Sfera, sfera di questo reame. Riporta il Canada oltre il corso del fiume

In un momento mistico dell’esistenza del grande architetto, designer e inventore Buckminster Fuller, dopo che sua figlia era morta per la poliomelite e lui sprofondato nell’alcolismo e la disperazione, una forza misteriosa gli apparve in sogno avvolgendolo in una grande luce. “Tu non ti appartieni. Da questo momento dedicherai la tua vita all’Universo. Confiderai che ogni tua azione sia compiuta nell’interesse degli altri.” Positivista, innovatore, convinto sostenitore delle soluzioni complesse ai problemi di questo mondo, egli avrebbe da quel momento elaborato un metodo creativo finalizzato a migliorare il concetto di abitazione umana. Mediante l’impiego reiterato ed intelligente di una forma destinata a rimanere perennemente associata al suo nome: la sfera geodetica. Struttura reticolare basata su un poliedro fatto di elementi triangolari. In multiple fogge, forme e dimensioni. E con un particolare esempio, soprattutto, più imponente e magnifico di qualsiasi altro.
Il celebre nome venne dunque coinvolto dalla commissione statunitense alla chiamata del sindaco di Montreal Jean Drapeau del 1962, per l’organizzazione di un expo mondiale destinato a rimanere negli annali di questo tipo di eventi. Iniziativa a stretto giro di organizzazione, causa la recente cancellazione dell’impegno precedentemente preso dai sovietici a Mosca per l’anno 1967. Con un tempo così breve e molti detrattori dell’iniziativa nella sua amministrazione, causa mancanza delle risorse operative necessaria, la città si dimostrò tuttavia fin da subito determinata a dare il massimo, giungendo al punto di deviare il corso del proprio fiume principale per l’ampliamento dello spazio a disposizione. Fu proprio di Drapeau dunque l’iniziativa di prendere il suolo rimosso per la costruzione della linea metropolitana e trasportarlo a ridosso delle isole di Notre Dame e Sant’Elena lungo il corso metropolitano del Lawrence. Ed ampliarle esponenzialmente, facendone un letterale palcoscenico per alcune delle strutture più sorprendenti che la collettività potesse riuscire ad immaginare. L’eclettico Buckminster, che in quel periodo aveva iniziato a lavorare con il suo ex-studente e collega Shoji Sadao in uno studio dai molteplici progetti internazionali, intervenne dunque con i cantieri già avviati, e la proposta di quello che in molti sarebbero giunti a considerare il suo capolavoro: 76 metri di diametro e 62 di altezza, entro cui i visitatori avrebbero potuto ascendere mediante l’utilizzo della scala mobile sospesa più lunga del mondo…

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Quando caddero le alte scogliere di Helgoland, isola e fortezza nel Mare del Nord

