Se soltanto fossimo a Fordlandia, dove i soldi crescono sugli alberi e la gomma scorre come il vino

Vi sono prove pratiche del fatto che il superamento delle aspettative sia la fondamentale aspirazione del perfetto uomo d’affari, universalmente dedito al raggiungimento di uno stato di eccellenza, vicendevolmente favorevole a se stesso e la contemporanea società indivisa. La domanda che occorrerebbe tuttavia porsi, se possibile, è: “Le aspettative di Chi?” Forse del cliente finale, che contava sull’ottenimento di un prodotto conforme… Oppure dei suoi stessi familiari, abituati ad una vita di fondamentali privilegi… O ancora, perché no, i propri preziosi dipendenti. Uomini e donne la cui vita è stata resa valida ed interessante, dall’appartenenza professionale ad una grande organizzazione e l’adorazione possibile di un marchio, più grande delle singole parti che hanno avuto l’iniziativa di renderlo importante. Henry Ford, padre dell’automobile moderna nonché famoso ideologo, eclettico filosofo della società ed agguerrito antisemita, credeva fermamente nell’inesistente distinzione tra questi tre sentieri. Giacché ogni singola mansione all’interno dei suoi stabilimenti aziendali veniva remunerata generosamente, grazie alla creazione de facto del sistema di un salario minimo antecedente di oltre mezzo secolo all’introduzione normativa di quel concetto. Così che anche il più umile operaio sotto l’egida del grande Padre capitalista potesse permettersi di acquistare, volendo, le automobili che contribuiva a costruire.
Fermamente convinto nella sua visione, nella seconda metà degli anni ’20 l’uomo che avrebbe in seguito ispirato indirettamente, coi suoi scritti e il suo giornale, parte dei contenuti del Mein Kampf hitleriano decise quindi di dimostrare al mondo che un simile approccio metodologico avrebbe potuto condurre all’avanzamento della qualità della vita in “Qualsiasi paese illuminato dallo stesso Sole” potendo nel contempo perseguire un obiettivo in grado di accrescere la sua già notevole ricchezza terrena. Vuole il corso della Storia infatti, che nel periodo tra i due conflitti mondiali il vasto Impero Britannico potesse disporre di un quasi assoluto monopolio nella fornitura di gomma, utilizzata quotidianamente per la creazione di pneumatici, grazie alla celebre quanto proficua introduzione di alcuni semi dell’albero Hevea brasiliensis nei vasti territori d’Oriente da parte dell’esploratore Henry Wickham, dove il fondamentale materiale si era trasformato in un’esportazione primario di Ceylon, Sri Lanka, Malesia e Singapore. Per un percorso oggettivamente tortuoso che il potente e rispettato Ford pensò bene d’invertire ritornando alle origini, giacché se tale vegetale proveniva dall’America Meridionale, perché mai non avrebbe dovuto costituire un fondamentale appannaggio degli Stati Uniti territorialmente assai più prossimi alla fonte? Finalità che egli scelse di perseguire attraverso il metodo forse meno intuitivo, ed al tempo stesso più ambizioso a disposizione: la creazione di una company town, città creata in basi ai crismi di quel marchio e attorno agli stabilimenti necessari, nel bel mezzo della foresta amazzonica nello stato brasiliano di Parà, lungo il corso del fiume Tapajós. Un piano che sembrava estremamente valido nel giungere a fornire, ben presto, gli estensivi dividendi da lui auspicati…

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Ne mai più saremo liberi dalle spietate fronde, giacinto mio, che galleggi tra l’onde

