La biologia nei dintorni di Uluru, l’imponente roccia sacra per i popoli aborigeni, ha sempre assunto proporzioni e metodologie di sopravvivenza fuori dal comune. Per le alte temperature, la bassa umidità e la scarsità di cibo, ma anche il pregresso isolamento genetico di un’intero continente, straordinario ricettacolo di soluzioni e strade alternative scelte dall’evoluzione animale. Potrà perciò sorprendervi, la reazione che un abitante dell’Africa Meridionale trasportato in questo ambiente potrebbe avere, ritrovandosi a contatto con una delle creature locali più bizzarre in senso generale, eppure in grado di suscitare in lui l’immediato senso della nostalgia di casa. Ciò in quanto esiste una palese convergenza di fenotipi tra la “talpa” dorata del suo luogo d’origine (fam. Chrysochloridae) ed il predatore sotterraneo d’artropodi tipico del continente d’Oceania, similmente dimensionato, del tutto paragonabile nella colorazione e nei comportamenti dimostrati nel corso della sua semplice, ma interessante esistenza. Che ciononostante può essere individuato nelle due specie facenti parte del genere Notoryctes, famiglia Notoryctidae, costituenti le uniche rappresentanti di un ramo particolarmente isolato del grande albero della vita, situato ai margini di quello dei marsupiali. Per il possesso di una piccola tasca rivolta all’indietro e capace di contenere fino a due figli alla volta, almeno finché non riescono a raggiungere l’indipendenza. Il che ci induce a desumere, tutto considerato, che la forma più efficiente in luoghi come questi possa essere individuata in un tubo peloso della lunghezza di 12-16 centimetri con corta coda finale, dal naso sensibile e del tutto privo di aperture oculari, le forti e corte zampe anteriori dotate di possenti artigli per scavare sottoterra il proprio percorso verso la soddisfazione gastronomica e la salvezza. Organismo estremamente specializzato, sotto ogni aspetto ed al tempo stesso dotato di una spontanea predisposizione alla furtività, tanto che risulta rara e preziosa l’opportunità di vederlo, pur trattandosi secondo studi di settore di una presenza tutt’altro che rara o a rischio di estinzione. Di cui è stato calcolato come, a parte le comunità maggiormente isolate dei popoli indigeni australiani, gli avvistamenti registrati dalla scienza superino raramente la quantità media di un l’anno, spesso con notevole copertura mediatica ed entusiasmo da parte del mondo accademico interessato all’argomento. E non vi sorprenderà sapere come a questo punto, pur tenendo conto degli sforzi pregressi, siano molto pochi i dati a nostra disposizione sul tema del comportamento, la metodologia riproduttiva, lo stile di vita e l’approccio risolutivo ai reiterati problemi del quotidiano da parte di questo carnivoro sorprendentemente abile nell’antica e imprescindibile arte della predazione…
L’aspetto che distingue maggiormente la talpa marsupiale dalle sue controparti europee, accomunandola invece alla Chrysochloridae africana, è l’incapacità di scavare tunnel permanenti nel sottosuolo a causa della natura friabile sabbiosa di quest’ultimo nei rispettivi habitat di provenienza. Il che porta queste creature geograficamente distanti ma egualmente ctonie ad un movimento verticale dei propri artigli, che si sostituisce a quello orizzontale della fam. Talpidae europea somigliando piuttosto all’approccio locomotorio di un nuotatore olimpico, intento a dimostrare la propria capacità d’eseguire lo stile del delfino o della farfalla. Un stile biomeccanico mantenuto dalla Notoryctidae anche nelle occasionali spedizioni di superficie, che la vedono spostarsi con rapidità decisamente inferiore nonostante il copioso investimento energetico, in un movimento capace di tracciare tre caratteristiche linee sinuose e parallele che costituiscono l’evidente segno del suo passaggio. Ragion per cui l’animale emerge raramente, concentrando tali contingenze nella sola stagione delle piogge, o probabilmente al presentarsi dell’urgente necessità di nutrirsi dopo un periodo particolarmente magro. Questo perché come dicevamo la talpa locale è solita nutrirsi preferibilmente di larve d’artropodi, millepiedi, vermi e l’occasionale piccolo rettile, a cui da la caccia grazie al suo naso a forma di scudo e protetto da uno stato di pelle simile al cuoio, pur essendo dotato di un organo di Jacobson paragonabile ad una versione sottodimensionata di quello dei cani o dei suini. Laddove prevedibilmente atrofizzato nel corso dei secoli risulta essere il suo senso della vista, al punto che gli organi oculari restano soltanto come degli accenni di lenti situate sottopelle, essendo addirittura privi del sistema nervoso necessario alla percezione di luce ed ombra. Non che tale distinzione abbia fondamentalmente alcuna importanza per lei, mentre la talpa si sposta parallelamente alla superficie senza lasciar dietro di se alcun tipo di galleria permanente, scendendo qualche volta e per motivi largamente ignoti fino alla profondità di due metri e mezzo.
