Come aprire lo scrigno fossile di un granchio primitivo

Provando ancora il senso dell’aria salmastra che ti accoglie mentre scendi dalla cima della spiaggia, guardi attentamente dove metti i piedi, lungo il ripido sentiero fino al mare. Nuova Zelanda, terra di scoperta e meraviglie naturali, terra di avventure, hobbit ed antiche mistiche creature. Corazzati esploratori degli abissi e della terraferma, che molti milioni di anni a questa parte s’inoltrarono fin oltre il bagnasciuga, poco prima di seccarsi e morire (non necessariamente in quest’ordine). Ma i principi che governano i processi naturali a volte sono strani, pensi, mentre conti per l’ennesima volta quelle pietre tondeggianti per l’effetto della semplice erosione, ben sapendo che tra quelle, assai probabilmente, può nascondersi il tesoro della tua escursione. 12, 24, 48 ed arrivato a 51, gioia e giubilo, una concrezione! Piccoli cerchi concentrici denunciano l’appartenenza ad una classe di reperti degni di essere raccolti. E nel momento in cui la volti, giunge il chiaro segno della verità, ovvero forme che sporgono dai lati, come l’ali di un uccello mineralizzato, però asimmetriche per forma e dimensioni. Perché, certo! Sono chele. Di quel “mostro” cinque volte più imponente dell’attuale granchio viola delle rocce (gen. Leptograpsus) che i paleontologi amano chiamare, di lor conto, Tumidocarcinus giganteus.
Questo fece e quindi aveva pubblicato, all’incirca un mese fa, l’esperto cercatore di fossili Mamlambo, operativo nella zona di Christchurch (Isola del Sud) presso spiagge come quelle di Motunau e Glenafric, famose per la quantità di pietre contenenti tracce di antichissime creature ormai transitate alle regioni dell’eternità immanente. Granchi e altri crostacei, soprattutto, per l’alto contenuto di chitina mineralizzata già presente nella loro armatura esterna, ma anche ogni altra forma biologica capace di esalare l’ultimo respiro sul sostrato destinato a diventare parte inscindibile di queste rive. Il termine geologico rilevante risulta essere, del resto, concrezione: riferito al caso niente affatto raro di un agglomerato di sedimenti, accumulati in fase di diagenesi, che si solidificano attorno al “corpo” solido di un qualche elemento estraneo. Come per l’appunto, la carcassa solida di un granchio neozelandese.
Ciò che segue è tipico della natura umana: gente che di questa caccia, lungo gli anni e i secoli, ne ha fatto la ragione di un collezionismo. E base imprescindibile di un’arte vera e propria, consistente nel massimizzare le qualità estetiche e scientifiche di ciascun pezzo ritrovato. L’autore del video, capace di raccogliere centinaia di migliaia di visualizzazioni nel giro di alcune settimane, dimostra in questo chiare capacità operative, mentre con il proprio scalpello pneumatico traccia in seguito i contorni dell’animale intrappolato nella pietra, per valorizzarne al massimo le caratteristiche innate nascoste dal trascorrere di circa 12 milioni di anni. Datazione facilmente desumibile, nei fatti, dal tipo di pietra e la natura stessa di questa creatura, da tempo datata dai paleontologi come appartenente all’epoca del Miocene, durante cui molti degli attuali esseri viventi presero la forma che ci appare maggiormente familiare. Inclusi, per l’appunto, i più diffusi spazzini decapodi del lungo mare….

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Il viaggio cosmico di un rotolo per salvaguardar l’igiene

