L’immenso potere delle uova d’insetto rubate per salvare l’Impero Romano

Qual è il vero potere intrinseco di uno status symbol? Nessuno, per gli affari e le questioni di una cultura effettivamente matura, in cui l’immagine è subordinata alla sostanza. Eppure virtualmente illimitato, quando le impressioni tratte in merito ad una persona restano di un tipo prevalentemente superficiale, oppure disponiamo di una limitata quantità d’istanti, affinché qualcuno possa farsi un’idea di cosa siamo e da dove veniamo. Il che risulta parimenti rilevante quanto ci si approccia alla questione da un punto di vista individuale, quanto in merito ad associazioni, compagnie, nazioni o persino… Imperi. Nella metà del VI secolo, all’apice del regno di Giustiniano I, il sommo dinasta che sedeva sopra il trono di Costantinopoli rappresentava molte cose allo stesso tempo. Per il suo popolo, per i dignitari in visita, per i nemici di quel territorio secolare, le cui caratteristiche ascendevano attraverso schiere di generazioni intente a preservare la solenne idea. Che nulla venisse prima o dopo l’Urbe, anche dopo che l’Urbe stessa era caduta. Trovando una degna sostituta in quel vasto territorio che veniva detto Oriente, benché grandi e inesplorate terre fossero effettivamente situate, ancor più ad est, nella direzione astrale del mattino distante. Luoghi come il punto da cui originava, tramite maniere o procedure largamente sconosciute, quel prezioso materiale tessile da cui veniva fabbricato il suo mantello, ogni oggetto del potere immaginabile e che rappresentava un importante dono diplomatico, il tangibile confine della casta dei potenti, il fondamento di un commercio straordinariamente redditizio. La seta, ovviamente, così chiamata per l’origine all’interno della patria misteriosa che gli antichi definivano Serica/Seres, la colonia “sotto un altro cielo” che generazioni di geografi, ormai da lungo tempo, hanno tentato di associare al saldo impero degli Han. Che fosse la Cina oppure l’India, non ci è necessariamente chiaro, benché una cosa resti largamente acclarata dalle notazioni di contesto: esso era un luogo straordinariamente irraggiungibile e lontano. L’ideale punto d’origine, fin da quando esiste il commercio, delle merci di maggior valore nella società umana.
Immaginate dunque la gravità delle circostanze vigenti quando, completata la gloriosa impresa della riconquista dei territori italiani grazie alla prima fase della spedizione del generale Belisario giudicata un successo nel 540, Bisanzio si trovò immediatamente e nuovamente in guerra coi Sassanidi, gli eredi di quello stesso impero persiano che tanta sofferenza era costata ai celebrati avi delle gens dei Cesari che avevano dimora sul colle Palatino. Assieme alla realizzazione che la principale ed unica strada possibile per l’approvvigionamento di numerose utili risorse, tra cui la seta stessa, era stata istantaneamente recisa, data la necessità da lungo tempo tollerata di dover fare affidamento su intermediari dell’Asia centrale per riuscire ad averla. Un anno dopo, quindi, le cose peggiorarono persino ulteriormente, con il diffondersi presso la capitale della cosiddetta piaga Giustiniana, un’epidemia di quello stesso batterio Yersinia pestis destinato a costare la vita a 50 milioni di persone (secondo una stima conservativa) nell’Europa del XIV secolo. Doveva esserci dunque un’atmosfera molto particolare, per non dire affetta da un latente alone di disperazione, quando due misteriosi monaci nestoriani si avvicinarono al palazzo al Sacrum Palatium dell’Imperatore ricostruito soltanto una decade prima successivamente alle rivolte di Nika. Per poter fare la loro incredibile proposta, dopo il superamento di diversi intermediari, direttamente al sovrano: “In lungo e in largo noi abbiamo viaggiato. E giungendo nella capitale di quella città segreta, abbiamo appreso l’effettiva origine della seta. Dateci le necessarie risorse, o Cesare, e noi torneremo in queste sale con quello che occorre per distruggere un monopolio…”

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Il peso della storia di Johannesburg sul grattacielo della polvere e della rovina

