In principio era il sogno: l’uomo desiderava spiccare il volo, ed avrebbe fatto qualunque cosa per riuscirci. Palloni aerostatici, viti infinite, ali e motori più pesanti dell’aria. Qualcuno pensò addirittura di gettarsi da una torre, indossando un paracadute. Con la selezione darwinista di taluni metodi a discapito di altri, e pagato il duro prezzo collegato a tale risultato, si giunse dunque ad un pensiero di livello più avanzato in cui ciascun approccio era misurato in base ai suoi valori e in certi casi, essi potevano essere combinati tra loro. Il che ci porta alla risposta che l’Aviazione statunitense riuscì a procurarsi nella seconda metà degli anni ’70, alla problematica di come mettere alla prova i nuovi tipi di rotori elicotteristici non più all’interno di un semplice tunnel del vento, ma in condizioni di utilizzo reale ovvero nei vasti spazi azzurri che separano il terreno dagli strati superiori dell’atmosfera. RSRA (Rotor Systems Research Aircraft) era il nome del progetto che vide in prima battuta coinvolte diverse aziende fornitrici, benché pochi nutrissero dubbi in anticipo sul fatto che a vincere sarebbe stato ancora una volta il principale specialista nazionale del volo con ala rotante, l’azienda aerospaziale fondata 50 anni prima da Igor Sikorsky. Che aveva già creato mezzi ibridi, ma mai portando tale filosofia progettuale fino a tali, estreme conseguenze. La prima iterazione del concetto era già stata esplorata, in effetti nel 1964 col modello S-61F, un apparecchio costituito dal classico elicottero di ricognizione navale SH-3A Sea King, modificato tramite l’aggiunta di due motori a reazione Pratt & Whitney J60-P-2, oltre a una coda più grande e stabilizzatori prelevati da un Cessna T-37. Ma benché i committenti avessero incoraggiato inizialmente un analogo reimpiego di componentistica esistente per l’RSRA, allo scopo di contenere i costi, la Sikorsky determinò ben presto che un velivolo capace di mantenersi in aria tramite dei motori jet e/o un rotore dalle caratteristiche estremamente variabili avrebbe dovuto avere delle caratteristiche aerodinamiche create ad-hoc. Il risultato di tale studio erano stati dunque l’S-72 e l’S-68, due mezzi rispettivamente dotati di pale contro-rotative ed un tradizionale rotore di coda, che esploravano la combinazione di fonti di portanza differenti, ottenendo nel contempo dei vantaggi prestazionali. Tanto che il secondo riuscì notoriamente a raggiungere la velocità notevole di 360 Km orari. Il che fu la fonte dell’idea ulteriore, di mettere alla prova l’idea di un letterale eli-aereo, creato per combinare i migliori vantaggi di entrambi i mondi, massimizzando in questo modo la sua versatilità. Che il risultato fosse destinato ad anticipare nome di una delle più famose astronavi di Guerre Stellari, fu più che altro un caso. O magari no, chi può dirlo…
ingegneria
Dopo la demolizione, una torre che riemerge dal ricordo della vecchia New York
La ragione per cui un grattacielo, tra la più complesse ed avanzate opere d’ingegneria dei nostri tempi, non può essere davvero definito un monumento al pari di un antico cenotafio, piramide o basilica di tipo religioso ed altro, è che nel tempo accelerato dei nostri giorni, nulla dura per sempre ed ogni punto fermo, non importa quanto dispendioso ed imponente, può esser cancellato con un semplice colpo di spugna. Lo scopo: costruirci sopra qualche cosa di migliore, più affascinante e “moderno”, qualunque cosa voglia dire, caso per caso, l’utilizzo di questo aggettivo dai molteplici significati contestuali. Nella cognizione dell’architettura sostenibile ad esempio, tale approccio cognitivo anticipa la messa in opera di costruzioni dai molti utilizzi, potenzialmente scorporabili e prive di un impatto carbonico capace d’inficiare ulteriormente la vigente crisi climatica terrestre. Ma ce lo vedete qualcosa di simile, a Manhattan? L’isola newyorchese celebre come uno dei punti d’accentramento urbano più densi al mondo, nonché il primo definibile in questi termini, attraverso l’imprescindibile linguaggio creativo