L’isola energetica, difficile scommessa sul futuro delle rinnovabili nel Nord Europa

Pesante può essere talvolta l’atmosfera degli ambienti di passaggio, anche detti “liminali” all’interno di determinati ambienti, presso cui la mente suole anticipare i termini dell’obiettivo, lasciando che sia il corpo a compiere il semplice gesto di mettere un piede davanti all’altro. E volendo qui considerare l’elemento storico del territorio europeo, non c’è mai stato un tratto del paesaggio maggiormente liminale che il Dogger Bank, morena di accumulo dei sedimenti situata tra l’Inghilterra e il gruppo dei paesi Scandinavi, lungo cui lo spazio che separa la superficie marittima dall’ambiente di granchi, lumache o vermi dei fondali varia tra i 15 ed i 36 metri al conteggio odierno. Occorsi dall’ancestrale ponte di terra, percorso all’epoca del grande Pleistocene dalle tribù di umani ed animali del selvaggio periodo coévo. Uno spettatore neutrale del grande scorrere del tempo potrebbe tuttavia restare affascinato, dalla maniera in cui al giorno d’oggi si sta parlando di veder riemergere un ambiente percorribile, e persino edificabile, nell’estrema parte occidentale di quella regione, come un’Atlantide rediviva situata ad “appena” 80 Km di distanza dalla costa del paese della Sirenetta e Legoland. Per l’iniziativa chiaramente antropogenica della posa in opera di un’isola artificiale, ma con finalità per questa volta solamente propedeutiche alla conservazione ambientale. Ovvero vantaggiose, per riuscire ad allontanare l’entropia incessante che conduce la moderna società all’autodistruzione. Uno stadio della nostra storia non soltanto agevolato dal mutamento climatico, ma in tempi possibilmente ancor più rapidi avvicinato per l’esaurimento delle riserve economicamente proficue dei preziosi carburanti fossili, di cui esiste in modo imprescindibile una quantità finita all’interno del sottosuolo martoriato di questo pianeta. E che presto sarà “finita” anche nel senso alternativo di tale problematico aggettivo. Da qui l’idea di accelerare, per quanto possibile, la costruzione di siti per l’accumulo e lo sfruttamento di fonti d’energia alternative, preferibilmente derivanti dai processi impliciti e le attività climatiche di tale mondo, primo tra tutti lo spostamento ed il ricircolo dell’aria causa l’accumulo di fronti di bassa ed alta pressione. Ovvero il vento, se vogliamo usare una parola semplice, che notoriamente corre via in maniera particolarmente libera e copiosa ove nessun ostacolo ne ostruisce il cammino: in mare. L’ambiente ideale per la costruzione di centrali offshore costituite da ordinate schiere delle amate-odiate pale eoliche, strumenti che producono energia previa compromissione non del tutto trascurabile dell’aspetto naturale dell’orizzonte. Il problema, a tal proposito, è la necessità di posizionare simili elementi non distanti dalla costa, per poi collegarli in modo parallelo al trasformatore o centrale di scambio, da cui verrà veicolata l’energia elettrica verso i destinatari finali. E se ci fosse, invece, un metodo migliore? Se fosse possibile disporre un qualcosa di simile lontano dagli occhi e dal cuore ma non distante, parimenti, dai nostri frigoriferi, forni a microonde e televisori? Il Ministero del Clima, l’Energia e i Servizi della Danimarca, assieme ai partiti politici in un modo o nell’altro al governo a partire dal 2016, offrono una risposta piuttosto ingegnosa in materia. Si tratta del progetto più ambizioso nella storia della loro intera nazione…

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Visioni della macchina che aspirerà le vaste risorse minerarie dei fondali marini

