Lama tecnologica che taglia il silenzio, un ticchettio insistente tra le tenebre, ripetitivo, al compiersi di un’epopea incalzante. Muovendosi tra mucchi di macerie, sotto il cielo a chiazze di soffitti parzialmente crollati, segni residuali di un’umanità migrata altrove. Così come qualsiasi altra forma di vita per così dire, “normale”, causa l’insorgenza impercettibile ed ormai datata a quattro decadi addietro, di quel tipo d’inquinamento che può dare luogo a malattie potenzialmente letali. Ma che in luoghi specifici, vicino a quella fonte inesauribile, è in grado di uccidere nel giro di ore, se non minuti. Zero insetti, dunque, nessun ratto, uccello o l’ombra dell’uncino di scorpioni latenti. E di sicuro ormai nessuna pianta, causa la secchezza dell’atmosfera e l’opprimente assenza di luce solare diretta, soprattutto sotto l’ombra dell’unico sarcofago che sia stato mai costruito per accogliere l’intero scheletro di un edificio. Eppure qui nel cupo nucleo della centrale, dove Chernobyl fece il suo meglio fino all’ora dell’imprevedibile catastrofe, qualcosa non soltanto vegeta ma riesce a prosperare. Dimostrando una capacità di crescita notevolmente superiore alle medie rivelate in qualsivoglia differente contesto d’osservazione. Trattasi di un fungo, chiaramente (tutto il resto l’avevamo escluso) appartenente nella verità dei fatti alla più tipica famiglia delle muffe scure in grado di diffondersi all’interno degli edifici: Cladosporium sphaerospermum, dal greco kládos+spórion (spore radificate) e sphaîra+spérma (semi sferici) il cui aspetto in questo ambito specifico pare d’altronde connotato dalla presenza di una caratteristica capace di offrire presupposti di distinzione. Giacché allo scaltro osservatore in tuta protettiva, dotato di appropriata fonte d’illuminazione, la superficie delle incrostazioni apparirà di un cromatismo ancor più cupo della media per tale specie. E questo causa l’abbondanza di un pigmento del tutto affine ai sempre familiari processi di metabolizzazione dell’organismo umano. Sto parlando di nient’altro che la melanina, metabolite secondario che associamo normalmente alla protezione dagli effetti nocivi dei raggi ultravioletti solari. Il che ci porta alla fondamentale, inquietante domanda: se il sole raramente giunge tra queste rovine, quale può essere l’origine di una simile prerogativa situazionale? Al che gli occhi preoccupati, deviando verso il punto in cui convergono le stanze desolate, in fondo a corridoi contorti per l’effetto del trascorrere degli anni, non potranno che guardare all’indirizzo della massa sovrapposta di corium fuso fuoriuscito dal reattore andato incontro alla fusione del suo nucleo centrale. Il cosiddetto piede dell’elefante, origine di un flusso mai cessato di radiazioni alfa, beta e gamma. Cui le ife di propagazione della muffa solitaria tendono costantemente, intrecciandosi in maniera vicendevole come i tentacoli di una creatura mai veramente, né del tutto sopita…
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L’inamovibile vascello antartico che si eleva dalla morsa stagionale del grande Inverno
Se potessimo puntare da una base stabile strumenti di misurazione laser contro la facciata dell’interessante parallelepipedo in metallo, la cui forma aerodinamica resiste ad ogni forza trasversale di quel luogo non propriamente accogliente, scopriremmo al volgere di un anno qualche cosa d’inaspettato. Relativa al modo in cui essa pare crescere, in altezza, tra gli 80 centimetri ed 1 metro, allungando l’ombra del suo tetto sostenuto da incombenti palafitte situazionali. Quasi come se quest’ultime fossero le appendici deambulatorie, di un gigantesco miriapode sopito in attesa di quell’impossibile scongelamento futuro…
