“Fui costruita senza l’utilizzo di tecnologia moderna” esordisce l’immagine memetica della Via Appia Antica su Facebook, condivisa dall’uomo medio che non riesce a smettere di pensare all’Impero Romano “E sono ancora esattamente come il giorno in cui mi hanno inaugurato.” Seguita dal controllo per comparazione di una strada contemporanea: “Ingegneri laureati hanno firmato il mio progetto.” E qui, l’asfalto ricoperto da crepe e difformità e buche: “Guardatemi adesso.” Ah, i bei tempi andati! La realtà d’altronde è che costruire una strada fatta per durare non è necessariamente difficile a patto di seguire determinate linee guida. Giacché il senso comune, un tempo fondamento delle professioni tecniche di tipo più diverso, è perfettamente in grado di farci capire cosa può resistere per decadi, generazioni o persino secoli a venire. I problemi cominciano, di loro conto, quando le infrastrutture iniziano ad essere impiegate DAVVERO. Quante tonnellate di veicoli attraversano, oggigiorno, un importante punto di collegamento tra due province? E quanti solevano farlo prima dell’invenzione dei veicoli a motore? Una domanda che diventa tanto maggiormente significativa, nel momento in cui un degno svincolo conduce all’inizio di un ponte. Ove la massa soverchiante si trova ad essere affiancata dalla stessa forza di gravità, nel tentativo di rovesciare le aspirazioni e aspettative dei costruttori alle origini della contingenza. Considerazione non semplice da soddisfare. E che porta talvolta all’estensione delle tempistiche necessarie alla risoluzione di un particolare problema.
Ad esempio: era almeno dall’inizio del XIX secolo che nello stato tedesco della Sassonia si era percepito il bisogno di costruire una ferrovia in grado di collegare Lipsia ad Hof, e per suo tramite Norimberga. Una missione almeno in apparenza impossibile, a causa della profondità e ripidità della valle del fiume Göltzsch, da cui nessuna locomotiva a vapore avrebbe potuto risalire nello stesso modo in cui era discesa. E un ponte, che avrebbe dovuto essere alto 78 metri e lungo 574, appariva semplicemente al di là della portata dell’ingegneria corrente. Questo almeno finché osservando le strutture comparabili costruite nelle successive decadi in Inghilterra, Francia ed altri paesi d’Europa, alla compagnia ferroviaria Sassone-Bavarese non venne in mente di indire un concorso. Era il 27 gennaio del 1845 quando per l’offerta di 1.000 talleri al vincitore, ben 81 aspiranti progettisti si presentarono di fronte a una commissione guidata dal rinomato professore di architettura di Dresda, Johann Andreas Schubert, andando tutti incontro ad rifiuto per lo più categorico. La ragione era presto detta: di fronte alla necessità di dare la certezza che tali proposte potessero durare nel tempo, egli non poté offrire tale garanzia in tutta coscienza per nessuno dei casi vagliati. Finché in parte esasperato, in parte ispirato dalla situazione, non consigliò di dividere il premio tra quattro delle idee migliori. Prima d’impiegarle come punto di partenza per la SUA idea di come dovesse essere costruito il viadotto del Göltzsch. Il che avrebbe finito per richiedere ulteriori mesi di calcoli e approfondimenti, visto l’approccio totalmente innovativo da parte di Herr Schubert di un processo di sua esclusiva invenzione. Quello che oggi siamo soliti chiamare analisi strutturale, o calcolo statico delle forze in gioco…