Mentre il mondo si prepara per l’obbligatoria transizione verso forme d’energia maggiormente pulite, c’è una problematica domanda insiste sulle delicate operazioni tecnologiche di aggiornamento di risorse ed infrastrutture: da dove, esattamente potremo procurarci i materiali necessari? Tutto quel nickel, rame e cobalto, che l’umanità ha dovuto utilizzare fino ad ora per la produzione di motori elettrici e batterie. Ma su scale relativamente più gestibili di quelle che stanno iniziando a profilarsi all’orizzonte. Non che questa Terra, allo stato attuale dei fatti, sia ancora arida e del tutto priva di risorse. Sebbene urti l’immaginazione, e decisamente non poco, l’ipotesi futura di colossali miniere a cielo aperto, che deturpano il paesaggio e inquinano ancor più degli autoveicoli che stavano iniziando a scomparire dalle strade. Si dice che le profondità oceaniche ci siano meno conosciute delle remote distanze cosmiche attraverso lo spazio esterno. E come tutte le frontiere, nascondono risorse significative pronte da essere semplicemente prese allungando una (lunga) mano. Perciò, nessuno potrà dubitare che ivi alberghi una possibile risoluzione del problema. A conto di poter fare affidamento su importanti progressi procedurali e tecnologici, per semplificare quello che altrimenti rischierebbe di diventare uno dei processi più difficoltosi, ed improduttivi, dell’odierna economia di scala.
Quando si affermava anticamente che le strade erano letteralmente lastricate d’oro e argento nel cosiddetto Nuovo Mondo, si trattava largamente di una metafora. Eppure non sarebbe poi così lontano dalla letterale verità dei fatti dire lo stesso delle remotissime profondità marine, oltre i cinque, seimila metri dalla luce del Sole, ove nel corso di millenni ha avuto modo di svilupparsi un fenomeno dall’andamento alquanto singolare. Col che intendo l’ancestrale accumulo, per effetto dei venti e rigurgiti geologici a partire dai camini termali, di un’infinità di particelle di metalli pesanti, soprattutto manganese, successivamente in grado di costituire al giro dei millenni delle tipiche concrezioni botroidali. Ovvero in altri termini, oggetti bitorzoluti della dimensione approssimativa tra quella di un uovo e una patata, letteralmente disseminati come si trattasse di affascinanti oggetti del desiderio. Carichi di opulenza e straordinarie opportunità. Da qui i tentativi già effettuati, i primi dei quali risalgono all’inizio degli anni ’70 ad opera di varie compagnie multinazionali, di sollevare in qualche modo tali oggetti soprattutto nella prossimità delle coste, in maniera analoga a quanto fatto in alcune località produttrici dei diamanti marini africani. Senza tuttavia riuscire mai a trovare un approccio sistematico realmente efficiente, causa le notevoli capacità logistiche incipienti in simili circostanze di procura. Almeno fino a questi ultimi anni. Come apprezzabile dal video qui prodotto nel 2019 dal MIT di Boston, in cui il Prof. Thomas Peacock ci descrive con un l’ausilio di una grafica 3D gli ultimi progressi, e quella che potrebbe costituire una vera e propria avanguardia, di una delle industrie nascenti che potrebbero caratterizzare i restanti tre quarti del XXI secolo: l’attività mineraria in acque profonde o deep-sea mining, come preferiscono chiamarlo i nostri amici e colleghi d’Oltremare…

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California: nove anni di neutroni custoditi dietro l’uscio più blindato al mondo

Risalendo addietro nella storia pregressa della settima arte, quando il cinema ancora non poteva fare affidamento su sofisticati effetti digitali per creare l’illusione virtuale di ambienti, personaggi fantastici ed eventi totalmente fuori dal comune, accadeva talvolta che le scene più notevoli utilizzassero qualcosa che esisteva realmente, ma spostato nell’intreccio narrativo per rispondere a specifiche esigenze di sceneggiatura. Soprattutto se prendiamo in analisi l’intero genere fantastico/fantascientifico, e nel caso specifico una celebre barriera con lo scopo di frapporsi verso gli obiettivi dei protagonisti del film Tron del 1982. Sto parlando della colossale porta blindata per il caveau della ENCOM, immaginaria compagnia informatica bersaglio delle attività di hacking white hat (a fin di bene) dell’ex-dipendente Kevin Flynn, diventato in seguito programmatore di videogiochi. Un massiccio blocco di metallo e cemento, di forma quadrata con oltre 3 metri e mezzo di diametro e quasi altrettanto profondo, che una singola persona può riuscire ad aprire, facendolo ruotare su quelli che potrebbero essere i cardini più efficienti della Terra. Il NOSTRO pianeta intendo, considerato come tale elemento architettonico non solo esista realmente, ma si trovi nel sottosuolo di una delle installazioni scientifiche più grandi ed influenti di tutti gli Stati Uniti, quel Lawrence Livermore Laboratory stabilito e gestito in seno all’università di Berkeley, California nel 1952 al fine di approfondire, elaborare e custodire la tecnologia di produzione dell’arma di distruzione di massa più terribile mai costruita dalla specie umana. Sto parlando della bomba atomica ovviamente, e di tutti quei sistemi di stoccaggio necessari ad impedire la fuoriuscita di particelle atomiche potenzialmente letali, all’interno di un qualsiasi ambiente in cui aggirino forme di vita abili e senzienti. Contro l’avvelenamento, la malattia e la morte da radiazione, una delle più terribili all’interno di un catalogo già piuttosto grave, proprio perché lenta, agonizzante ed impossibile da prevedere. A meno di evitare certi luoghi o renderli abbastanza irraggiungibili, come evidentemente agevolato da svariate tonnellate di barriera mobile costruita per tenere le persone all’esterno, ma anche, e soprattutto, chiuso dentro l’impossibile orrore ereditato dai precedenti utilizzatori coltivatori della stessa serra
Una cosa, in parole povere, nota con il nome relativamente criptico di Rotating Target Neutron Source II (RTNS-II) concepita ed assemblata nello stesso anno dell’uscita del film Disney, molto presumibilmente dopo il concludersi delle riprese, con un singolo ed imprescindibile obiettivo: effettuare la fissione (divisione) dell’atomo, con la maggiore rapidità e costanza raggiungibili mediante reazioni graduali e non deflagranti. Un approccio alternativo e molto più tranquillo a quello della bomba atomica, che all’apice della seconda guerra mondiale aveva generato la più grande concentrazione d’energia mai prodotta da un singolo dispositivo umano. Ottenendo poi come semplice effetto “collaterale” l’arma della grande morte, che è poi la nemesi devastatrice di ogni civilizzazione più avanzata degli uomini delle caverne. Un’alternativa quindi assai più nobile ed ancora perseguita da numerose istituzioni scientifiche di questo mondo, con la definizione di energia a fusione, soprattutto grazie all’invenzione dell’apparato toroidale del Tokamak, ad opera dei fisici russi Igor Tamm e Andrei Sakharo al principio degli anni ’50. Ma che comporta la stessa tipologia di pericoli per la salute, dilazionati e prolungati attraverso il procedere degli anni. Qualcuno potrebbe dire, persino, esasperati…