Spesso utilizzate come termini di paragone d’ipotetiche strutture che verranno costruite un giorno sulla Luna o altri corpi del Sistema Solare, le stazioni dell’Antartico presentano effettivamente alcune sfide ingegneristiche tipiche soltanto della Terra e che difficilmente potranno, in proporzione, andare incontro ad alcun tipo di problema equivalente fuori dalla nostra atmosfera. Cominciando in modo particolarmente rilevante dagli inesauribili processi meteorologici e climatici che condizionano lo stato in divenire della candida calotta, il cui livello cresce in modo pressoché costante per l’accumulo di neve sopra il peso stratigrafico dei millenni trascorsi. Non sarà in tal senso un assottigliamento graduale, bensì il catastrofico collasso entro una generazione o due, a causare il devastante scioglimento di quei ghiacci e la devastazione lungamente anticipata dai processi del cambiamento. Particolarmente in zone come la Piattaforma di ghiaccio Ekström, dove la precipitazione di appena qualche decina di cm di neve nuova ogni anno causa l’innalzamento pressoché costante del livello del suolo che il gelo trasforma nel cosiddetto firn, mentre il trascinamento eolico di quel materiale non sempre egualmente compatto ridisegna il mutevole profilo dell’orizzonte. Ivi incluso, per massima sfortuna degli umani, ogni tipo di struttura posta in essere a serbare gli interessi di esplorazione o studio che potremmo avere nei confronti del più ostile dei continenti. Poiché d’altronde, questo luogo ha certe valide caratteristiche che lo eleggono a meta desiderabile rispetto alle adiacenti alternative: la relativa accessibilità dal mare, per la vicinanza alla baia di Atka, una delle poche regioni della costa dove il ghiaccio si apre stagionalmente; una superficie piatta e sgombra, utile a far atterrare gli aeroplani; collocazione strategica per l’invio e ricezione di comunicazioni tramite onde radio nei lunghi mesi del gelido inverno. Così come esemplificato per la prima volta dai tedeschi già nel 1981, con la costruzione della stazione di ricerca dedicata al geologo del XIX secolo Georg von Neumayer, tra i primi ricercatori a sostenere l’esigenza di una collaborazione della scienza internazionale…
La capsula temporale serbata dal supremo sacerdote nel sepolcro peruviano dell’Oro
“Per volere degli Dei essi verranno sottoposti alla suprema punizione. Che il villaggio dei ribelli venga dato alle fiamme. Che i loro guerrieri versino il sacro fluido della vita come concime nei campi della valle. Che i capi siano separati dalle loro teste, per intercessione di Aia Paec, il Sommo Decapitatore.” I sudditi della città ai margini dell’arida radura pedemontana volsero lo sguardo al piedistallo in mattoni di fango, in base all’usanza dell’antico rito di condanna generazionale. Dove il sacerdote del Gufo, con la maschera e gli occhiali a nascondergli il volto, enunciava la sua parte, in attesa di passare la parola al riconoscibile rappresentante del suo mistico collega, il Serpente. Sotto il manto in scaglie e piume, egli diede seguito all’arcana enunciazione, mentre al centro della triade, il grande Re teneva in alto il suo pugnale dalla forma di una mezzaluna invertita, in grado di riflettere la luce come un tangibile frammento dell’astro solare stesso. I grandi orecchini, con rappresentazioni di uomini-giaguaro e cane a far da contrappunto all’ornamento nasale ricurvo, sopra cui trovava posto l’alto copricapo, simbolo supremo del suo potere. L’armatura costruita con tasselli del miglior argento, oro e rame a disposizione. Terminato il tempo delle semplici parole, egli si rivolse con un gesto verso il basso edificio presenziato dall’unica donna di quel mondo, che aveva assolto al compito di purificazione dei prigionieri. Trasportati al termine di una stringente fune, totalmente privi di vestiti, essi vennero spinti in ginocchio dai guardiani all’ombra dei padroni di un triste destino. Quando l’ombra della meridiana fu prossima a sparire al del tutto, il coltello del sovrano era ormai sopra la testa della prima vittima sacrificale. Con un grido attentamente modulato, venne dato il segnale. E il sangue iniziò a scorrere, copioso.
