L’aguzza ferocia dell’albero dinamitardo sudamericano

Per tutti i crimini, le efferatezze e i madornali errori commessi durante la colonizzazione delle Americhe, sarebbe impossibile non riservare un minimo di considerazione nei confronti dei coraggiosi esploratori che. sbarcati dalle navi provenienti dal Vecchio Mondo, s’inoltrano per primi nelle giungle misteriose di quello che avrebbe potuto essere, sotto numerosi punti di vista, un pianeta totalmente diverso. Uomini e donne che tra gli alberi di giungle millenarie, vennero a contato con culture, una flora ed una fauna capaci di rimettere in discussione ogni assunto dato per scontato in merito a che cosa fosse possibile, o in qualsiasi modo conciliabile all’umana filosofia. Così che per ogni “indiano” caribe incontrato a sud del 10° parallelo, armato di cerbottana con dardi avvelenati e una tradizionale inclinazione verso il cannibalismo, i conquistatores potevano consolarsi, prima dell’ultimo minuto, accarezzando le gelide canne dei fucili a polvere nera, armi certamente di maggior impatto nella maggior parte delle circostanze presenti e future. Almeno finché un giorno, nelle oscure profondità occultate, non si udì un suono inconfondibile parecchie volte replicato: possibile che tali indigeni, per proteggere la patria dei propri avi, avessero ricevuto in dono la capacità di costruire esattamente la stessa tipologia di armi? Era un’indefinita mezza estate del XVI secolo, quando letterali milioni di alberi di jabillo videro finalmente maturare i propri frutti. E con roboanti tuoni, lasciarono esplodere verso il cielo la speranza di un glorioso domani…
Questo è il punto in cui generalmente, il narratore afferma per darsi importanza: “Sebbene a guardarlo, non sembri davvero niente di eccessivamente particolare…” Se non che la pianta che la scienza avrebbe un giorno definito Hura Crepitans, a causa delle sue sopracitate caratteristiche uditive, e la popolazione generalista albero del calamaio-con-sabbia, per l’impiego come materiale nella costruzione di tale prestigioso oggetto, non faccia molto per passare inosservato NEANCHE dal punto di vista esteriore. Un titano alto attorno ai 60 metri, dal legno duro e pregiato che tutti amerebbero scalare, se non fosse per il “piccolo” particolare di un tronco totalmente ricoperto d’escrescenze coniche affilate come rasoi, minacciosamente simili a denti di squalo. Spine che sporgono dalla corteccia, tali da esser valse allo svettante arbusto il soprannome surreale di “Scimmia-non-sale” in grado di sdrammatizzare, almeno in parte, la latente pericolosità di questa particolare espressione vegetale d’odio, spietatezza e malignità evolutiva. L’albero in questione infatti, appartenente alla vasta famiglia delle euforbiacee, ha la caratteristica piuttosto problematica di una resina biancastra e lattiginosa, la cui composizione ricca di lectine e per questo in grado d’inibire l’agglutinazione da parte dell’organismo risultava l’ingrediente perfetto per i suddetti dardi preparati dai nativi, capaci d’indurre nei loro nemici una serie di sintomi comparabili a quelli di una trasfusione effettuata con gruppo sanguigno errato. Mentre se l’albero veniva bruciato, in maniera più o meno intenzionale, il fumo diffuso risultava pregno di particelle in grado di causare gravi complicazioni di tipo respiratorio. Il che lasciava l’unica opzione sul sentiero di tenersi lontano, per quanto possibile, dal suo richiamo beffardo, garantendo per l’intero copro di spedizione una ragionevole sicurezza da parte di un così specifico pericolo della foresta. Giusto? Sbagliato. Perché non è certo un caso se, come dato ad intendere, un altro soprannome della pianta si sarebbe successivamente cristallizzato nell’inquietante aggettivo di “dinamitardo”….

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L’enigma oceanico dell’albero impiegato per intrappolare le persone