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Elettrico Lilium, un pettine volante sull’ali del cambiamento

Non capita certo frequentemente, persino in quest’era iper-tecnologica, che una “semplice” startup riesca a generare un nuovo processo nel mondo dei trasporti aerei, al punto da creare un’intera nuova tecnologia di apparecchio, essenzialmente un concentrato di plurimi elementi relativamente innovativi. Che tutti assieme mostrano quanto possa essere facile, persino invitante, compiere il balzo per l’Empireo scrollandosi di dosso la presunta affinità terrestre della specie umana. Con ali aguzze e frastagliate come il ripetersi di una merlatura medievale, la ripetizione di un modulo del tutto assente dalla cognizione convenzionale di cosa debba essere, e come possa presentarsi esteriormente un aeroplano. Naturalmente, ci sono startup e startup: da una parte quelle che raccolgono su Internet i fondi per creare un qualche tipo di software o videogioco, con capitali paragonabili a quelli di un medio bar di paese. Ed altre come questa compagnia tedesca, ricevente di 250 milioni di dollari l’anno con 290 di liquidità e 75 di credito da parte di personalità del calibro di Elon Musk, che ne ha investito fino ad oggi un gran totale di 35. Nonché 500 preordini confermati di un velivolo, con costo unitario pari o superiore a 4,5 milioni di dollari cadauno. Un affare dalle proporzioni decisamente superiori, dunque, a quello dei numerosi “droni-taxi” a decollo verticale che hanno affascinato nel corso degli ultimi anni le testate mediatiche, come esemplificato dall’obiettivo dichiarato di ottenere entro il 2025 la doppia certificazione della FAA statunitense ed EASA europea per il loro eponimo pupillo. Ovvero in altri termini, la conferma che non soltanto l’atipico marchingegno noto come Lilium nella sua incarnazione definitiva possa volare in tutta sicurezza, ma il suo approccio sia persino adottabile su scale ben maggiori in quanto valida espressione del bisogno assolutamente contemporaneo di collegare due punti geografici attraverso lo spazio normalmente posseduto dagli uccelli e nubi fluttuanti. Finalità tutt’altro che irraggiungibili proprio grazie a quella stessa caratteristica che è poi anche all’origine dello strano aspetto e l’unicità della creazione in oggetto, ovvero la presenza di ben 36 motori elettrici, di cui 12 montate sulle ali anteriori del tutto simili ad un paio di canard con funzioni meramente aerodinamiche e 24 su quelle posteriori o flap, che poi sono anche l’unica parte mobile dell’intero aereo, chiamate per l’appunto con il nome della principale superficie direzionabile diagonalmente o perpendicolarmente alla direzione percorsa dal pilota. Un sistema quanto mai intrigante per modificare l’assetto in volo fino al punto estremo della stasi orizzontale, così come fatto dai comuni elicotteri, ma potendo una volta in quota puntare direttamente all’indietro gli ugelli, per procedere ad una velocità di fino a 300 Km/h. Particolarmente vantaggiosa, tra le tante ragioni, per il modo in cui incrementa la portanza naturalmente acquisita riducendo conseguentemente i consumi, esigenza niente meno che primaria per un mezzo come questo che riesce ad essere completamente alimentato a batteria. Pur vantando, almeno sulla carta, una massima distanza raggiungibile di 250 miglia/300 Km in qualsiasi direzione, proprio grazie ad una serie di accorgimenti tecnologici completamente al di fuori delle convenzioni…

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