Largamente sconosciuta al mondo scientifico fino alla prima classificazione del 1889, ottenuta grazie a un esemplare spedito dal naturalista Stockman W. Coulthard al direttore del Museo dell’Australia Meridionale E. C. Stirling, la talpa australiana fu fraintesa ed inserita fin da subito in un’erronea categoria tassonomica. Soprattutto per la condizione ormai fortemente decomposta dell’olotipo una volta consegnato al museo, che rese impossibile identificare la presenza del marsupio e delle ossa epipubiche, tipiche dei marsupiali e monotremi della nostra Era. Il che, unito all’attestazione praticamente nulla di questa tipologia di esseri nel repertorio paleontologico australiano, avrebbe permesso soltanto nel 1920 una collocazione più corretta della loro categoria, unitamente all’individuazione da parte del britannico M.R. Thomas di una seconda specie distinta, che avrebbe portato alla distinzione tra la nuova talpa marsupiale settentrionale (N. caurinus) e quella meridionale (N. typhlops) ancora oggi considerata la più comune. Ancorché le due risultino praticamente identiche ad uno sguardo profano, risultando distinguibili soltanto dalla grandezza dei fori auricolari e alcune caratteristiche della dentizione nella mandibola inferiore. Oltre a, questione decisamente più evidente, un areale di appartenenza corrispondente alle zone settentrionali del deserto di Gibson, letteralmente situato all’estremità continentale opposta rispetto allo stato dell’Australia Meridionale.
Rispettivamente chiamate itjaritjari e kakarratul dalle tribù aborigene dei rispettivi ambienti, questi piccoli marsupiali hanno lungamente costituito per alcune di loro un’ispirazione totemica e spirituale di notevole importanza. In modo particolare per il popolo dei Mala della zona di Uluru, le cui leggende parlano della divinità femminile Minyma Itjaritjari che vivendo sotto la grande roccia emergeva occasionalmente al fine di conversare con le madri del villaggio ed osservare i loro figli che giocavano negli immediati dintorni. Una casistica pregressa la cui prova pratica, nell’opinione degli anziani, è costituita dai fori presenti nella pietra, scavati per l’appunto dai forti artigli della donna-talpa. Una risultanza di fattori convergenti nelle metodologie impiegate dal pensiero e dalla fantasia dell’uomo, così come la selezione naturale pare agire in modo prevedibile soprattutto presso luoghi dalle caratteristiche più estreme, dove la sopravvivenza è frutto di un meritorio e approfondito perfezionamento. Finché l’aurea regina delle occulte profondità, nuotando fino alla destinazione scelta, continuerà ad emergere per individuare interessanti odori. Tre le cose più simili su questa Terra ad un verme delle sabbie del pianeta Dune. Fatta eccezione per il pelo, e le dimensioni massime che è in grado di raggiungere… O almeno, così crediamo?