AD 1790: Waru camminava curvo sotto il peso delle catene, quelle che i coloni provenienti dalle terre oltre il mare avevano assicurato alle sue spalle, al collo e ai polsi dopo che i giovani del suo villaggio si erano ribellati ad un fato eccessivamente crudele. Il guardiano capofila della carovana, composta in numero maggiore di membri del popolo Miriuwung Gajerrong della regione di Kimberley, amici, lontani parenti, compagni di caccia, stavolta condotti da coloro che amavano farsi chiamare nella propria lingua blackbirders ovvero “[catturatori] di uccelli neri”. I pirati anglofoni senza nessun tipo di quartiere per coloro che potevano servire, in qualche modo, ai loro sinistri scopi. Il che tendeva a rivelarsi doppiamente vero per coloro che facevano parte della generazione di Waru, tanto problematici nei confronti del loro dominio, con mazze, boomerang ed altre armi di una dura ribellione, quanto potenzialmente utili, una volta trasportati lungo le coste australiane fino alla baia di Kuri e Wallal Downs, località famose per la quantità di ostriche da perle presenti naturalmente sui loro fondali. Un letterale tesoro, pronto da cogliere ed almeno in circostanze ideali, soprattutto considerata la rinomata presenza di squali, lavoro perfettamente idoneo ai rappresentanti della sottomessa etnia. Mentre il gruppo procedeva sotto il pungolo di lance e canne di fucile, quindi, Waru riconobbe la sagoma che stava comparendo all’orizzonte: quella del gadawon quasi del tutto privo di foglie in questa stagione, anche chiamato l’albero sacro o albero bottiglia, per il prezioso contenuto d’acqua e le sostanze nutritive nascoste sotto la dura scorza dei propri frutti, simili a noci giganti. Due dei carcerieri si scambiarono quindi alcune parole, che a loro insaputa il guerriero Miriuwung riuscì a comprendere alla perfezione: “Tutti e 12 non entreranno sulla nostra barca. Mettine… Quattro là dentro e scegli una guardia. Torneremo a prenderli più tardi.” Oh, sacrilegio! Pensò Waru, scambiandosi uno sguardo con il suo compagno di sventura più vicino, stringendo i pugni finché le sue nocche assunsero il pallore dei morti. Perché sapeva cosa stava per succedere: molti gadawon, infatti, possiedono una cavità interna. Abbastanza grande per farci entrare un certo numero di malcapitati, nella più totale noncuranza della loro effettiva funzione nei rituali funebri e per il benessere del grande Spirito dei villaggi…
Fatto, verità storica, ipotesi o una semplice allegoria? Che l’albero-prigione di Derby, o quello quasi identico di Wyndham, cittadina situata quasi 1500 Km a nord-est, siano stati effettivamente utilizzati come prigioni temporanee per gli aborigeni costretti ad una vita di schiavitù dai coloni europei d’Australia, resta oggi una vicenda totalmente priva di conferme oltre a quella del sentito dire. Benché in effetti, sia perfettamente lecito pensare a un simile utilizzo per questi due rappresentanti della specie Adansonia gregorii, anche detta del boab o baobab d’Oceania. Un albero tendenzialmente più basso, ma per il resto quasi indistinguibile dal proprio omonimo subsahariano, noto per la sagoma riconoscibile in tante foto sudafricane. Ed in funzione di ciò dotato non di un singolo tronco bensì quello che viene generalmente definito il caudex, ovvero lo “stelo” risultante nello specifico caso da una serie di controparti verticali derivanti dallo stesso ammasso di radici, la maggior parte delle volte in grado di fondersi assieme ad anello, formando uno spazio vuoto e ombroso, accessibile soltanto attraverso un piccolo pertugio. Il quale, in realtà, poteva servire a molti possibili scopi…

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La prova di navigazione fruttariana dell’intraprendente scarabeo di mare

Molti di coloro che hanno visitato l’isola Orchidea e l’isola Verde a largo della costa sudorientale di Taiwan hanno avuto modo di fare la loro conoscenza, conservandone un ricordo ben impresso nella memoria. Sono gli scarabei del genus Pachyrhynchus, parte dell’immensa famiglia dei curculionidi, insetti spesso associati ad una lunga bocca a proboscide con le antenne, che disegnano una sorta di tridente parallelo al suolo detto “il rostro”. Ma l’espressione locale di un tanto variegato gruppo di creature, oltre a mancare di questa caratteristica, presenta svariate differenze con i loro parenti più o meno prossimi dei continenti eurasiatico ed americano: la colorazione metallica iridescente, piuttosto che nera, dalle molte strisce, pallini o altre figure dall’aspetto ripetuto. La dura corazza del proprio esoscheletro, tanto resistente da impedire alle lucertole insettivore di penetrare con l’impeto del proprio morso fino alla parte tenera degli esemplari adulti. E soprattutto in conseguenza di quest’ultimo aspetto, un peso eccessivo per spiccare il volo, che ha portato negli anni alla fusione delle due elitre (coperture delle ali) rendendoli delle creature del tutto incapaci di sollevarsi da terra. Il che non sarebbe tanto insolito, né significativo, se svariate specie di Pachyrhynchus non avessero anche l’abitudine di fare la loro imprevista comparsa sulle coste della Cina, in Giappone e in molte piccole nazioni isolane del Pacifico, spesso con variazioni minime se non addirittura aspetto identico ai loro colleghi disseminati nel vasto areale di appartenenza. In quale modo, dunque, dovremmo pensare che una simile creatura ha attraversato le vaste distese oceaniche per approdare su spiagge distanti?
Da lungo tempo è esistita una teoria: poiché infatti l’esemplare adulto di questo genere presenta un’interstizio cavo sotto la sua piastra dorsale, si era dimostrata in modo empirico una sua capacità innata di trattenervi all’interno una bolla d’aria, capace di garantirne il galleggiamento, anche per i 5 o 6 giorni necessari per essere trasportati a circa 400 Km di distanza dalla rapida corrente di Kuroshio, grossomodo corrispondente a quella del Golfo per l’oceano Atlantico dal nostro lato della Terra. A nessuno, fino ad ora, era però venuto in mente di mettere alla prova l’ipotesi, dando per scontato che soltanto poiché il piccolo animale “poteva” farlo, una simile impresa non avrebbe portato conseguenze nocive sulla sua continuativa sopravvivenza. Nessuno finché a Wen-San Huang del Dipartimento di Biologia dell’Università Nazionale di Chung Hsing a Taiwan, lo scorso ottobre, non venne in mente di procurarsi un certo numero di esemplari adulti di Pachyrhynchus (specie: P. jitanasaius), lasciandoli fisicamente immersi nell’acqua di mare in un’apposita vaschetta del proprio laboratorio. Con il risultato, per certi versi inaspettato, di vederli morire annegati nel giro di appena un paio di giorni. Lungi dal perdersi d’animo, a quel punto, l’intuitivo scienziato pensò di ripetere lo stesso esperimento con le larve, seguite dalle uova, dello stesso scarabeo. Scoprendo che più giovane era la creatura sottoposta a una così dura prova, tanto maggiormente poteva estendersi il suo periodo di sopravvivenza in mare. Il che fece germogliare in lui la radice, o ramo che dir si voglia, di un’alquanto rivoluzionaria idea…

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