In una foto recentemente diventata celebre online, scattata nel parco naturale di Kaziranga, in Assam, un’elefantessa indiana sembra incedere col proprio fanciulletto in un verdeggiante prato punteggiato di attraenti fiori viola. L’aspetto singolare della scena, tuttavia, è il modo in cui la coppia di animali in questione risulti visibili soltanto parzialmente, con le gambe in apparenza sprofondate in quella che dovrebbe costituire una vegetazione alta ben oltre un metro. Uno sguardo maggiormente attento, tuttavia, potrà notare un paio di anomalie situazionali: come avrebbe mai potuto l’elefantino, che solleva in alto la proboscide tenendo stretta una di queste piante, sradicarne agevolmente l’intera forma in un terreno che dovrebbe risultare ben più distante? E perché i protagonisti della scena appaiono completamente bagnati dall’altezza della coda in giù, come se fossero attualmente intenti a guadare un fiume? Il nesso è che nell’effettiva interpretazione dei fatti, ciò che sembra non è necessariamente la realtà… E l’incredibile sospetto può trovare, dietro un rapido approfondimento, l’eccentrica constatazione di un’idea. Che il corso d’acqua sospettato sia davvero lì presente, soltanto coperto, da una sponda all’altra, per l’effetto di un’invereconda proliferazione vegetale. Avrai probabilmente già sentito parlare, oh figlio della materna terra, della “cosa” che si chiama Pontederia crassipes. Una presenza stabile, diffusa, totalmente prevedibile e del tutto sempreverde, che si configura come le temute fioriture dei sargassi d’acqua salmastra pur essendo a tutti gli effetti una pianta, con radici, fiori e tutto il resto, appartenente all’ordine monocotiledone delle pontederiacee, famose per la loro capacità di galleggiare traendo il proprio nutrimento in soluzione, piuttosto che dalla compatta polvere che si nasconde nel sottosuolo. Con tanta di quella diabolica, terrificante efficienza, da poter ricoprire totalmente uno specchio d’acqua in appena la metà di una stagione, soprattutto se assistita dagli sversamenti di concimi eutrofizzanti provocati dall’odierna agricoltura, in luoghi dove in precedenza è stata con terribile imprudenza trasportata dagli orticoltori degli scorsi secoli. Rigorosamente a fin di bene, s’intende. Poiché se c’è un aspetto veramente problematico del cosiddetto giacinto d’acqua, è il suo fascino esteriore e l’attraente bellezza dei fiori che produce, almeno finché non conquista territori tali da distruggere ogni rimanente presupposto d’integrazione biologica con gli altri protagonisti del territorio. Il che costituisce una mera questione di tempo, da che venne trapiantato dal suo ambiente originale sudamericano, dove l’immanente proliferazione di coleotteri capaci di nutrirsi dei suoi semi e teneri virgulti, può riuscire a contenere tale tracotanza che ogni cosa riesce a metabolizzare…

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Le antiche mappe a rilievo, ligneo ausilio alla navigazione dei popoli della Groenlandia

Orientandomi soltanto tramite la luce tenue della Luna, conduco la mia barca appesantita dalle foche uccise in mezzo ai vortici costieri che proteggono l’ingresso della zona sicura. Scorgendo in lontananza un promontorio, consulto il mio repertorio mentale alla ricerca del preciso punto in cui potrei trovarmi, se proseguo con la stessa rotta che ho impostato prima di sera. Ma qualcosa non mi convince, a causa della foschia che oscura una parte del paesaggio costiero. Allora estraggo dalla borsa un oggetto oblungo e piatto, dai contorni bitorzoluti. Stringendolo con presa esperta, tocco prima un lato, quindi l’altro ed elaboro una soluzione maggiormente accurata. Confrontando grazie ai nuovi dati le cognizioni acquisite, muovo il remo posteriore di due quarti verso destra. Un sorriso si disegna sul mio viso. Potendo fare affidamento sulla protezione della Vecchia Donna Arnakuagsak, prima dell’alba avrei fatto il mio glorioso ritorno con la cacciagione sull’uscio di casa.
L’ufficiale danese Gustav Frederik Holm era il tipo di esploratore capace di apprezzare i meriti di una cultura indigena, al punto da massimizzare le opportunità di accrescimento della conoscenza cartografica ed al tempo stesso antropologica di alcune delle più significative spedizioni della fine del XIX secolo. Come quando, partendo nel 1883 verso la fine del mondo navigabile, a Nanortalik in Groenlandia, decise in seguito di lasciarsi alle spalle i resilienti vascelli ausiliari di marina scorgendo l’opportunità di spingersi con i suoi uomini là dove l’unico accesso possibile per gli europei, fino a quel momento, era stato guadagnato via terra. Ciò grazie all’utilizzo delle formidabili umiaq, un tipo di canoe prive di chiglia, comunemente utilizzate dai nativi per la caccia alla balena o in abbinamento ai più piccoli ed agili kayak riservati agli uomini, essendo nel contesto quotidiano strettamente associate al mondo femminile. Battelli che potevano facilmente barcamenarsi tra i ghiacci, e se necessario essere sollevati da un gruppo ridotto di persone, onde venire trasportati oltre una barriera invalicabile e di nuovo nelle acque salmastre del profondo Nord. Era ormai l’estate del 1884 quando gli esperti sette membri che avrebbero costituito la punta della cosiddetta Konebådsekspedition poterono in tal modo raggiungere l’accogliente fiordo nella regione di Tasilaq, all’epoca nota come Ammassalik o “Isola dei mallotti” con riferimento a un pesce commestibile della famiglia degli Osmeridi. Dove incontrarono un’affiatata comunità del popolo dei Tunumiit o Inuit Orientali, il cui limitato contatto antecedente con gli europei aveva costituito meramente un’esperienza occasionale, per i membri delle spedizioni commerciali indirizzate lungo le coste meridionali. Trascorrendo in questo luogo alcune settimane, commerciando e tentando di acquisire un’idioma vicendevolmente comprensibile, i danesi si resero a quel punto conto che la stagione calda in Groenlandia sarebbe durata molto meno del previsto. Ed invero ritornare indietro, in quel preciso momento climatico, avrebbe comportato rischi troppo significativi. Così decisero di rimanere tra gli Inuit per l’intero estendersi dei mesi invernali. Un lungo e proficuo periodo, destinato a spalancare letteralmente un portale della conoscenza verso le caratteristiche di questo popolo remoto, precedentemente sconosciuto agli abitanti del Vecchio Mondo. Fu in un momento imprecisato antecedente alla sua ripartenza, dunque, che Holm venne avvicinato da un vecchio pescatore. Il quale gli propose uno scambio con alcuni cimeli di famiglia, chiaramente intagliati nel legno che l’oceano trasportava in modo occasionale fino a questa landa totalmente priva di arbusti…