È la narrazione di cui siamo meglio a conoscenza, forse la più importante di tutte, nella ritualità e celebrazione religiosa del popolo dei Moche, il cui dominio culturale, se non politico da un punto di vista tradizionale, si estese tra il secondo e il nono secolo d.C. in un territorio grosso modo corrispondente alla parte nord-orientale dell’odierna nazione peruviana. Testimoniata non mediante un resoconto scritto, giacché alcun tipo delle loro immanenti codifiche del linguaggio è giunta intatta fino ai nostri giorni, quanto grazie a nette raffigurazioni negli oggetti rituali, sui recipienti di terracotta o ancora tecniche d’incisione e bassorilievo sui metalli, che lavoravano con un grado di perizia molto superiore alla media dei loro vicini sudamericani. Ma forse la più chiara e completa prova di quel mondo, della sua precisa crudeltà ed il modo in cui venivano condotti gli affari di stato, può essere individuata nel singolo ritrovamento archeologico di quell’intera area geografica, denominato in modo metaforico come il Tutankhamon sudamericano. Soprattutto per la fortunata contingenza, che avrebbe permesso ad una serie di tombe particolarmente importanti risalenti al 700 d.C. di sopravvivere intatte dalle predazioni dei ladri, fino al 1987 quando, per una serie di sinergie e convergenze, eminenti addetti del mondo accademico ebbero l’entusiasmante occasione di riportarle alla luce…
L’ignifuga creazione della sabbia rossa, magnifica corona che la Terra indossa
La prima settimana successiva all’approdo della nave di ricerca britannica Endeavour il 29 aprile 1770, capitanata dal celebre James Cook, presso la baia situata nei dintorni dell’odierno centro tecnologico di Sydney, fu un periodo di eccezionali e rapide scoperte totalmente prive di precedenti. Soprattutto grazie ai due naturalisti presenti a bordo Sir Joseph Banks e Dr Daniel Solander, che inoltrandosi nel sottobosco retrostante il litorale, attraverso la tipica gestalt vegetativa ai margini della piana sabbiosa che in seguito sarebbe stata denominata kwongan, riportarono a bordo la più straordinaria serie di campioni botanici e vegetali, definendo chiaramente quanto fosse insolita e meravigliosa la vita nel più nuovo dei continenti, l’Australia. Colpendo in questo modo il capo della spedizione a tal punto, che il ruvido eroe della guerra dei sette anni per la conquista delle colonie della Nuova Francia decise in quel frangente di anteporre la scienza alla tipica nomenclatura incentrata sul prestigio della monarchia. E fu così che al sito d’importanza strategica primaria, riparato dal soffio feroce degli Alisei Sudorientali, venne attribuito l’aggettivo toponomastico di Botanic, poi accorciato in Botany Bay. Entrambi abili illustratori, gli entusiasti scopritori dedicarono dunque il tempo a disposizione in larga parte per mettere da parte, classificare e descrivere l’eccezionale varietà di fiori selvatici dalla distintiva forma, la colorazione diversificata al pari di qualsiasi menagerie piumata nelle principali corti d’Europa. Scegliendo in quel frangente, con chiara proprietà d’intenti, di dedicarne il genere tassonomico al più anziano dei due. Fu la nascita testuale del primo repertorio delle Bansia, piante cespugliose tipiche dei climi caldi e secchi, la cui manifestazione in epoca riproduttiva tra giugno e gennaio ad oggi costituisce un punto fermo nei giardini e nella commercializzazione dei fiori tagliati, a patto di trovarsi in un ambiente funzionale alla sua lenta ma sicura propagazione. Infiorescenza cilindrica e ovoidale, composta da centinaia di parti singole complessivamente sostenuta da brattee tomentose argentate, la cui struttura legnosa interna permane sulla pianta anche per anni successivi al completarsi della stagione. Con stimmi prominenti e produzione di nettare copioso, tale da costituire un vero e proprio punto di riferimento per uccelli e insetti impollinatori, soprattutto nel caso iconico della B. coccinea, versione con striature bianche e rosse del vistoso costrutto vegetale in oggetto. Tesoro anche a vantaggio di un’agile stirpe, particolarmente inusitata dal punto di vista degli studiosi europei: i piccoli mammiferi dotati di marsupio, parte importante dell’ecologia in quel recesso tanto alieno del nostro azzurro e familiare pianeta…



