assoluta oscurità, una rilevante quantità di uomini preistorici abbiano nuotato fin qui a rischio della propria stessa sopravvivenza. Per poi mettersi, nel poco tempo a disposizione prima dell’esaurimento dell’aria, a dipingere 200 figure parietali, tra realistiche rappresentazioni di animali come cavalli, bisonti, antilopi, cervi e felini. Oltre ad alcune figure antropomorfe con vistose caratteristiche sessuali e l’onnipresente “stencil umano” del neolitico, ovvero la sagoma di mani attorno a cui è stato spruzzato del pigmento colorato, probabilmente dalla bocca stessa del suo creatore. Esattamente il primo segno individuato, quest’ultimo, nell’ormai remoto 1991 durante una delle esplorazioni successive alla prima scoperta di Henri Cosquer, nel periodo in cui stava tentando di trovare i confini di questo mondo sommerso con l’aiuto dei fratelli belgi Bernard e Marc Van Espen. Ma poiché nessuno stato di grazia può durare per sempre, è a questo punto che le voci cominciarono a girare, raggiungendo l’orecchio di altri sommozzatori che speravano di fare la scoperta del decennio, non tutti necessariamente cauti, né abbastanza esperti da scongiurare il pericolo latente. Fino al tragico incidente datato al 9 luglio 1991 quando tre subacquei provenienti da Grenoble, sollevando accidentalmente una quantità eccessiva di sedimenti dal fondo del lungo ed inclinato tunnel d’accesso, si ritrovarono disorientati non riuscendo più ad uscire prima dell’esaurimento dell’ossigeno. Così che, dopo aver partecipato al recupero dei corpi assieme al collega Yann Gogan, i primi frequentatori della grotta non hanno altra scelta che dichiararne ufficialmente l’esistenza presso l’Ufficio degli Affari Marittimi di Marsiglia. Inizia, a questo punto, un lungo periodo di studi ed approfondimenti…
Video appassionante mostra la perizia coreana nel far progredire le ceramiche a sbalzo
In questa sequenza pubblicata sul canale d’approfondimento artistico Process K, l’artista coreano Tag Weondae, dello studio di produzione Woorimdoe, si mostra profondamente concentrato nell’apposizione di uno strato decorativo sulla superficie di un vaso dalle dimensioni alquanto significative. In quella che la didascalia di YouTube definisce come una tecnica affine al concetto di buncheong, apparentemente simile al sistema occidentale dello “sgraffito” un approccio pratico consistente nell’ottenimento di un immagine incidendola direttamente in uno strato monocromatico, in questo caso la vetrinatura stessa dell’oggetto di una simile capacità manuale. Un tratto dopo l’altro, come se fosse la cosa più facile del mondo, l’artista tratteggia le forme riconoscibili di un albero contorto dai molteplici rami, alcuni pescatori, le gru in volo e dei bambini che procedono in groppa ad un bue. Quindi, in un impulso dinamico ma attentamente calibrato, inizia a circondare i suoi disegni con tratti grossolani e nebulosi, apparentemente privi di una logica del tutto evidente. Ma l’immagine, a poco a poco, inizia ad assumere un significato maggiormente profondo…
Ogni opera creativa prodotta nel corso dei secoli tende in modo implicito alla perfezione, ma siamo assolutamente certi, in fin dei conti, che si tratti di un concetto totalmente oggettivo? Se il principio di partenza delle arti, a seconda dei secoli, varia in maniera progressiva e qualche volta imprevedibile, cosí dovrebbe essere anche nel caso dei valori perseguibili attraverso il suo sentiero verso la tangibile presenza generativa. E non è certo la raffinatezza, di suo conto, a dover costituire in modo imprescindibile un sinonimo di tale persistente aspirazione umana. O almeno ciò si evince, in modo alquanto pratico, dal prendere atto delle caratteristiche fondamentali dell’attività ceramica della penisola coreana, un ambito talmente distintivo e interessante, da aver costituito per secoli una delle principali esportazioni di questo paese. Fino ai confini dell’epoca moderna ed oltre, in modo tale da trascendere il mero concetto di una prassi dall’interesse nazionale diventando un punto di riferimento per culture altrettanto attente ai fattori tecnologici delle cose quotidiane, quali potremmo essere inclini a definire quelle del Giappone e della Cina. Ed è perciò diffuso ancora oggi, il commento storiografico basandosi sul quale nulla di più bello ed universalmente apprezzabile in quanto tale sia effettivamente rintracciabile in tale ambito del cosiddetto celadon, dal termine francese usato in qualità di sinonimo del personaggio letterario dell’Astrea, un pastore dal costume ornato di nastri di un colore verde chiaro. Lo stesso caratterizzante, in base al novero dell’esperienza dei collezionisti, il tipico vaso proveniente dal paese di Goryeo, originariamente traslitterato dal viaggiatore Marco Polo mediante l’espressione fonetica di Cauli. Una scelta di termini che ci pone, cronologicamente, nella seconda metà del XII secolo, quando tale forma d’arte fu capace di raggiungere una vetta destinata a rimanere insuperata nei secoli successivi. Con una pletora di meriti talmente lunga e significativa, da indurre lo stato centralizzato del paese all’implementazione di un sistema di meriti e regolamenti, per cui giammai un artista produttore di cheongja (청자) avrebbe potuto avere l’iniziativa d’insegnare la sua arte all’estero, o in alternativa importare termini creativi da tale misterioso ed altrettanto proibito ambiente. Il che diede inizio a quella che potremmo definire come l’arte senza tempo del buncheong…