Verso l’inizio degli anni 2000 iniziò ad essere fatta circolare una nozione su articoli e telegiornali sudafricani. Il succo del discorso, enfaticamente reiterato, era che la gigantesca torre di Ponte City ad Hillbrow, il quartiere degli affari di Johannesburg, stava iniziando a risalire quella china deleteria che l’aveva condotta, nel corso dell’ultimo decennio, a trasformarsi in una valida approssimazione dell’inferno urbano immaginato da generazioni di creativi della fantascienza cinematografica e cyberpunk. “Se cercate un appartamento in centro, vi basterà visitarla (operazione possibile se accompagnati da un residente o l’agenzia immobiliare) per sentirvi trasportati in un futuristico edificio del tipo mostrato in Blade Runner.” Già… Come se fosse una cosa buona. E forse non è poi così male, quando si considera l’alternativa. Un tempo in cui l’interno dell’edificio era colmo di spazzatura fino al quattordicesimo piano. E le terrificanti grida dei suicidi risuonavano, in maniera ricorrente, nell’immenso spazio cavo che costituisce il suo volume interno.
Concettualmente parlando l’edificio di 173 metri e 55 piani, il cui nome parzialmente in latino voleva alludere ad un “ponte” tra la terra ed il cielo, fu in effetti concepito verso l’inizio degli anni ’70 per rispondere ad esigenze specifiche ed il maggior numero possibile di codici architettonici vigenti. Il che significava offrire finestre aperte su ambo i lati degli appartamenti, per garantire la circolazione d’aria per cucine e bagni. Dovette sembrare a questo punto totalmente logico, agli architetti Feldman, Hermer e Grosskopf, concepirlo come un sigaro cavo all’interno, di gran lunga il più alto edificio d’Africa ed almeno in parte ispirato dal caratteristico Marina City della città di Chicago. Luogo ameno contenente, oltre agli appartamenti, negozi, palestre, piscine ed ogni altro servizio immaginabile, il palazzo inaugurato nel ’75 vide dunque la sua immagine descritta come quella di un luogo di lusso estremo, con suite multipiano nella propria parte superiore e spazi interni dalla massima eleganza. Ciò che fin da subito caratterizzò la propria modalità d’impiego, tuttavia, fu la drammatica situazione sociale di quell’epoca nel suo paese d’appartenenza. Da ormai oltre un ventennio, tragicamente, in Sudafrica vigeva la dura legge dell’apartheid, il che significava che soltanto gli appartenenti ad etnia caucasica potevano legalmente risiedere nell’intera Hillbrow e lo stesso Ponte City, fatta eccezione per una serie di anguste residenze per la servitù, collocate nei più elevati locali “tecnici” del grattacielo e rigorosamente prive di finestre ad altezza occhi, così da scoraggiare l’osservazione del (magnifico) panorama cittadino antistante. Questa tipologia di discrepanze e contraddizioni su base etnica tuttavia, lungi dal preservare le grandi città dal crimine e l’illegalità, con il proseguire delle decadi condussero a situazioni tanto estreme da servire, paradossalmente, come prova dimostrativa del fallimento della segregazione umana. E sarebbe stato assai difficile, a partire dagli anni ’90, immaginare un esempio più lampante di questo della straordinaria torre di Johannesburg e coloro che, loro malgrado, continuarono ostinatamente a chiamarla casa…

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Tra ripidi sentieri di montagna, l’infrastruttura idrica che anticipa il terrore del Karakorum

