Me 323 Gigant, l’imponente profilo di un vagone ferroviario volante

Fin dagli albori del conflitto umano, l’ottenimento di una posizione sopraelevata costituisce uno dei vantaggi più importanti per incrementare la quantità di manovre possibili ed in conseguenza di ciò, le opportunità di tratteggiare i limiti e l’estensione della battaglia. La cima di una collina da cui lanciare oggetti, i bastioni di un castello pieno di cannoni, la tolda di un possente galeone preso d’assalto dagli abbordatori… Fu perciò del tutto naturale, con l’introduzione del volo a motore nella prima parte del secolo scorso, che una delle prime applicazioni degli aerei dovesse palesarsi in campo militare. Ben oltre l’uso circostanziale della grande guerra, tuttavia, le cosiddette macchine volanti avrebbero trovato il modo di moltiplicarsi, per foggia, grandezza e funzioni, soprattutto entro il verificarsi del secondo confronto mondiale. Quando in maniera quasi naturalistica, i ruoli possibilmente ricoperti da un pilota e il suo velivolo videro questi ultimi adattarsi alla funzione specifica per cui erano stati costruiti. Oltre alla dottrina e le priorità sentite dalla classe ingegneristica di ciascuna nazione. Così dell’avanzata selezione tedesca, si tende a ricordare gli agili caccia, i potenti bombardieri concepiti per portare il carico a destinazione. Laddove poche parole vengono comunemente spese nel contempo, per il maggior esempio di trasportatore alato costruito fino a quel momento nella storia: un apparecchio dall’apertura alare di 55 metri e una lunghezza di 28, essenzialmente paragonabili ad un moderno Airbus A310 o Boeing 767. Tanto massiccio che persino tramite la potente macchina industriale dei primi anni di guerra, fu possibile costruirne poco meno di 200 esemplari. La stragrande maggioranza dei quali, finì per essere abbattuta in varie circostanze dalle forze aeree alleate. Con un significativo vantaggio strategico al conseguimento di ciascuna vittoria; dopo tutto, era questo l’unico oggetto in aria capace di contenere fino a 130 uomini ed il loro equipaggiamento o 12.000 Kg di carico, consistente di un pezzo d’artiglieria da 15 cm sFH 18 con il suo trattore, piuttosto che un cannone antiaereo Flak da 88 mm dotato di completo munizionamento ed accessori. Il che poteva sottintendere, ad ogni consegna portata a termine, un impatto significativo sull’andamento della linea del fronte, a patto di riuscire a portare a termine il tragitto pre-determinato. Un proposito generalmente tutt’altro che scontato, data l’agilità praticamente nulla anche nelle versioni maggiormente perfezionate, a causa dei sei motori prodotti nella Francia occupata del modello Gnome-Rhône 14N, per un totale di appena 7.080 cavalli di potenza, il che portava spesso a considerevoli difficoltà nello staccarsi da terra. Ostacolo previsto a margine dell’ideazione del progetto stesso, creato su specifiche esigenze ed a partire da quello che era stato, in origine, un semplice velivolo senza motore con designazione numerica di Me 321. Finché non fu scoperta, con conseguenze alquanto dispendiose in termini di uomini e materiali, la sostanziale impossibilità di utilizzarlo con finalità di assalto…