fatto di ferro, vetro e cemento. E di sicuro non ce l’hanno visto i direttori del management della JP Morgan, il colosso della finanza da oltre 255.000 dipendenti, di cui 14.000 della sede centrale cominciavano oggettivamente a ritrovarsi piuttosto stretti, nello spazio tradizionalmente loro deputato dai tempi dell’acquisto dello Union Carbide Building, storico grattacielo di 52 piani e 215 metri nel distretto di Midtown già edificato sopra le macerie del vecchio Hotel Marguery di appena sei piani, risalente all’inizio del secolo scorso. Quale altra possibile soluzione dunque, se non procedere all’abbattimento della seconda generazione, onde fare un valido uso del vero valore collegato a tale proprietà, il “piccolo” appezzamento di terreno rettangolare situato accanto all’iconica Grand Central Station, costruendoci un qualcosa che New York non vede tanto spesso. Ed in base a determinati parametri di riferimento, persino in questo luogo può essere chiamata un vera e propria rarità. Enters l’importante studio architettonico Foster + Partners, giusto mentre le prime maestranze incaricate, armate non di esplosivi o sfere demolitrici, bensì attrezzi per lo smontaggio sistematico e l’abbattimento delle polveri conseguenti, iniziavano nel 2019 a fare l’improbabile: distruggere un gigante, per fare spazio a un titano. 70 piani e 423 metri, quasi esattamente il doppio della costruzione precedente (e soffitti molto più alti, a quanto pare) in un’interessante configurazione che riprende la tipica struttura a gradoni dell’architettura a “torta di matrimonio”, ma rivista tramite l’impiego di proporzioni geometriche proiettate in senso verticale, piuttosto che mirate a dare un mero senso di stabilità apparente. Per l’ottenimento di un effetto slanciato e dinamico, ulteriormente accresciuto mediante la figura romboidale ripetuta, per ciascun segmento del grattacielo responsabilmente privo di alcun tipo di pinnacolo sporgente. Giacché la nuova torre non mira ad essere il “maggiore” di nulla, risultando meramente il quinto grattacielo più alto di New York, il decimo in tutti gli Stati Uniti. Essa semplicemente esiste, sicura nel contributo significativo allo skyline urbano. In attesa dell’inaugurazione, prevista entro la seconda metà del vigente anno 2025…
XP-79: l’ala guerriera che seziona il bombardiere nemico
Nel volo acrobatico ad alte prestazioni, nient’altro che un diverso giro di parole in grado d’identificare il combattimento aereo, un problema costante può essere individuato nella condizione accidentale nota come G-LOC (G-induced Loss Of Consciousness) ovvero la perdita di coscienza temporanea da parte del pilota, dovuta al deflusso transitorio del sangue dalla zona del cervello verso i piedi durante una virata particolarmente ardita. Un problema particolarmente sentito durante il grande conflitto degli anni ’40, quando nonostante la quantità di duelli condotti nei cieli d’Europa e del Pacifico, le tute a compressione G risultavano una tecnologia poco studiata e dall’impiego limitato nella maggior parte dei teatri di guerra. Dovette dunque far accendere da subito le giuste lampadine, la proposta del rinomato ingegnere aeronautico Jack Northrop, già capo in precedenza di tre compagnie recanti il suo stesso nome, quando nel 1942 presentò ai capi del settore ricerca & sviluppo dell’Aviazione statunitense una nuova interpretazione del concetto di aeroplano. In cui non soltanto coda e fusoliera venivano sostanzialmente eliminate come superflue, in maniera non diversa dal suo recente prototipo N-9M (un’idea di bombardiere destinato a diventare, moltissimi anni dopo, il B-2 Spirit della Northrop Grumman Corporation) ma il singolo membro dell’equipaggio a bordo di quello che avrebbe assunto la denominazione provvisoria di XP-79 assumeva un profilo aerodinamico dall’impatto sensibilmente minore, trovandosi posizionato in corrispondenza di una bolla panoramica in posizione prona di quella che era sostanzialmente una “falsa” ala volante, essendo dotata anche di superfici di volo in posizione perpendicolare al suolo.
