L’antica tradizione del ponte d’erba peruviano

Qeswachaka Bridge

C’è stato un attimo, un singolo momento. Il punto di svolta fondamentale nella fine storica di un grande impero: quando Francisco Pizarro e i suoi fratelli, partiti dal 1526 da Panama con 168 uomini, 27 cavalli ed un cannone, furono brevemente sconfitti nello spirito e nei fatti. Dal primo incontro con la prova, al di là di ogni possibile dubbio, che le genti delle Ande erano totalmente aliene, a noi europei, come del resto noi per loro. E non si poteva, allora come adesso, sottovalutare il significato metaforico di tali ponti. Decine e decine di metri, sopra i burroni e i fiumi impetuosi di quei luoghi, miracolosamente sospesi e solidi, benché oscillanti, ovvero soggetti all’energia cinetica del vento. Perché non può esserci conquista, senza un qualche tipo di movimento dal dentro verso il fuori, o viceversa, ed agevolare un tale presupposto lungo il territorio di una cordigliera larga 240 Km, con un’altezza media di 4.000 metri, non può prescindere da soluzioni tecniche particolari. Così le genti di Cusco, unificate attorno al XII secolo dall’eroico fondatore Manco Cápac, attorno al tempio degli Dei del cielo, si erano messi a costruire laboriosamente sulle fondamenta dell’ingegneria di allora. Potenziando ciò che avevano e sfruttando al massimo la conoscenza dei predecessori. Ecco dunque qui una civiltà la quale, pur priva del cemento, edificava i suoi palazzi con mattoni a incastro gravitazionale, talmente precisi da impedire addirittura che un coltello penetrasse nelle intercapedini tra i blocchi, come le guide turistiche ancora amano dimostrare a chiunque visiti l’antica Machu Picchu. E i cui artigiani avevano scoperto in modo totalmente accidentale, analogamente ad altre genti mesoamericane, il segreto per aumentare la capacità di rimbalzo della gomma usata per la ulli, palla del gioco sacro ereditato dagli antichi Olmechi. Aggiungendo all’impasto della materia vegetale che conteneva lo zolfo, e mettendo quindi in atto una sorta di vulcanizzazione, non dissimile da quella degli pneumatici moderni. Eppure, costoro non avevano la ruota. Il che può essere visto anche come una sorta di vantaggio, considerato l’ambiente operativo.
Dunque giunsero i conquistadores spagnoli, con armi, cavalcature e bagagli presso il primo di una lunga serie di passaggi sospesi, usati dai locali per tenere unite le comunità remote. Ed a quel punto, tacquero. Perché mai prima di allora, e certamente ancora meno nella terra dei loro antenati, l’occhio umano aveva mai preso coscienza di una tale diavoleria: tre corde intrecciate sopra cui posare i piedi, più due a cui reggersi per camminare che si estendevano da un latro all’altro del burrone, con i soli punti di sostegno costituiti da particolari fori nella roccia, a cui l’intero sistema era stato assicurato. Il che non sarebbe stato tanto inconcepibile, se l’intero meccanismo avesse avuto un aspetto ben più solido, come uno dei vecchi ponti ereditati dall’ingegneria romana, in cui la struttura dell’arco scaricava il peso ai lati. Ma il tipico passaggio aereo degli Inca, contrariamente a tale alternativa, discendeva fino al suo punto centrale, per poi risalire da lì fino al termine della sua estensione: ciò perché costituiva, nei fatti, un ponte sospeso, concetto che sarebbe rimasto a noi inaccessibile fino alle prime battute della rivoluzione industriale, ma che oggi troviamo famosamente applicato a Brooklyn, New York, come per il ponte di Akashi Kaikyō che collega l’Honsu giapponese all’isola di Awaji, il più lungo del pianeta con i suoi quasi due chilometri di estensione.
E pensare che il concetto Inca non era poi così diverso in potenza! Benché i tiranti, concetto certamente ignoto agli spagnoli, costituissero anche la superficie calpestabile della struttura, dando a quest’ultima l’aspetto anti-gibboso che tanto contribuiva a quell’aspetto di falsa instabilità. Esistono tuttavia dei resoconti coévi, risalenti all’epoca della colonizzazione degli spagnoli, in grado di gettare luce sul significato epocale di una struttura costruita in questo modo: raccontava lo storico nativo delle americhe Garcilaso de la Vega (non l’omonimo poeta del XVI secolo) nei suoi Commentari reali degli Inca (1609) di come molte delle tribù native assoggettate al grande impero non fossero state neanche sconfitte in battaglia, ma semplicemente annientate nel loro spirito combattivo dall’ineccepibile struttura di simili ponti. Perché sembrava, ai loro occhi ancora inesperti, che soltanto un popolo divino potesse costruire cose tanto straordinarie.