Il Göltzschtalbrücke, come viene chiamato ancora oggi in lingua locale, si presentò fin da subito come un ponte dalle caratteristiche molto particolari. Non soltanto per le dimensioni significative per l’epoca, ma il tipo di materiali utilizzati per costruirlo. Il rinomato ingegnere aveva infatti consigliato a tal fine d’impiegare niente meno degli umili mattoni, sfruttando la grande quantità di cave d’argilla situate in questa regione della Germania. Un approccio che avrebbe portato alla creazione di ben 20 forni temporanei lungo il corso della ferrovia, che avrebbero lavorato in modo pressoché incessante per tutti gli anni della costruzione tra 1847 e il 1851. Per un totale stimato di blocchi “minimi” dalle dimensioni di 28×14×6,5 cm pari a 26.021.000 (135.000 metri cubi) coadiuvati da taluni elementi di maggior carico strutturale, quali i piloni e parte degli architravi, posti in essere piuttosto tramite l’impiego di massicci blocchi di granito ed altri elementi tagliati dalle più convenzionali cave. Il che non avrebbe d’altra parte facilitato in alcun modo la concezione strutturale del viadotto, destinato a presentarsi nella sua versione posta in essere con un gran totale di 98 archi disposti su tre livelli, esteriormente comparabili ad un’approssimazione visuale del Colosseo. Di particolare interesse inoltre i due archi dalle dimensioni maggiorate a ben 30 metri del punto centrale, originariamente non previsti ma introdotti dal collega di Schubert, Robert Wilke al fine di contrastare il problema di un fondo non sufficientemente solido della valle fluviale, che altrimenti avrebbe potuto compromettere la stabilità del ponte. L’effettiva costruzione avrebbe dunque richiesto la partecipazione di 23.000 tronchi d’albero per le impalcature e ben 1.736 operai edili, le cui condizioni di lavoro antecedenti alle norme di sicurezza contemporanea ed altri accorgimenti nell’organizzazione dei compiti avrebbe portato purtroppo a 31 decessi. Raggiunta l’ora dell’inaugurazione il 15 luglio del 1851, il viadotto di Göltzsch era il ponte più alto al mondo, e riesce ancora oggi a mantenere tale record nel più specifico ambito di quelli costruiti in percentuale preponderante mediante l’utilizzo di semplici mattoni. Ma il suo ideatore principale, in tale frangente, risultò assente alla cerimonia, ragion per cui iniziò a circolare la voce secondo cui avendo realizzato di aver sbagliato i calcoli, egli si fosse suicidato gettandosi verso la valle sottostante, al fine di non dover fare i conti con il problema. Una visione molto tragica delle cose destinata a rivelarsi, in seguito, particolarmente infondata…
Johann Andreas Schubert era in effetti figlio di un manovale nonché un liberale proveniente dal popolo, convinto della necessità della creazione di un’Assemblea Costituente, che aveva finito per restare coinvolto nella fallimentare rivoluzione tedesca del 1848-49 contro il re di Prussia Federico Guglielmo IV. Al punto da ospitare nella propria casa di Dresda un importante incontro tra i sediziosi Gottfried Semper, Richard Wagner e l’anarchico Bakunin. Ragion per cui le autorità avrebbero deciso di punirlo negli anni a venire, in maniera oggettivamente piuttosto moderata, impedendogli di partecipare alle celebrazioni collegate alle sue opere più importanti, cionondimeno portate a termine per il sommo beneficio della nazione.
Il ponte Göltzschtalbrücke per fortuna sarebbe sopravvissuto agevolmente al suo decesso intercorso nel 1870, diventando oggetto di successive ed importanti opere di mantenimento. Fino al rinforzo e l’aggiunta di un parapetto migliorato alla parte superiore, portando a significative variazioni della struttura originaria che gli hanno impedito ad oggi di figurare nell’elenco dei monumenti iscritti a patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Ma non c’è qualifica di siffatta natura, per quanto prestigiosa, che possa portare agli investimenti necessari per il mantenimento pluri-generazionale di un’opera tanto imponente. Al pari di quanto possa servire, come nel caso qui discusso, l’effettiva necessità di continuare ad utilizzarla. Forse la più pratica approssimazione all’indistruttibilità, per qualsiasi creazione posta in essere dalle agili mani di creature pensanti.