In un territorio adiacente a quello che viene popolarmente definito come il “tetto del mondo”, la parte settentrionale del Pakistan può essere visivamente avvicinata ad un pianeta distinto, per la natura distintiva, la spettacolarità del paesaggio, l’entità impressionante dei dislivelli. Eppure scarsamente abitata, quasi del tutto sconosciuta ai turisti, la zona dell’amena valle del Gilgit-Baltistan con i suoi antichi villaggi e comunità montane compare raramente su Internet. Il tenore di taluni video ed il racconto di chi c’è stato, permette facilmente di comprenderne la ragione. Affermare che qui vige il regime di collegamenti limitati o difficoltosi non inizia neppure a descrivere l’effettiva situazione; zona amministrativa decentrata, incorporata nel già disputato Kashmir nell’annosa questione diplomatica con l’India, stiamo parlando di un luogo spesso sigillato dall’esercito e dove i limitati investimenti disponibili vengono generalmente veicolati nel campo della difesa. Così coloro che abitano le cosiddette “Aree Settentrionali”, i discendenti delle tribù turche Tarkhan che portarono la religione islamica nel subcontinente, sono abituati a vivere allo stesso modo in cui hanno fatto per molti secoli, sfruttando le risorse di remoti pascoli e spostandosi raramente da una comunità all’altra. Facendo l’utilizzo, quando necessario, di percorsi di collegamento la cui natura è totalmente e direttamente riconducibile all’originario modo di fare le cose. Ne risulta una palese ed evidente dimostrazione l’esperienza, così frequentemente documentata, della principale via d’accesso montana verso il villaggio di Thagas, noto come importante punto di scambio commerciale per comunità oggi non più esistenti, in cui i membri di talune famiglie si sono resi custodi o chowkidar di una fondamentale risorsa delle genti locali. Quella stessa strada costituita nella specificità dei fatti da un esempio notevole di kariz (termine locale) o qanat (nome in lingua persiana) o tecnologia di distribuzione idrica creata in base ai crismi metodologici del Medio Oriente. Un acquedotto scavato nella nuda roccia, se vogliamo, lungo la parete spiovente di una gola ripida creata da un distante fiume glaciale. A svariate centinaia di metri d’altezza, dove per necessità e convenienza, gli originali costruttori hanno incluso anche uno stretto spazio da percorrere, diventato col trascorrere dei secoli una meta favorita degli escursionisti. Difficile immaginare, a tal proposito, un tragitto da trekking più spettacolare ed oggettivamente spaventoso di questo…

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Noi siamo huitlacoche, l’oscuro fungo alieno che trasforma il mais

Più forti, maggiormente resistenti, migliori. Nelle infinite complessità che rappresentano lo schema generale della biologia, è possibile, persino facile riuscire a immaginare un tipo d’interazione tra organismi in cui un parassita risulti benefico per l’organismo ospitante, incrementando le sue possibilità di sopravvivere per il beneficio della cosa contenuta all’interno. Questa è la vita ed il sublime paradosso della natura, in cui resistere agli ostacoli situati sul percorso non vuole dire sempre, o necessariamente, fare onore alla propria specie. Il che risulta vero nel regno degli esseri dotati della mobile prerogativa e dell’eloquio più sofisticato, così come anche tra esistenze vegetali, siano queste piante, funghi o una combinazione di entrambi le cose. Insieme ivi risiede, guarda caso, l’inquietante vista del Mycosarcoma maydis, il cui stesso appellativo nella lingua dei latini tende a suscitare immagini di masse tumorali o addirittura cancerogene, all’origine dell’autodistruzione di qualsiasi creatura dotata di cellule unitarie vicendevolmente connesse. Così come risplende, sotto il sole nordamericano, il prodotto dell’agricoltura in grado di fornire pratico sostentamento alle popolazioni, quel mais che risultava sacro per gli antichi popoli e per il quale, ancora oggi, siamo inclini a ringraziare il supremo demiurgo che ce ne ha fatto dono. Almeno finché percorrendo con le mani e gli occhi l’ideale campo che permette la generazione reiterata di quest’ingrediente, non troviamo in mezzo a tali e tante foglie l’inquietante macchia nera e “maledetta” di quello che il contadino teme più di qualsiasi altra cosa: una tremenda malattia delle piante.
Corn smut (lo “sporco” del granoturco) per gli anglofoni ed huitlacoche (“escrescenza sopìta” o più semplicemente il “corvo”) nel vocabolario nahuatl degli antichi popoli mesoamericani, l’antiestetica presenza può essere altrettanto caratterizzata sulla base di uno schema di valori contrastanti. Laddove in un contesto ragionevolmente contemporaneo, ha per lungo tempo indotto i produttori gastronomici a gettare interi carichi di quel raccolto, oggettivamente e comprensibilmente giudicato impresentabile già solo nell’aspetto. Almeno finché la vigente società caucasica, come ha cominciato ad avvenire più frequentemente dall’introduzione dei media digitalizzati, non ha “scoperto” il modo in cui una simile mostruosità veniva mantenuta in alta considerazione entro i confini del Messico troppo frequentemente ridotto a meri stereotipi contraddittori. Essendo un ingrediente insostituibile, dal sapore altamente caratteristico all’interno di pregiate pietanze, ciascuna riconducibile a sublimi circostanze conviviali frutto di una consapevolezza ultima in merito ai piaceri “proibiti” della Terra…

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