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Milioni di palle per salvare la città di Los Angeles

Shade Balls

La plastica: un materiale dalle applicazioni pressoché infinite. Perché una singola sfera potenzialmente rimbalzante, di per se, è poca cosa. Ma bastano due per diventare un gioco. E tre faranno un sistema. Mentre 1.000, 10.000… Possono cambiare il nostro modo di concepire la singola risorsa più importante per l’uomo. L’altro giorno, al cospetto della stampa, della TV, degli assessori della sua giunta e degli ufficiali del LADPW (Los Angeles Department of Water and Power) l’orgoglioso e sorridente sindaco della seconda città più grande degli Stati Uniti, Eric Garcetti, ha rovesciato un sacco di plastica in prossimità di un’irta discesa in cemento. Assieme a lui dozzine di persone, in parte dipendenti dell’azienda che ha ricevuto l’appalto, in parte fortunati invitati all’improbabile evento, hanno fatto la stessa cosa a partire da un punto diverso, causando lo scroscio impressionante di ben 20.000 “shade balls” (palle nere) impegnate nella più gloriosa rotolata della loro vita passata e presente, verso il bacino del Silver Lake Reservoir, ricolmo di 3,010,000 metri cubi d’acqua, almeno in teoria, potabile. L’ultimo carico di un totale vertiginoso, che attualmente si aggira sui 96 milioni di loro simili, gettate come uova di caviale sopra un lago artificiale. Il problema ed il nocciolo della questione, infatti, è proprio che dei test effettuati recentemente nella struttura hanno rivelato nel serbatoio una pericolosa contaminazione di bromato, sostanza lievemente carcinogena per l’uomo. Eppure non si può fare a meno di un tale polmone acquoso, soprattutto al tempo della lunga siccità che ha coinvolto l’intera California, nonché parti dell’Oregon, del Colorado e dello stato di Washington, una situazione che sta ormai da anni condizionando il benessere di decine di milioni di persone. Cosa fare, dunque? Prima di ogni altra cosa, svuotare il serbatoio (temporaneamente) per poi riempirlo gradualmente di nuovo grazie al possente ma sempre più affaticato acquedotto cittadino, con origine dal fiume Owens della Sierra Nevada, costruito all’inizio del secolo scorso dal celebre visionario William Mulholland. E poi proteggere la nuova massa d’acqua in maniera quasi totale, analogamente a quanto era stato fatto nell’estate del 2008 con il vicino e ben più piccolo Ivanohe’s Reservoir. Perché l’indesiderabile bromato è la risultanza accidentale della combinazione fra tre componenti: lo ione bromite, una sostanza chimica che si forma naturalmente nell’acqua proveniente da falde acquifere sotterranee; il cloro, da sempre impiegato per disinfettare l’acqua da bere esposta agli elementi; e la luce del Sole, che scalda ed attiva il miscuglio nel giro di qualche mese. E forse apparirà strano a dirsi, ma fra i tre fattori, l’unico che si potesse rimuovere era proprio quest’ultimo, visto che non era endemico o necessario. Sul come, inizialmente c’erano piani divergenti. Fra tutti prevalse inizialmente un sistema dall’alto grado di sofisticazione, che sarebbe consistito in una diga per tagliare a metà i due serbatoi, fornita di teli per proteggere la nostra acqua dai raggi UV. Con il piccolo problema del costo, che si sarebbe aggirato attorno ai 300 milioni di dollari. Una cifra non esattamente facile da dedicare a un singolo problema, persino per una città da 13 milioni di abitanti come LA. Così, a qualcuno venne l’idea, presa in prestito da certi grandi aeroporti con il problema delle anatre selvatiche vicino alla pista di decollo, di coprire lo specchio d’acqua con un certo numero di quelle che vengono comunemente definite conservation o shade balls, sferette scure dal diametro di 10 centimetri e dal costo approssimativo di 96 cents ciascuna, semi-riempite d’acqua affinché il vento non se le porti via. Ed ora, finalmente, l’opera è completa!