Muschio, stracci, lana, pietre, sabbia, rami, neve, felci, conchiglie, baccelli vegetali, erba, alghe, lo stecco piatto noto ai giapponesi come chyūboku (籌木) o la spugna imbevuta d’aceto in cima ad un lungo bastone, che gli antichi romani erano soliti chiamare xylospongium… Attraverso le alterne fortune della storia civilizzata, molti sono stati i metodi impiegati per affrontare, e in qualche modo risolvere, la più annosa e imprescindibile delle questioni: come ritornar se stessi, dopo l’espletamento della maggiore tra le funzioni fisiologiche ricorrenti. Operazione facile per l’organismo, nella maggior parte dei casi, eppur conduttiva ad un problema imprescindibile che tende, nel giro di pochissimi secondi, a guadagnarsi la nostra più totale attenzione… Ed ogni singolo momento, in quel frangente, può riuscire a diventare eterno, quando come al lancio di una coppia di dadi durante un gioco con la Mietitrice, il nostro destino tende ad essere determinato dalla presenza, oppure assenza di quel rotolo vitale. Carta igienica che in questa terra, per nostra fortuna, può essere sostituita dall’impiego della semplice acqua proiettata ad arte quasi Rinascimentale, grazie all’uso del sistema idrico urbano, tradizionalmente veicolato nel sistema tecnologico che prende il nome di bidet. Ma che dire dei nostri amici anglosassoni, dei francesi e di tutti coloro che per una ragione o per l’altra, non hanno la fortuna di poterne utilizzare uno? Dopo tutto, nulla è valido a convincerci che tale orpello sia “vitale” benché nei fatti e la cultura pratica, a meno di rivolgersi alla carta di giornale come fu uso per un lungo tempo, sarebbe difficile negare… Che sia degno di essere chiamato in qualsivoglia differente modo. Pur essendo il frutto, contrariamente a quanto si potrebbe tendere a pensare, di un processo industriale innegabilmente avanzato!
Fin dall’epoca della prima corte imperiale degli Han (II secolo a.C.) in Cina viene attestata l’abitudine di utilizzare carta per portare ad un felice compimento l’eliminazione umana delle scorie, come desumibile dall’interpretazione filologica di taluni ideogrammi, benché la prima citazione letteraria in merito sia quella del burocrate di corte Yan Zhitui (531–591) il quale afferma, con leggerezza inesplicabile: “Per quanto concerne la carta riportante parti o citazioni dei Cinque Classici, non oserei mai usarla per andare al bagno.” Ciò detto, l’uso da parte dell’Imperatore delle fibre vegetali sbiancate ed intrecciate tra di loro con finezza sopraffina è chiaramente documentato attraverso gli ordini pregressi di quantità variabili di tale materiale realizzato ad hoc, fino agli estremi dei 720.000 fogli consumati annualmente durante la dinastia dei Ming (1368–1644) presso la capitale Nanchino. Soltanto con la nascita del mondo moderno e i suoi processi industriali inarrestabili, dunque, tale approccio alla questione arrivò a trascendere la divisione tra le classi sociali, al rombo di potenti macchine industriali. Quelle che trovano posto, idealmente e materialmente, tra le alte sacre mura della cartiera. Diffusa è l’idea logica, in materia, che le prime cose che potrebbero mancare nelle condizioni critiche di un eventuale o prossimo disastro siano i beni di essenziale necessità, come il cibo. Senza mantenere al centro dei propri pensieri, l’altra parte della massima questione, ovvero cosa fare dopo, che ogni punto avrà raggiunto l’apice della questione, l’ipotenusa del triangolo o per usare termini specifici, l’ultimo rullo del processo di asciugatura…

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Ricchezza e dannazione oltre la soglia della montagna d’argento boliviana

Non c’è da restare necessariamente delusi, quando si approda presso i lidi di una seconda scelta. Sulle seconde scelte ebbero luogo alcuni dei maggiori successi della Storia, come quando gli spagnoli partirono alla ricerca dell’assolata città d’Oro, per trovarne invece una del colore, sotterraneo, della Luna… Termine sovrano al vertice della questione, umanamente fondamentale, del “Cos’è il denaro, dopo tutto?” A cui troviamo una risposta, tra le molte possibili, nell’espressione prototipica spagnola “Costa/vale un Potosi” ove quest’ultima parola, certamente d’uso non comune, viene convenzionalmente riferita a un luogo o per meglio dire, una città. Quando il celebre galeone spagnolo solcava i mari dei Caraibi, durante il corso del XVI secolo ed era in un certo senso proprio questo, il luogo in cui traeva origine la sincera cupidigia, l’egoismo e il desiderio delle ciurme dei pirati, pronti a condannare molti uomini a una morte particolarmente cruda e violenta, pur di mettere le proprie mani sopra la ricchezza transitoriamente posseduta dai loro nemici giurati, le autorità. Non meno colpevoli, dal canto loro, di essersele guadagnate grazie all’inerente spietatezza di coloro che costringono la gente, in maniera più o meno diretta, a perseguire un solo fine, spesso a discapito di tutti gli altri. Così nacque, letteralmente da un giorno all’altro nel 1543, la nuova municipalità all’origine di molti cambiamenti, all’elevazione di 4.000 metri lungo le pendici della montagna del Cerro Rico che i nativi boliviani chiamavano Quechua (“Magnifica”) e gli spagnoli, invece, [Picco della] Opulenza. Chiamata fin da subito, per l’appunto, Potosi in base alla leggenda secondo cui una “voce cavernosa” si sarebbe rivolta agli originari scopritori delle sue ricchezze nascoste, gli Inca che l’avrebbero udita in un imprecisato momento del XIV secolo, mentre gli ordinava di lasciare tutto com’era fino all’arrivo di un presunto nuovo padrone. Il quale sarebbe dunque giunto, sull’onda di un fato particolarmente gramo, grazie al resoconto dello spagnolo Diego de Huallpa, minatore in cerca di fortuna destinato a ritrovare, assieme ad essa, la letterale origine di tutti i mali.
Erano questi gli anni, e le decadi, in cui stava nascendo uno degli assi principali destinati ad influenzare l’evoluzione del concetto stesso di società, fondato sulla naturale attrazione di ogni singolo grammo d’oro e argento a partire dalle Americhe verso l’Europa, e da lì in Asia, in cambio di spezie, artigianato ed altre merci tenute in alta considerazione dai mercati Rinascimentali. In altri termini il primo vero mercato globale, fondato sul concetto di valute in grado di mantenere fisso il proprio valore di scambio grazie al prestigio degli imperi che ne coniavano e garantivano l’esistenza. E come dovremmo già sapere fin troppo bene, nessuno riusciva a farlo meglio di Filippo II di Spagna, quando il suo volto compariva assieme ai marchi del mercante sopra la superficie dell’ormai leggendario pezzo da otto, per cui l’estrazione della materia prima e il successivo conio avvenivano, caso vuole, proprio all’ombra di questo massiccio rinomato. Grazie la sudore e la fatica, mai ridotte oltre una sogli minima di sofferenza, di un’intera classe sociale sfruttata e messa ai ferri sostanziali dalle ragioni del desiderio: quella dei minatori.