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Esegesi del falso banano: la soluzione di mangiare tutto l’albero lasciando il frutto dov’era

Tra le molte raffigurazioni ritrovate in Egitto della dea Iside, l’importante figura del pantheon egiziano compare talvolta seduta in meditazione, tra le grandi e inconfondibili fronde di quello che poteva essere soltanto un albero di banano. Il che potrebbe indurre temporaneamente in un latente senso di perplessità quando si considera come l’intera famiglia della pianta in questione, definita in lingua latina delle Musaceae, si trovasse concentrata principalmente nell’area ecologica del Sud-Est asiatico, almeno finché l’insorgere della sua importanza dal punto di vista gastronomico non avrebbe portato alla proliferazione di cultivar globali verso l’inizio dell’epoca industrializzata. Ancorché a guisa di eccezione che conferma la regola, sussiste nell’Africa settentrionale un bioma particolare situato nel punto di convergenza climatico e territoriale che prende il nome corrente di Etiopia: un’isola sopraelevata nel paesaggio, circondata da pianure aride dove soltanto certi tipi di vegetazione possono prosperare. Ma è soprattutto la sopra, anche grazie al flusso continuativo dell’aria umida proveniente dall’Oceano Indiano, che il miracolo ha ragione e modo di compiersi. Permettendo a determinati presupposti della foresta pluviale di presentarsi ad appena tre miseri gradi sopra la linea dell’Equatore.
Il che non significa che il cosiddetto banano abissino, o scientificamente Ensete ventricosum, possa in alcun modo essere ricondotto per la propria produzione di frutta alla nostra beneamata, quasi onnipresente bacca gialla di Cavendish, essendo i semi risultanti dalla fioritura contenuti all’interno di un frutto comparabilmente oblungo, ma coriaceo, incommestibile, sgradevolmente insapore. Il che rende alquanto sorprendente la descrizione della pianta come “albero contro la fame” dovuto in senso pratico alla sua capacità di offrire il nutrimento necessario annualmente a un gran totale stimato di circa 25 milioni di persone. Ciò mediante l’implementazione di un sistema di processazione che non trova, da nessun punto di vista rilevante, equivalenze pratiche in alcun altro paese del mondo. Tutto ha inizio, nella maggior parte dei casi, dopo un periodo di siccità abbastanza lungo da mettere in crisi le comuni fonti di cibo disponibili alla popolazione: senza cereali, con scarsità di bestiame e/o un periodo di pesca improduttivo alle spalle, quando il popolo di comune accordo impugna le proprie asce e si dirige nei frutteti strategicamente disposti dai loro prudenti antenati. Per dare inizio da una pratica ecatombe arbustiva, necessaria per porre le basi di quello che sarò un successivo periodo di fervente lavoro in cucina. Seguìto dal glorioso, soddisfacente banchetto finale… Il che suscita la necessaria dom,anda: se non il frutto, cosa mangiano esattamente di questa stimata pianta gli abitanti d’Etiopia?

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