Tutto ebbe origine effettivamente nel 1940, dopo il successo nell’impiego dell’aliante leggero DFS per l’attacco al forte Eben-Emael in Belgio. Quando la classe dirigente della sempre più indispensabile aviazione tedesca, la leggendaria Luftwaffe, tratteggiò l’ambizioso requisito perseguito in vari stadi del conflitto sotto l’egida della bandiera dei principali contendenti: l’opportunità di consegnare a destinazione, nel momento di più urgente necessità, un carro armato completo di equipaggio e pronto al combattimento. Un Panzer II o III, per essere precisi, dal peso massimo di 23 tonnellate, previo carico attraverso la prua apribile del Me 321 ed il conseguente sollevamento e trasporto in posizione di discesa attraverso l’impiego di un Junkers Ju 90 spinto al limite della potenza dei suoi quattro, sofferenti motori. O approccio ancor più spettacolare, un trio di Messerschmitt Bf 110 in formazione a diamante, approccio tanto pericoloso da portare successivamente alla creazione ad-hoc dello Heinkel He 111Z “Zwilling” (Gemelli) una coppia di He 111 uniti assieme da un’ala centrale, dov’era stato posizionato preventivamente un quinto motore. Prospettando manovre che tendevano a richiedere sempre e comunque un’assoluta superiorità aerea ed il silenzio pressoché totale delle batterie antiaeree nemiche, per non parlare degli ampi spazi necessari al fine di portare a compimento l’atterraggio, generalmente condotto mediante una coppia di sci retraibili nel ventre del gigantesco aliante. L’idea che dotare della capacità di decollare e spostarsi in autonomia (almeno nella maggior parte dei casi) potesse incrementare grandemente l’utilità del Gigant venne dunque sollevata per la prima volta nel 1941, con la pianificazione dell’operazione Sea Lion per l’invasione dell’Inghilterra. Quando il Comando centrale diede mandato alle due compagnie Junkers e Messerschmitt di elaborare i propri piani per un trasporto pesante. Opportunità che vide la prima fallire in modo spettacolare, con l’inerentemente instabile Ju 322 Mammut, per di più costruito integralmente in dispendioso legno. Mentre la controparte suggerì, in maniera molto più semplice, di motorizzare il suo maggiore aliante. Aiutandolo a staccarsi da terra, quando necessario, tramite l’impiego di razzi ausiliari Walter HWK 109-500 Starthilfe in una sorta di versione ante-litteram del sistema JATO statunitense.
Composto principalmente di un telaio in acciaio con sezioni strutturali lignee, ricoperto di stoffa laccata con vernice tenditela, il nuovo modello presentava dunque una sorprendente capacità di resistere al fuoco nemico, avendo come punti vitali soltanto la cabina di pilotaggio corazzata, i sei motori e le superfici di controllo. Ma quasi nessuna possibilità di sfuggire agli eventuali aggressori, nonostante le fino a sei posizioni di fuoco per mitragliatrici (ed in seguito, cannoni) del tutto insufficienti a respingere una formazione di caccia, come veniva invece fatto talvolta dalle squadre in formazione serrata dei bombardieri intenti a percorrere la rotta verso l’obiettivo di turno. Questo scoprirono, ben presto, i malcapitati equipaggi e passeggeri dei Gigant inviati a rifornire le truppe di Rommel degli Afrikakorps sotto assedio in Tunisia verso la fine del 1942, con il caso più eclatante di un’intera formazione di 27 aerei intercettata nello stretto di Sicilia da sette squadroni di Spitfire e P-40 la quale nonostante una nutrita scorta di caccia tedeschi, avrebbe visto più della metà del carico precipitare nelle inclementi acque del Mediterraneo sottostante. Non che il successo sul fronte orientale, nel corso della fallimentare Operazione Barbarossa fosse destinato a rivelarsi molto più soddisfacente. Con la considerevole lentezza in grado di condizionarne l’uso sulle lunghissime distanze da percorrere, facendone più che altro un apparecchio utile durante le fasi di evacuazione d’emergenza nel corso della disastrosa ritirata finale.

Costruito in materiali facilmente inclini ad incendiarsi, nonché utilizzato in una vasta serie di operazioni indirizzate al disastro, il Gigant vide la stragrande maggioranza dei propri esemplari condannati alla perdita in combattimento o a seguito d’inevitabili incidenti. Tanto che, fino al 2012 non avevamo notizia di un singolo esemplare sopravvissuto. Momento storico nel quale la ricercatrice storica nonché esperta di immersioni Cristina Freghieri individuò grazie al consiglio di alcuni pescatori sardi il punto d’impatto più probabile per un paio di Me 323 precipitati in mare nei dintorni dell’arcipelago della Maddalena. Uno dei quali, da un sopralluogo a circa 60 metri di profondità, risulto essere ancora ragionevolmente integro, permettendo per la prima volta di scrutare in epoca contemporanea le reali proporzioni di questo desueto mostro dell’aviazione. Uno sguardo privilegiato all’indirizzo dei punti estremi raggiunti dall’ingegneria umana, nel tentativo di ottenere il predominio in un’intera epoca. Quando ebbero l’origine gli ancora attuali e incancellabili confini disegnati con la forza delle armi. Un peccato originale che, in maniera anche troppo chiara al giorno d’oggi, rischia di essere riscritto un giorno sulla base degli stessi princìpi. Soltanto che potrebbero non essere più gli uomini a fuoriuscire dal ventre degli aerei da trasporto, quando sarà giunto il fatale momento. Bensì macchine armate di macchine, codificate per dare il più basso valore possibile alla vita di coloro, e le famiglie di coloro, che ne avranno create altrettante.

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