Secondo una leggenda delle origini del Cristianesimo nell’Europa settentrionale, un monaco di nome Willibrod raggiunse sul finire del VII secolo una landa remota, oltre la costa della Germania e costituita da un arcipelago di due isole, complessivamente non più grandi di quattro chilometri quadrati. Qui egli ebbe ad incontrare un popolo nativo, selvaggio e retrogrado, che venerava un pozzo ed una misteriosa mandria di bovini. Allorché ispirato da Dio in persona, egli bevette l’acqua del pozzo e si nutrì della carne delle mucche sacre, il sant’uomo ebbe a suscitare il senso critico degli abitanti; poiché se lui poteva commettere dei tali sacrilegi e sopravvivere all’ira degli Dei, invero al mondo doveva esistere un Potere più grande. Incontrastato, di fronte a qualsiasi altro. In un’altra versione della storia, ambientata qualche decennio dopo, Willibrod sbarcò appena in tempo per salvare un ragazzo che doveva essere sacrificato al mare tramite il sollevamento della marea. Convincendolo a convertirsi appena in tempo, il che avrebbe impedito all’acqua di salire abbastanza da riuscire ad annegarlo. Un vero e proprio miracolo dunque, che avrebbe contribuito in seguito a renderlo santo, ma anche a far cambiare il nome di questo piccolo satellite del Vecchio Continente da Fositeland, proveniente da Forseti, Aesir della giustizia norrena, ad Heiligland in Alto Germanico, ovvero Terra Sacra. Destinato poi ad elidersi in Heligoland nel tedesco moderno, ed ancor più brevemente Helgoland per i parlanti di lingua inglese. Idiomi corrispondenti ai due popoli che più di ogni altro avrebbero combattuto, sofferto e discusso diplomaticamente per le rispettive competenze in merito, causa l’importanza strategica che questo particolare luogo, più di molti altri, si sarebbe trovato ad avere.
Dal punto di vista geologico sia l’isola principale, che la sua vicina e più piccola Dune, risultano composte da roccia sedimentaria di colore rosso, appoggiata su uno zoccolo dello stesso sostrato candido, e qui invisibile, che altrove giunse a costituire le bianche scogliere di Dover. Con un profilo rialzato rispetto al livello dell’oceano, tale da garantire la presenza di almeno un alto, residuo faraglione costiero detto Lange Anna, “L’alta Anna” che oggi parrebbe nell’ultima fase della sua esistenza, essendo destinato entro una manciata di generazioni a precipitare nuovamente negli abissi che lo avevano un tempo generato. Lungamente trascurate fino all’inizio dell’epoca moderna, causa l’esistenza di molte alternative vie d’accesso alla foce dell’Elba e gli altri fiumi della costa tedesca, l’arcipelago di Helgoland iniziò ad entrare nel mirino della grandi nazioni nel XIX secolo, quando durante le guerre napoleoniche l’ammiraglio Thomas MacNamara Russell lo conquistò per Giorgio III del Regno Unito, ottenendo conseguentemente un documento redatto dalla Danimarca, del cui territorio le due isole facevano nominalmente parte in base alle divisioni dei distretti marittimi settentrionali. Fu l’inizio, essenzialmente, della fine per la landa dove “Non esistevano banchieri né avvocati, e nessun crimine. Dove le tasse non esistono e i traghettatori non chiedono mai la mancia.”

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L’affascinante chiesa medievale che si mimetizza in mezzo ai prati d’Islanda

Benvenuto, esploratore, nella terra fiammeggiante del Nord. Diverse cose avranno suscitato la tua attenzione. Il paesaggio d’innevati rilievi, inframezzato da valli fertili e accoglienti, grazie all’effetto del suolo vulcanico creato sin dai tempi della Preistoria. I fiumi freschi e limpidi che scorrono dalle remote fino al mare. La pressoché totale assenza di foreste, quasi come se il concetto d’albero, a queste latitudini, non fosse in alcun modo allineato con le condizioni climatiche e le caratteristiche ecologiche vigenti. Eppure scoprirai, camminando negli stessi luoghi dei Vichinghi di un tempo, l’occasionale albero solitario, generalmente un esemplare di betulla, salice o sorbo. Potenzialmente sopravvissuto grazie al contributo della popolazione umana. E in un distretto della parte orientale del fiordo Skaga, quella che parrebbe da ogni aspetto rilevante una curiosa forma di escrescenza vegetale. Rettangolare vista di profilo, finché il gioco della prospettiva non permette d’identificarne la superficie apicale, che si estende in senso obliquo verso il terreno. Un tetto a dire il vero, sebbene ricoperto da ciò che in circostanze comuni non saresti incline ad aspettarti: terra ed erba strettamente interconnesse ovvero per riassumere in un singolo termine, la stessa familiare torba del terreno antistante. In una configurazione che ricorda quella di una casa stereotipica, con due principali tratti di distinzione: la porta lignea con due campane appese, che permette di accedere ad un recinto circolare anch’esso ricoperto di fili verdeggianti ove si trova un silenzioso cimitero. Ed una banderuola segnavento finemente ornata, con la dicitura parzialmente cancellata di 167_. Opera, si dice, del famoso intagliatore Gudmundur Gudmundsson detto “il Falegname” su commissione del vescovo Gísli Þorláksson, così come il resto della Grafarkirkja (“Chiesa del Santo Sepolcro”) nella sua forma fisica attuale, risalente a una fedele ricostruzione del XVII secolo sulla base di un edificio precedente di almeno cinquecento anni. E che sarebbe stato originariamente eretto dal vescovo della diocesi su gentile concessione del re d’Islanda, come anche riportato a chiare lettere nella saga di Sturlunga (XIV secolo). Quando era del tutto comune, come lo sarebbe rimasto particolarmente a lungo, per la gente di qui vivere all’interno di residenze costruite con metodologie simili, considerate migliori nell’isolamento degli occupanti dalle basse temperature rispetto alle comuni alternative in legno o pietra. Sebbene caratterizzate da esigenze di mantenimento decisamente più significative, con la sostanziale necessità di ricostruire almeno il tetto praticamente una volta l’anno. Il che non risultava essere, possiamo immaginare, altrettanto complesso o gravoso per un edificio di culto, utilizzato in tal senso dall’intera popolazione locale…