Volare come Superman, con la testa sollevata e lo sguardo rivolto in avanti, le mani protese in questo caso a stringere una cloche simile alle corna di un bovino potrà dunque anche sembrare poco pratico. Ma riprende a pieno titolo e in un certo senso migliora la condizione naturale degli uccelli, permettendo in linea di principio a brevi missioni di essere condotte in modo rapido, efficace, predatorio. Aggettivi altamente desiderabili per questa insolita interpretazione di un intercettore ad alte prestazioni, concettualmente non così lontano dal quasi coévo Me 163 Komet, che un paio d’anni dopo avrebbe visto il compatto caccia tedesco proiettato all’indirizzo delle formazioni d’attacco alleato grazie all’utilizzo di un potente motore a razzo HWK. Laddove la versione americana, destinata a scongiurare un reiterato impiego dei bombardamenti a tappeto che tanto erano costati alla città di Londra durante il sanguinoso periodo della cosiddetta Battle of Britain, di impianti simili ne possedeva ben due, originariamente commissionati alla compagnia Aerojet. Almeno finché, ben prima della realizzazione pratica del velivolo in quelle che erano ormai le ultime battute della guerra, non fu deciso di sostituire i suddetti motori con una coppia di Westinghouse 19B da 5.1 kN cadauno. Abbastanza da spingere il potente apparecchio alla velocità di 880 Km/h, con un rateo di salita di 20 metri al secondo, sebbene un ritmo simile non fosse facile da mantenere particolarmente a lungo. Né aveva bisogno, sostanzialmente, di riuscire a farlo. Giacché una volta raggiunto il nemico l’XP-79 non avrebbe certo perso tempo in lunghi e complicati inseguimenti con la sua scorta. Preferendo piuttosto impattare a gran velocità contro le superfici di volo degli aerei più grandi, vulnerabili e perciò preziosi dell’intero schieramento…
Un drone atipico che si trasforma in elicottero potendo fare a meno della fusoliera
Osservando un memorandum corrente del programma militare della DARPA cominciato il maggio scorso, nome in codice ANCILLARY, si sviluppa presto l’impressione di trovarsi nel capitolo sull’aviazione di un romanzo di fantascienza. Sei velivoli di un gruppo di finalisti, da scremare ulteriormente mediante una serie di test destinati a durare fino al 2026, prodotti da compagnie del volo non tutte o necessariamente o tradizionalmente parte dei fornitori delle forze armate statunitensi. Realtà come la Griffon Aerospace, la Karem Aircraft, la Vanilla Unmanned, in grado di raggiungere attraverso decadi l’odierna specializzazione in uno dei seguenti due campi: il volo autonomo ed il VTOL (decollo ed atterraggio verticale). Entrambi crismi operativi giudicati necessari per l’AdvaNced airCraft Infrastructure-Less Launch And RecoverY, acronimo pantagruelico determinato dalle attuali necessità di un campo di battaglia in continua trasformazione. Dove la presenza di un pilota a bordo si sta trasformando sempre più in zavorra, mentre la disponibilità di campi di volo o navi portaerei non può essere garantita nella totalità dei teatri d’ingaggio futuro. Che gli aerei in questione, tutti elettrici, siano stati ispirati o meno dalla situazione prolungata del conflitto ucraino, appare in questa fase meno evidente delle loro caratteristiche marcatamente biomimetiche: alcuni sembrano insetti, altri uccelli con arcuate ali da gabbiano.
E poi c’è l’idea di Sikorsky. Da lungo tempo iconica azienda nata per iniziativa del pioniere del volo Igor S nel 1923, tra i primi a concepire l’idea di un elicottero a singolo rotore. Che con il suo mezzo dal nome assai generico di Blown Wing UAS (Unmanned Aircraft System, in questo contesto un sinonimo del termine “drone”) sembrerebbe aver del tutto rivoluzionato la maniera per riuscire a concepire questa intera categorie di apparecchiature. Nel momento esatto in cui si osserva decollare nell’ultimo video rilasciato, dal carrello simile ad un assemblaggio di pogo sticks l’oggetto spinto da una coppia di motori non del tutto identificato, senza coda, senza una cabina (chiaramente) ne altra superficie visibile che interrompa quella lunga ala trapezoidale. Finché raggiunta un’elevazione adeguata, come niente fosse si dispone parallelamente al suolo, per procedere in maniera orizzontale accelerando in modo significativo la sua operante metodologia di propulsione. È come la manovra compiuta dal flusso vettoriale di un Harrier Jet o moderno F-35, ma effettuata da un prototipo del peso di soli 52 Kg e mediante il ri-direzionamento dell’intero velivolo, piuttosto che il mero alloggiamento degli ugelli di spinta. Le opzioni a disposizione per l’impiego di una tale piattaforma per di più scalabile, tendono ad apparire virtualmente infinite…