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L’effetto del pallone che fa muovere le navi

Magnus Effect

Vieni, dunque, sulla cima della diga Gordon in Tasmania fino a 126,5 metri da terra, con lo scopo di raggiungere una meta totalmente senza precedenti. Essere il primo uomo, donna o bambino, ad aver scagliato con estrema sicurezza il proprio pallone da basket da una simile altitudine, con lo scopo non del tutto ragionevole di fare centro in un canestro davvero lontano. Però sappi questo: che la scienza, nonostante il senso del tuo gioco e forse proprio in conseguenza di una simile arroganza, già si appresta a fare centro in mezzo alle tue orecchie, che sarebbe come a dire, resta pronto alla rivelazione. Di un oggetto sferoidale, come quello, che cade, cade, trasportato via dal vento. Eppure finisce sempre grossomodo nello stesso punto, fino a che…Si. Esattamente come dimostrato dai ragazzi del collettivo How Ridiculous, detentori a partire dallo scorso 14 giugno del bizzarro record in questione, ad un certo punto ti viene in mente d’imprimere una rotazione perpendicolare al suolo a questo semplice attrezzo sportivo, vedendolo scappare quindi verso l’orizzonte, rimbalzando quattro volte nel bacino sottostante. Incredibile! Pensaci, non è inaudito: il calciatore che vuole ingannare il portiere della squadra avversaria, cosa mai potrebbe fare, se non colpire la sfera con la punta ben piazzata su di un lato, costringendola a ruotare su se stessa…E se ciò avviene in senso orario, la traiettoria del tiro è destinata a dirigersi verso destra. Come chiaramente, si verifica il contrario se vai contro l’orologio. Ma sai dare un nome, a tutto questo? Voglio dire, a parte “palla curva”. Soltanto uno scienziato, a conti fatti poteva risolvere il problema.
È un’immagine così dannatamente facile da sottovalutare: Isaac Newton che giace, appoggiandosi con la sua schiena al tronco di quell’albero fatale della tenuta di Woolsthorpe. La mela ormai matura che oscilla lievemente a causa del soffio del vento, quindi si piega da una parte, d’improvviso, e cade. Di certo, un uomo intuitivo e geniale non può aver intuito l’esistenza della gravità “soltanto” da una simile, insignificante facezia? Chissà quanti esperimenti, allestiti in condizioni diurne come a luce di candela, condotti tra le alte mura dell’Università di Cambridge oppure via, lontano dallo sguardo dei colleghi potenzialmente invidiosi, doveva aver condotto fino a quel momento! Con quali astrusi calcoli, ormai persi al mondo e frutto della controversa analisi matematica, teoricamente ancora non “inventata” dal tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, doveva aver incolonnato per comprendere la verità…Fatto sta che l’attrazione di ogni astro dell’allora recente visione copernicana, assieme a numerose altre norme ormai acclarate di fisica, astronomia e dinamica dei corpi in movimento, fu alla base della sua prima grande pubblicazione in tre libri, i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687) come pure che, a partire da quel giorno, ogni qualvolta gli venisse posta la domanda, il professore e filosofo di larga fama (secondo alcuni, il primo vero scienziato della storia) era solito rispondere con una sorta di monologo, riportato ad esempio in un manoscritto del collega William Stukeley nel 1752: “Perché la mela cade verso il suolo e non fluttua, invece, verso l’alto? Dev’esserci qualcosa che la attrae. E la somma di tutte le forze generate dalla Terra deve in qualche maniera convergere nel centro del pianeta, altrimenti il frutto cadrebbe di lato, niente affatto perpendicolarmente. Inoltre, tale impulso deve essere proporzionato alla materia. In quanto se la Terra attrae una mela, mio interlocutore, stai sicuro anche di questo: anche la mela, a sua volta, attrae la Terra.” Eureka! Questa è forse la ragione di ogni cosa, a ben pensarci. Terza legge della dinamica, dal primo libro dei Principia: “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.” Ecco qui un assioma quasi filosofico, che può trovare applicazione in campi umanistici come la psicologia, la sociologia, l’economia. Ma che soprattutto si ritrovò riconfermato, ad ogni osservazione successiva delle cose naturali. Inclusa quella, risalente a quasi due secoli dopo (1852) del polimata dell’Università di Berlino, esimio Dr. Heinrich Gustav Magnus, colui che ebbe l’occasione di mettere nero su bianco per primo uno studio della ragione per cui, fin dall’alba dei tempi, tutti i palloni tendono a volare. A margine del quale dato, come spesso capita, qualcuno è pronto a giurare che in effetti proprio il solito Newton questa cosa l’avesse già notata, citando a più riprese “Il moto della palla sui campi da tennis a Cambridge”. Esiste dunque qualsivoglia cosa, che fosse al di là della gravitazione di quell’uomo dalla splendida parrucca bianca?