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150 anni dal caso della Mary Celeste: l’inspiegabile scomparsa di un intero equipaggio in mare

Era stata una fortuna che il clima si trovasse in una fase tranquilla, durante l’avvicinamento del brigantino Dei Gratia allo strano vascello non così diverso avvistato a largo delle Azzorre, in quel fatidico 4 dicembre del 1872. Il capitano Morehouse, osservando lungamente il ponte con il suo cannocchiale, si era presto fatto un’impressione, in merito alla strana convergenza di fattori privi di una logica evidente. Perché la simile Mary Celeste, unica identificazione possibile in funzione di tempo, bandiera, aspetto e luogo, si trovava in quel punto piuttosto che a metà strada per lo stretto di Gibilterra, verso la sua destinazione che il suo primo ufficiale gli aveva ricordato essere il porto italiano di Genova? Per quale ragione l’equipaggio aveva ammainato a metà le vele, in assenza di venti pericolosi, nell’apparente attesa del verificarsi di particolari… Fattori esterni? Ma soprattutto, dove diamine erano tutti, vista l’assoluta e evidente desertificazione di quel ponte surreale? Una volta sceso nella iolla, lancia d’ordinanza nelle navi canadesi utilizzabile anche in situazioni d’emergenza, ed avvicinandosi allo scafo assieme a quattro marinai, notò quindi come la scialuppa del possibile relitto fosse inspiegabilmente assente dall’aggancio in corrispondenza della murata. Lanciata la fune con l’utile rampino, aspettò quindi mentre il giovane mozzo saliva a bordo, per assicurare un punto d’accesso di più facile utilizzo. Una volta salito a bordo, le sue scoperte lo avrebbero lasciato del tutto senza parole…
Otto uomini e due donne partono ad ottobre dal molo 50 di New York, con le migliore prospettive e aspettative per il futuro. Non persone qualsiasi, per la maggior parte, bensì veterani della vita di mare, guidati da un capitano esperto impiegato da un consorzio commerciale che in quel caso fatidico, aveva addirittura pensato di portare con se moglie e figlia, affinché potessero sperimentare finalmente le molte meraviglie e il fascino della distante Europa. A giustificare il viaggio, un carico non propriamente semplice da gestire, ma di un tipo non del tutto inaudito: 1.701 barili d’alcol puro, destinato ad aumentare la gradazione del vino italiano (una pratica imprudente che, purtroppo, all’epoca veniva giudicata del tutto normale). Il nome del comandante: Benjamin Spooner Briggs, un cristiano osservante che credeva, paradossalmente, nell’astinenza dall’assumere qualsiasi tipo di bevanda inebriante. Ma anche un uomo affidabile, capace, noto per la sua magnanimità nel risolvere le problematiche nate dalla gestione degli equipaggi. Nulla d’insolito campeggiava all’orizzonte e non c’era ragione, a tal proposito, d’immaginare incidenti prima dell’approdo a destinazione…

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