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Il dolce profumo di un villaggio dell’incenso vietnamita

Molto probabilmente l’impressione viene dal cappello: lo stereotipato copricapo conico, da sempre visto in Occidente come parte dell’abbigliamento degli agricoltori tra i confini delle vaste terre all’altro capo dell’Asia. Detto ciò, è innegabile che questa immagine possa creare un senso di entusiastica perplessità: “Rosso? Non sapevo che lo fosse! Ma si tratta di una pianta? Piccoli cespugli? Che genere d’incenso è questo?” Quel tipo di domande sul tema dell’ovvietà per rispondere alle quali tanto spesso Internet risulta sorprendentemente inefficace. Poiché nessuno appare pronto, o in qualsivoglia incline, a dissolvere il carattere di una leggenda. Come quella, riassunta in poche inquadrature, del villaggio Quang Phu Cau nei dintorni meridionali di Hanoi, forse le capitali mondiali del tipo di essenza utilizzata in molte religioni, come ausilio al gesto estremamente umano della preghiera. Quell’incenso cui in Europa normalmente siamo inclini ad associare, più di ogni altra possibile cosa, la resina sottoposta a lavorazione dell’albero del genere Boswellia, chiamato fin dai tempi antichi olibanum, comunemente detto franchincenso. Laddove vuole il caso, e l’evidenza, che nei molti secoli di storia e soprattutto all’altro capo del mondo, molti siano gli estratti ed i sistemi usati per raggiungere lo stesso fine, soprattutto tra quelli considerati fondamentali dall’omni-pervasiva medicina cinese: legno di sandalo, aloe, rabarbaro officinale, linfa dell’albero della gomma Styrax, ambra fossile e Syzygium aromatico, albero sempreverde dell’Indonesia. Molti dei quali pronti a convergere, grazie a una rete commerciale antica quanto la penisola dei draghi, presso questo luogo antistante alla sua capitale. Ove il sistema produttivo utilizzato, semplice quanto efficiente, vede la riduzione in polvere ed il successivo impasto degli ingredienti profumati e pronti da bruciare, successivamente plasmati nella forma di specifici elementi: cubi, piccole piramidi o coni arrotolati, ma soprattutto quella maggiormente pratica per le abitudini buddhiste, il bastoncino ligneo per la preghiera. Ed ecco così svelato, l’arcano. La fabbricante dell’immagine mostrata in apertura, chinata e all’opera nel mezzo di tanti surreali piccoli “cespugli” è in realtà intenta a rassettare, e catalogare attentamente, un vasto numero di asticelle di bambù, colorate tradizionalmente di rosso prima di essere disposte in tale modo affinché i raggi del sole possano raggiungerle tutte assieme, favorendone la seccatura e il conseguente completamento del processo di fabbricazione. Per occasioni particolari, come la celebrazione del capodanno lunare o specifiche feste di primavera, ma anche durante il resto dell’anno, a valido supporto di uno dei materiali considerati irrinunciabili per qualsivoglia attività votiva locale di svariate provenienze religiose, inclusa la preghiera o celebrazione degli antenati, divinità locali ed ovviamente il Buddha stesso, non tanto per l’ottenimento di favori mistici quanto al fine di riuscire a favorire quello stato d’animo che ci dovrebbe far sentire più vicino a lui. Ed appare del resto innegabile come la realizzazione di un compito tanto elevato, per quanto semplice e ripetitivo, non possa che finire per conformarsi nettamente verso quell’ideale di armonia e precisione che tanto spesso, idealmente, dovrebbe condurre verso il singolo momento d’illuminazione tanto ricercato dai filosofi delle discipline Zen. Verso cui persino una semplice foto, talvolta, può riuscire a far da chiave dell’alto portone…

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