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Breve descrizione del motore più veloce mai esistito

SR-71 Engine

Due di questi e un guscio di titanio, con la forma oblunga di un serpente in grado di ingannare i radar: tutto questo e niente più, era quello che serviva per riuscire a “vincere” la guerra fredda. Perché quando i cannoni diventano così potenti, le bombe tanto grandi e spaventose e l’artiglieria guadagna una gittata tale che i paesi debbono passare ad altri mezzi per farsi valere con la forza, pena una catastrofe inimmaginabile, allora diventano le spie a decidere il percorso della storia.  È assurdo, a pensarci. Quando ti trovi a 24 km d’altitudine, in una tuta che ricorda molto da vicino quella di un astronauta, a velocità che sfiorano il Mach 3.4, non potevi che avere il destino del mondo nelle tue mani, perché cosa sarebbe mai successo, a ben pensarci, in caso d’intercettazione? Il primo maggio del 1960, durante la presidenza statunitense di Dwight D. Eisenhower, avvenne l’impensabile: uno dei recenti aerei americani con motore a reazione U-2, usati per studiare il nemico sovietico da altitudini vertiginose, venne intercettato sugli Urali da una raffica di missili S-75 Dvina, che finirono per colpire anche uno dei MiG 19 i quali, come in diversi casi precedenti, inseguivano il velivolo senza poterlo mai raggiungere. Il pilota, Francis Gary Powers, riuscì ad eiettarsi e venne subito trasferito nel carcere di Vladimir, a 100 km da Mosca, dove sarebbe rimasto per un periodo di 10 anni, fino ad uno scambio di prigionieri tra le due superpotenze. A seguito di un tale evento senza precedenti, tuttavia, poteva succedere qualunque cosa. E certamente i vertici dell’Unione Sovietica, nella persona dell’allora premier Nikita Khrushchev, devono aver valutato diversi corsi di reazione, prima di scegliere per quello relativamente ragionevole di sottoporre all’opinione pubblica l’intero corso degli eventi, guadagnandosi un gettone politico da usare durante l’imminente summit della pace che doveva tenersi a Parigi. Il quale, in conseguenza di un simile inasprimento dei rapporti, venne immediatamente cancellato. Mentre in un discorso pubblico che sarebbe rimasto nella storia, Eisenhower si trovò a dover rivelare al mondo che Si, la CIA spiava i paesi membri del blocco orientale, e che Si, ciascuna di queste missioni veniva valutata ed approvata in prima persona dallo stesso presidente degli Stati Uniti. A quei tempi, tuttavia, almeno nella mente della leadership politica dei due paesi, c’era molto più in ballo che la semplice reputazione internazionale. Quando l’uomo della strada è convinto di vivere gli ultimi dei giorni, mentre persino le canzoni della musica Pop alludono a ogni sorta di disastro atomico incipiente, non è semplicemente possibile smettere di guardare nella direzione da cui soffia il vento, con ogni strumento e metodo a disposizione. Questi erano, per inciso, gli anni del programma Apollo, quando tutto sembrava possibile, persino giungere fino alla Luna, e già venivano lanciati in gran segreto i primi satelliti di sorveglianza. Ma lo spazio come metodo spionistico aveva i suoi limiti, alcuni dei quali sopravvivono anche all’avanzamento odierno delle telecomunicazioni: immaginate di dover dirigere una telecamera orbitale sopra il possibile sito di un’emergenza strategica. Il carburante sarà limitato, e con esso la velocità di spostamento. Inoltre, cosa avrebbe mai impedito ai sovietici, una volta resa palese la loro posizione, di nascondere i lanciamissili e l’artiglieria, se non semplicemente spostare quelle cose, confidando nelle altre 24 ore che avrebbe impiegato l’occhio nel cielo per scrutare nuovamente in quella direzione…Tutto questo e molto altro, così convinse gli ingegneri di una cosa: se un aereo può essere intercettato e così tradire l’intento segreto dei suoi padroni, la colpa non era del metodo, ma delle sue prestazioni insufficienti all’epoca corrente. E con risorse infinite, menti innumerevoli, tempo ben pagato, non c’era praticamente nulla che fosse realmente, irrealizzabile. Il risultato di una tale linea di pensiero? Ce lo avete sotto gli occhi, in un certo senso. O per lo meno, uno dei suoi due “cuori”.
L’uomo nel video è Richard Graham, uno dei più famosi piloti dell’SR-71 Blackbird, nonché la principale fonte di notizie pubbliche su questa macchina straordinaria, almeno da quando sono state declassificate le informazioni top secret sul suo funzionamento. Che fu progettata dalla Skunk Works, la celebre divisione sperimentale della Lockheed Martin, istituita in California già nell’ormai lontano 1943, con i semplici strumenti che oggi non possono che lasciarci basiti: carta e penna, schemi fatti a mano, zero simulazioni computerizzate. Davvero le menti eminenti di quell’epoca pensavano su scala e in modo differente. Inoltre, va pure considerato, un progetto come questo arrivava a coinvolgere migliaia di persone, che in qualche maniera si coordinavano sotto la pressione di una simile emergenza percepita. Il risultato più degno di nota: questo poderoso blocco di metallo, oggi ospitato nel museo del volo di Love Field a Dallas, nel Texas. Si tratta di un motore Pratt & Whitney J58, il dispositivo che poté spingere dapprima i due prototipi dell’YF-12 e dell’A-12, quindi la notevole carlinga del futuro aereo spia statunitense, che sarebbe rimasto in servizio attivo fino al 1998, completando una serie di missioni tanto segrete e di lunga durata che ancora oggi, a decadi di distanza, non sono state rivelate al mondo. Però sappiamo questo: la sua velocità era tale che i piloti, per riscaldarsi il pranzo, erano soliti appoggiarlo sul vetro al quarzo della cabina di comando, che poteva facilmente raggiungere i 200 gradi di temperatura nonostante l’alta quota.

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